L’adolescenza di una “baby boomer”

Mi pare necessario iniziare con qualche chiarimento.

La mia è la generazione dei primi Baby Boomer, ossia quella della crescita demografica negli anni immediatamente successivi alla guerra. Oggi considerata, da taluni, in una accezione benevola sinonimo di generazione fortunata, quella che ha avuto i maggiori benefici e vantaggi dalla crescita della produzione industriale e, in generale, dell’economia. Quando si parla di quel decennio si usa quasi sempre una connotazione entusiasta: il “miracolo” economico dei favolosi anni sessanta che hanno cambiato per sempre l’immagine dell’Italia che stava uscendo  dalla miseria e dai lutti causati dalla  guerra. Una realtà che il neorealismo ha raccontato con film di registi famosi come Visconti, De Sica, Rossellini; un filone tramontato nel ’60 quando Fellini realizzò lo scandalo de “La dolce vita”.

Facciamo un breve riepilogo degli avvenimenti piccoli e grandi di quel periodo, gli anni in cui una ragazza normale ha vissuto la sua adolescenza.

Effettivamente c’era una forte crescita dell’economia e delle occasioni di lavoro, il cosiddetto “boom”, accompagnato, tuttavia, da un cambiamento della geografia sociale e culturale senza precedenti. Basti pensare ai milioni di persone povere o poverissime che abbandonarono le loro case e i loro paesi, spesso ancora senza acqua potabile e senza luce, in maggioranza contadini, che si spostarono dal mezzogiorno e dalle isole al nord, per trovare  occupazione nelle  industrie,  soprattutto di Milano e Torino. Costoro hanno portato con sé modi e tradizioni diversissime dalle nostre, determinando anche un cambiamento sociale e culturale delle regioni del nord Italia. C’erano le distruzioni della guerra ancora fresche. Al termine del conflitto Alessandria si è, infatti, ritrovata con oltre 10 mila abitazioni abbattute o lesionate, la Biblioteca civica e numerosi edifici scolastici inagibili, il Teatro municipale demolito.

E, al contempo, c’era la disperazione di Luigi Tenco, che si suiciderà dopo l’esito negativo della sua canzone al Festival di Sanremo del ‘67, il rock demenziale di Adriano Celentano e Gigliola Cinguetti che, nel ’64, “non aveva ancora l’età per amare”.

Come si sa la memoria è selettiva, sceglie di ricordare o dimenticare secondo criteri che, per lo più, sfuggono ad un esame superficiale. In un certo senso si può paragonare al lavoro di un archeologo il quale con pazienza riporta alla luce tasselli che il tempo ha stratificato. E’ perciò difficile stabilire una scala di valori se ciò che oggi appare significativo lo era anche allora, o viceversa. Degli anni adolescenziali, in genere, ricordo un’atmosfera ancora legata alla famiglia, lo svago ambito, ma limitato, soprattutto, negli orari dalla disciplina famigliare piuttosto rigida, e le sere non rientravano nelle concessioni paterne. Pertanto, dopo l’obbligo degli adempimenti scolastici, restavano le ore pomeridiane dedicate alle passeggiate in città, Corso Roma, in particolare, definita per questo “la vasca”, percorsa più volte guardando le vetrine dei negozi e chiacchierando allegramente. Una variante era costituita da via Dante  per l’immancabile appuntamento con la panna di Valentino. Poi c’era la musica, i dischi a 45 giri, gli stessi che si trovavano nei jukebox, però proibiti perché erano all’interno dei bar che alle ragazze non era consentito frequentare.

I cantautori avevano spodestato la vecchia guardia sanremese, un genere emergente che rompeva con la melodia e portava parole nuove più vicine alla sensibilità giovanile di quei tempi: Giorgio Gaber (Non arrossire), Gino Paoli (La gatta), e poi Mina, Adriano Celentano e Elvis Presley, la voce che dall’America portava in Italia il rock. Qualche volta si organizzavano balli all’interno delle case con il giro delle amicizie scolastiche. Avevo mantenuto l’abitudine alla bicicletta con la quale percorrevo le vie della città in modo un po’ spericolato. Era un passatempo che trovavo molto divertente e fin da bambina andavo con la mia bici rossa “a rotta di collo” sul selciato delle vie del quartiere, tanto che, in ricordo di quel periodo, porto ancora qualche cicatrice.

