La vita è una questione di manutenzione

Mai testo giunse più opportuno. Con piacere la Redazione di CF lo promuove ad “Editoriale” augurale.

Come ben sapete e come tutti (in particolare Greta) ci ricordano quotidianamente, l’impazzimento climatico cambierà la nostra vita, anzi sta già mutandola. Il peggioramento atmosferico però non è la causa ma la conseguenza delle nostre sfortune: con le nostre azioni stiamo sciaguratamente distruggendo l’equilibrio dell’ambiente in cui viviamo. Temo tuttavia che sarà difficile combattere questo disordine, questo degrado, perché è impervio, quasi impossibile, rinunciare al proprio tenore di vita, ai propri egoistici comportamenti , alle proprie avide e incontinenti abitudini  Basta osservare quanto sta accadendo all’Ilva di Taranto. Sembra una bega di tornaconti contrapposti, di egoismi corporativi. Invece è una questione molto più seria, uno spaccato, un “bignami” del futuro prossimo venturo.

Uno scontro di tutti contro tutti, dove tutti sono però anche il tutto. Operai che difendono lo stipendio ma che sono anche genitori di figli che crescono in un ambiente inquinato; oppure imprenditori che devono risparmiare per far quadrare i conti ma che nel medesimo tempo -in contraddizione con se stessi- non usano al meglio le loro capacità produttive e distruggono ricchezza. Nessuno li obbligava a comperare lo stabilimento, sono Indiani! E non è passato così gran tempo da immaginare modifiche fondamentali e strategiche del mercato. Per forza qualcuno poi pensa male.

È balzato alla cronaca il record di acqua alta a Venezia. Tutti andiamo in visibilio per la sua bellezza ma siamo anche complici del suo sfacelo. È il caso più vistoso ed eloquente di inquinamento “umano”, di people pollution. Venezia non è più una città, è una Disney della fragilità, della precarietà, della sopravvivenza. Una “città merletto” (non solo per Burano) in balia dei barbari. Invece di muoversi con delicatezza, rispetto, commozione, il turista si comporta come un bifolco, arrecando danni ovunque si giri. Gli abitanti si lamentano ma non fanno nulla di concreto per contingentare e disciplinare gli arrivi perché sono particolarmente sensibili agli “sghei”, accontentandosi anche della bottiglietta di minerale che accompagna il pranzo al sacco portato direttamente dalla Cechia o dalla Slovacchia.

Ormai tutti accorrono per visitarla prima che sia troppo tardi.

D’altronde i veneziani già non ci sono più. I residenti sono scesi a 60mila, le case o sono sfitte oppure appartengono a stranieri straricchi e a fondazioni internazionali, in ogni caso sono deserte, abbandonate all’incuria e ai danni causati dall’instancabile movimento del mare e al micidiale lavorio dell’umidità. Tendiamo a dimenticarci che essa non è semplicemente una città “di” mare ma in virtù delle sue palafitte è una città nel “mare”. A volte penso che sarebbe opportuno abbattere il ponte che la lega alla terra ferma, riportandola al quello stato insulare che ha abbandonato solo nell’800. Ma poi la città perderebbe i pochi lavoratori pendolari che la animano quotidianamente e in modo corretto mentre non diminuirebbero i turisti che approderebbero con transatlantici ancora più grandi. Per questo Venezia è il palcoscenico ideale per ragionare di manutenzione, attività che oggi tutti indicano come il toccasana per salvare il patrimonio fisico della nazione o quantomeno, ritardarne il deterioramento e lo sfaldamento.

Una pratica caduta in disuso, ancora applicata nella prima metà del secolo scorso.

Un’attitudine che al giorno d’oggi suona come tirchieria o miseria, come si trattasse di un rammendo o una pezza. A parte che il rammendo era scelta dei ricchi, gli unici che potevano comperare tessuti e materiali di grande qualità o preziosi, che duravano negli anni, si tramandavano per generazioni e “reggevano” perfettamente l’intervento di riparazione (fatto con una maestria oggi sconosciuta). Si fa qualche confusione, a seconda degli ambiti professionali, tra manutenzione, riparazione e ammortamento ma comunque si parla sempre di un’attenzione a preservare in buone condizioni un manufatto (in realtà niente ormai è fatto a mano), prima che ceda. Un intervento programmato fin dall’inizio, a scadenze fisse, per prevenirne la degenerazione traumatica. Ma perché stupirsi della scomparsa di questa preveggenza, di questa cura; siamo tutti figli dell’usa e getta. Un prodotto si compra a termine. Se si rompe si butta. Ma si butta anche prima che si rompa, perché ci è venuto a noia.

D’altronde ripararlo costa quasi quanto comprarlo nuovo.

Non solo! Alcune aziende sono indagate per aver prodotto merci già concepite per rompersi dopo poco tempo (obsolescenza programmata). È tipico di un mercato, quello del vecchio continente, abbuffato e intasato di beni, un mercato “maturo” (ma perché usano termini così inadeguati?) che vive non di primi acquisti ma solo più di sostituzioni. A me la parola manutenzione piace, sa di antico, di prudenza e moderazione, di lotta allo spreco, di anti consumismo. Una attenzione e cura degli oggetti che sottintende il rispetto e assomiglia all’affetto. Ma allora perché non applicarlo anche agli affetti.

Quanti matrimoni, amicizie, rapporti umani in genere, abbisognano di un tagliando, di una revisione.

Ma queste terapie, questi recuperi si praticano spesso quando è troppo tardi.

Perché allora non stabilirli prima, ad esempio nel contratto matrimoniale.

Un weekend al mese, lontano da casa figli e problemi, potendoselo permettere o, più economicamente, una cena a due settimanale per provare il nuovo ristorante dove poter (nel peggiore dei casi essere costretti) parlare della vita e della sua bellezza.

Auguri!

GianlucaVeronesi

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