Il congedo di Draghi

A tre settimane dalla scadenza del suo mandato, esponenti dei falchi della finanza europea di Germania, Olanda e Francia hanno mosso un duro attacco a Mario Draghi presidente della Bce per il tipo di politica monetaria fin qui praticato, dei tassi accomodanti e del recente rilancio del Quantitative easing con l’acquisto di titoli sovrani per un importo di 20 miliardi di euro al mese. Gli sono state contestate le recenti misure adombrando il sospetto che potrebbero nascondere l’intenzione di “proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse” comportamento giudicato essere stato influenzato da convinzioni politiche e quindi sostanzialmente “non indipendente”. Un grave attacco che mette inevitabilmente a nudo lo scontro in Europa di due linee nettamente inconciliabili, tra chi sostiene che l’euro sia compatibile solo con stati virtuosi, responsabili e coi conti a posto e chi si dimostra disposto a rifinanziare i debiti di paesi della stessa area a costi più sostenibili. La Lagarde è così avvertita e dovrà decidere con chi stare quando il 1° novembre prenderà il posto dell’italiano.

La scelta di Draghi è notoriamente stata per la seconda impostazione, il suo mandato è terminato, a lui dobbiamo riconoscere il successo di aver salvato l’euro dalla scomparsa quasi sicura nel 2012 ma, se ci atteniamo a quello che era il suo compito previsto dallo statuto della Bce, che ha come missione principale la stabilità dei prezzi, il fallimento può dirsi eclatante. La Bce non è riuscita in sei anni e mezzo, la maggior parte del mandato di Draghi, a centrare il target di inflazione al 2% e, secondo le previsioni, il traguardo non sarà raggiunto nemmeno nei prossimi due anni. L’arrivo alla fine del suo incarico senza il raggiungimento del target previsto ha infastidito probabilmente Draghi, inducendolo a esternazioni nelle quali additava la Germania quale responsabile del mancato obiettivo, esortandola allo stesso tempo ad un allentamento delle politiche fiscali per stimolare la crescita dell’area euro a fronte del pericolo di recessione. Draghi ha messo mano al “big bazooka” a difesa dell’euro ma non ha cavato un ragno dal buco perché è stato lasciato solo nella sua battaglia. Gli è stato risposto, da parte di Berlino, che il Presidente della Bce non può pretendere che gli altri violino le proprie regole affinchè lui possa onorare la sua. Le ragioni della solitudine a cui è stato abbandonato sono state anche altre, sicuramente meno nobili, che Guido Salerno Aletta esamina in un importante articolo apparso su Milano Finanza il 7 ottobre scorso, con un’analisi impietosa, corredata da numeri e tabelle, di quanto è accaduto nel decennio successivo al 2008. Ci rivela che i capitali europei si sono riversati massicciamente verso i mercati finanziari Usa che garantivano rendimenti più consistenti, superiori ai tassi europei per molto tempo fermi a zero. La fuga dei capitali e il loro mancato trasferimento all’economia reale e prestiti alle famiglie spiegano i motivi che hanno impedito alla politica monetaria espansiva di Draghi la conquista dell’obiettivo del 2%. Acquisiti a tasso zero dalla Bce, i capitali europei sono stati spostati in Usa dove negli ultimi anni la Federal Reserve praticava una politica monetaria opposta a quella europea con rialzo dei tassi di interesse. E’noto che l’investimento nell’economia reale frutta rese sensibilmente più basse rispetto a quelle della finanza speculativa. Per citare qualche cifra, dai dati del Tesoro americano, alla fine giugno del 2018, gli investimenti nei mercati finanziari Usa da parte dei principali paesi aderenti all’euro hanno superato i 4300 miliardi di dollari, un importo doppio rispetto al 2008 e di gran lunga superiore all’afflusso dei capitali cinesi e giapponesi. Non solo, dai dati relativi al disavanzo della bilancia commerciale Usa, emerge che il trasferimento di capitali europei è stato addirittura superiore al deficit della bilancia commerciale americana e il quintuplo del surplus commerciale europeo, in pratica, non paghi dei successi della bilancia commerciale, gli europei hanno messo a segno, nella vigna finanziaria americana, una cospicua vendemmia. In casa propria, per contro, non hanno allentato la morsa sui deficit pubblici e la scelta di una politica deflazionistica salariale che ha fatto calare domanda interna e importazioni. La festa si trovava altrove in casa degli americani che non si curano di fare debiti, tanto poi col dollaro li fanno pagare agli altri.

Trump ha messo recentemente fine alla la vendemmia, non volendo rischiare con l’aumento dei tassi di ritrovarsi l’economia in calo nel 2020, anno delle elezioni presidenziali. Dopo reiterate richieste di correzione della politica monetaria Usa da parte della Casa bianca, ci ha pensato la Federal Reserve a ripristinare il Qe da 60 miliardi di dollari al mese fino al giugno prossimo anche per scongiurare la minaccia di default di Deutsche Bank e le conseguenti ricadute disastrose. I tassi sono calati e i capitali europei stanno tornando mestamente a casa. In questo mondo globalmente interconnesso le feste a cui imbucarsi sono terminate e allora i falchi del nord Europa hanno elevato acute lamentazioni per i tassi negativi che danneggiano banche, pesano sulla redditività, mettono in crisi il risparmio gestito e fondi pensioni, mandano sotto zero il rendimento dei bond. E Draghi è stato raffigurato travestito da Dracula con tanto di corna e canini sporgenti.

Le ripetute richieste da parte di Draghi anche negli ultimi giorni del suo mandato resteranno lettera morta, l’Europa è ingabbiata nel modello mercantilista tedesco che sfrutta la compressione salariale per aiutare la concorrenza sui mercati esteri e impoverisce i mercati interni e che, quando l’economia globale rallenta e i dazi americani imperversano, dispensa dolori a tutti. Inoltre i paesi del nord economicamente forti hanno approfittato dei deboli per praticare la concorrenza fiscale, attirando le grandi imprese multinazionali con tassazione sugli utili finanziari molto bassa. Molte nostre imprese nazionali, come Fiat e Mediaset si sono trasferite in Olanda cessando di pagare le tasse in Italia e allontanando sempre più la prospettiva di un’Unione fiscale che richiederebbe la fine della competizione dei sistemi di tassazione e la rinuncia di alcuni paesi come Olanda, Irlanda e Lussemburgo a proventi ricchissimi.

L’Unione Europea per ora garantisce solo il trasferimento di imprese, di luoghi produttivi e sedi fiscali, di contratti di lavoro. Pompare altra liquidità serve al momento solo a finanziare altri sbilanci.

L’immagine “collegata” è tratta da “Compositie” di Vassily Kandisky     (“Compositie IV” – Den Haag Staat Gallery)

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