Le vacanze al mare o in montagna non erano ancora molto diffuse, determinate soprattutto dalle condizioni economiche delle famiglie. Io, qualche anno, sono andata la mare, a Pegli, dove abitavano alcuni zii. C’erano locali per il ballo, in particolare il Méditerranée con vista mare (il nome forse più diffuso della costa ligure), ma non era ancora il tempo della libertà.

Tuttavia non mi sono mai annoiata, innanzi tutto perché quello era il modello di vita comune alla mia generazione,  almeno nella cerchia delle mie conoscenze, in secondo luogo perché c’erano i sogni, la musica e le prime letture.   Ho cominciato a leggere piuttosto tardi, dopo i sedici anni e il primo libro importante è stato “La bella estate” di Cesare Pavese, una raccolta di tre romanzi il primo dei quali sembrava scritto per me. Racconta la crescita di una ragazza di sedici anni, Ginia, che tra un’uscita con le coetanee e un caffè in piazza durante l’estate diventa donna. Quella stagione cambierà per sempre la sua vita. Il linguaggio di Pavese semplice e vicino al parlato mi aveva incoraggiata alla lettura, ma anche la storia e i personaggi sembravano parlare di me. Poi l’amatissimo “Lessico famigliare” di Natalia Ginsburg, riletto più volte anche negli anni successivi. Un libro che non è attuale perché descrive un  piccolo grande mondo che, forse, oggi non esiste più, ma  allora aveva un forte peso e rappresentava quell’elemento misterioso che caratterizza e lega la famiglia. Il lessico non solo verbale che ci ha accompagnato nella nostra infanzia e nella nostra vita famigliare.

Il libro di Cesare Pavese  era un volumetto in edizione economica Oscar Mondadori, £. 350. Non ricordo se acquistato in edicola oppure alla libreria Fissore di via Dante dove, per lo più, si compravano i libri.  Era un po’ diversa dalle altre perché c’era la possibilità di accedere al piano sotterraneo e vagare liberamente tra gli scaffali senza fretta e senza obbligo di acquisto.

Il cinema non era tra le mie priorità; ci andavo qualche volta con mio fratello, l’idolo della mia infanzia e adolescenza. Era lui che mi regalava i 45 giri che ascoltavo il pomeriggio, lui che mi raccontava la vita “grande”, quella vera, che si svolgeva al di là del mio ancora piccolo mondo.

Le notizie dal “mondo” arrivavano principalmente dalla televisione, alcune mi colpivano in modo particolare ed erano generalmente tragiche. Tra queste la morte inaspettata di Fausto Coppi, l’airone, per colpevole negligenza e il suo rapporto scandaloso con la “Dama Bianca” che nell’Italia bigotta del dopoguerra da un lato aveva suscitato curiosità, dall’altro la riprovazione per quella nostrana Madame Bovary.

Sono tante le notizie tragiche in quegli anni. Caso esemplare che impressionò tutto il Paese il disastro del Vajont che si verificò in Friuli Venezia Giulia, nell’ottobre del ’63, quando una frana precipitò nelle acque della diga provocando la morte di quasi 2000 persone. Fu una tragedia di proporzioni inimmaginabili che interrogò la società del tempo in merito alla assoluta affidabilità della scienza e della tecnica. Discipline alle quali oggi affidiamo il nostro presente forse non  interrogandoci a sufficienza sulle conseguenze future.

In quegli anni il mio sogno era la città di Milano, la grande città dove si viveva la modernità e sembrava, a noi della provincia, che tutto potesse succedere, che il mondo stesso si aprisse davanti a me. Non era un sogno che nasceva dal nulla, ma era stato sollecitato  da un’occasione  seducente, tramontata sul nascere per la ferma opposizione familiare. In quegli anni non era facile per una ragazza trasferirsi, da sola, in una grande città. In seguito si è capito che la realtà non era così rosea, ma vista con gli occhi della giovinezza apriva praterie di possibilità mai immaginate. Naturalmente una visione così ottimista era incoraggiata dalla televisione e dalle tante novità che entravano a far parte della vita quotidiana (ricordo ad esempio la pubblicità, indovinata, del Moplen, un prodotto industriale che rivoluzionò la vita delle casalinghe).

Tuttavia gli anni dell’ “attesa”, come mi sento di chiamarli oggi, quelli che separano i sogni dalla vita vera stavano per finire. Il caso volle che, alla ricerca di un piccolo lavoro temporaneo per raggranellare un po’ di “argent de poche” – in quel tempo l’uso di espressioni in lingua francese era  ancora piuttosto diffuso, anche se non invasivo come oggi la lingua inglese – mi imbattessi in una persona, una giovane donna, attivista sindacale della CGIL che proprio in quel periodo aveva organizzato uno sciopero (non ricordo con quale motivazione). Me ne parlò, me ne spiegò le ragioni e io, pur con il mio impiego temporaneo, decisi di partecipare. E’ stato il primo contatto con il mondo del lavoro, i suoi problemi e il sindacato.

Ancora non sapevo che quel legame con la  CGIL sarebbe stato così duraturo, né che avrebbe incrociato le mie convinzioni maturate negli anni successivi. Tutto sommato non molto tempo dopo, con una adesione consapevole all’inizio del mio  primo vero lavoro.

Grandi cambiamenti si stavano preparando nella società. Il movimento giovanile e studentesco del ’68, in Alessandria  limitato a qualche giorno di protesta, ha contribuito ad un cambiamento profondo dei costumi e della società.

Di lì a poco l’Italia sarà  percorsa da scioperi e rivendicazioni del mondo del lavoro. Poi arriveranno gli anni del grande protagonismo operaio e sindacale, quelli che caratterizzeranno l’ “autunno caldo”, ma si dovrà aspettare il ’69 e i primi anni settanta.

Qualche anno prima in Alessandria – si era nella primavera del ’61 – fece notizia il lungo sciopero allo stabilimento Borsalino, allora simbolo della città, deciso per contrastare il licenziamento di 58 operai. Nel corso della protesta alcuni di essi salirono sulla ciminiera dello stabilimento. In quell’occasione intervenne il sindaco Basile che, con l’intento di sbloccare la difficile vertenza, decise di requisire la fabbrica. Una decisione azzardata che però evitò l’intervento della polizia e possibili disordini.

Per me l’anno della svolta è arrivato più tardi nel 1978. L’inizio stabile della mia vita lavorativa data al 1971, nel comparto Sanità, e precisamente all’Ospedale Psichiatrico, un ambiente tra i più conservatori e dove la CGIL, alla quale mi iscrissi, contava un numero esiguo di volenterosi, nessuno nel comparto amministrativo dove io lavoravo. Ma il mio percorso politico sindacale ha coinciso con l’applicazione di una legge molto importante che ha segnato una rottura culturale e umana di grande rilievo. Mi riferisco all’applicazione della legge 180 del 1978 meglio conosciuta come legge Basaglia che disponeva la chiusura dei manicomi e la loro trasformazione progressiva in centri di salute mentale. Forse un’utopia, ma in realtà ha modificato in modo radicale la storia della psichiatria ponendo fine alla corrispondenza tra degente e recluso. E’ stata una battaglia dura e difficile perché metteva in discussione una concezione e una istituzione secolare come la struttura manicomiale.

Ne sono stata coinvolta, così come la CGIL che ha contribuito sostenendo quella battaglia anche con la partecipazione attiva del Segretario della Camera del Lavoro, non senza contrasti e dure contrapposizioni.

Miglior “Editoriale” non poteva esserci…(n.d.r.)

 

Alessandria, 5 marzo 2024

 

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