Sull’origine del debito pubblico italiano

Che cosa si sa di come si è originato il nostro debito pubblico, di chi è la colpa, quali furono le scelte decisive e da chi compiute? In verità non si sa molto su come si è originata negli anni la ‘montagna del debito’ che abbiamo ereditato e che risiede sulle nostre stanche groppe italiche. Circolano semmai luoghi comuni sulle cause; spesa pubblica improduttiva e servizi sociali e pensioni troppo generosi, stato predatore di risorse e egoismo degli adulti che scelgono, per loro egoismo, di ‘rubare’ il futuro ai figli. In sostanza, leggiamo da anni che, per i nostri massimi organi di stampa, le cause del debito pubblico cresciuto nei decenni eccessivamente, risieda sostanzialmente nei comportamenti e nelle richieste immorali degli italiani e di molti politici.

Ma forse la storia è diversa, e potrebbe suggerirci anche una morale, perché c’è una morale in ogni storia, affatto scontata rispetto alla narrazione consueta in materia.

Partiamo da un punto: metà anni settanta; il mondo finanziario è stato appena sconvolto dalla fine della parità oro – dollaro e dal conseguente termine della fase di crescita industriale e economica dello Occidente sviluppato. Si scatena sui mercati una forte concorrenza per i capitali monetari, i cambi fra monete fluttuano liberamente, le materie prime scatenano conseguenze inflazionistiche, l’ espansione degli investimenti si blocca in virtù del calare del saggio dei profitti. E’ in questa fase che l’ Italia, oberata dal deficit con l’ estero dovuto all’ aumento del petrolio e di altre materie deve chiedere il primo aiuto finanziario al FMI, negli anni 75’ – 76’. Il prestito, verrà spiegato con necessaria durezza al vertice dei 7 Grandi a Rio al Primo Ministro uscente Aldo Moro, sarà concesso solo se i comunisti resteranno fuori dal governo. L’ Italia risponderà, dunque, alla crisi con le prime dosi di austerità inflitte dai governi di solidarietà nazionale, tuttavia il debito pubblico non si alza eccessivamente perché lo stato continua a finanziarsi grazie all’acquisto da parte di Banca D’Italia dei titoli del Tesoro. Questo consente di non rendere la situazione sociale esplosiva visto l’ estendersi della disoccupazione e il procedere delle prime ristrutturazioni industriali.

Ma le cose cambiano con la nuova politica monetaria aggressiva della Federal Reserve di Paul Volker, e con la fine dei governi di solidarietà PCI – DC nel 1979.

Si afferma proprio in quel momento un nuovo gruppo dirigente, in Banca D’ Italia da un lato e dentro gli uffici ministeriali del tesoro e dentro la DC dall’ altra. Gli uomini nuovi che si affermano sono spesso convinti della superiorità della cultura monetarista americana che si afferma nelle facoltà universitarie di economia. Il nuovo credo si basa sulla necessità del sistema capitalistico di far salire di nuovo il saggio del profitto e per far ciò risulta utile ridurre salari e spesa sociale e aumentare il costo del denaro ridando alla Banca Centrale la più piena libertà di manovrare i tassi in  autonomia dal governo e dalla autorità politica del parlamento. Come ebbe a dire Mario Monti, un tecnico protagonista della operazione di separazione fra Banca Centrale e Tesoro,  il bilancio dello stato e la manovra monetaria non dovevano essere condizionate dalle spinte popolari a cui parlamenti e partiti di massa erano sensibili. Il nuovo sistema era escogitato, dunque, per relativizzare la democrazia e per assoggettare questa ai mercati finanziari.

La separazione fra Banca d’ Italia e Tesoro avverrà dopo un lungo scontro politico dentro la maggioranza negli anni 81’ e 82’, e porterà il debito pubblico dalla percentuale del 57,7% del 1980 al superamento del 120% del 1992. Una crescita esponenziale che ha portato in poco più di dieci anni a raddoppiare il peso del nostro debito nei confronti del PIL. Ma vi è di più; la spesa pubblica negli anni ottanta resta al di sotto della media europea in termini percentuali rispetto al PIL, inoltre ciò che grava come problema del bilancio pubblico è la crescente quota di spesa per gli interessi sul debito che ogni anno vanno onorati nei confronti dei creditori. Al netto della spesa per gli interessi sul debito il bilancio dello stato registra dagli anni novanta un avanzo sempre crescente, avanzo che deprime lo sviluppo, gli investimenti pubblici e la produttività generale dei fattori economici.

Il debito pubblico, di cui verrà contenuta la crescita solo nei novanta con l’ entrata nell’ Euro, diventa esorbitante e lega il nostro paese ai sempre più capricciosi mercati internazionali dei capitali, senza che per questo l’ Italia recuperi competitività in termini di produttività e competizione. Si attua, in realtà, soltanto un recupero dei tassi di profitto grazie all’ abbassamento dei salari e ciò causa un enorme spostamento di ricchezza dalla quota dei salari stessi ai redditi derivanti da capitale e da patrimoni immobiliari e mobiliari.

Per quanto riguarda, invece, la spesa per interessi del debito sul PIL, l’ Italia passa dall’ 8% del 1984 a più dell’ 11% di dieci anni dopo; nello stesso periodo la spesa pubblica al netto degli interessi sul PIL passa dal 42,1% al 42,9%, mentre la media europea passava dal 46 al 47%.

Spesa pubblica debole, forte esposizione debitoria sui mercati e aumento della spesa per gli interessi, bassa utilizzazione dei fattori produttivi e estesa precarietà compresente con il calo della domanda interna e dello sviluppo demografico. Questa è l’ immagine dell’ Italia dopo la strategica scelta economica fatta nel 1981.

Ma se le cose stanno così perché fu effettuata una scelta così miope? Vedremo poi, meglio, il pensiero e le figure di chi fu protagonista di tale svolta veramente cruciale per il nostro paese, le motivazioni che, come vedremo, seguono una logica di parte, costruita su una visione ristretta dello sviluppo e sull’ uso limitato e elitario dei suoi frutti. Ma tutto questo lo rimandiamo ad un prossimo capitolo della nostra rivisitazione storica sulla origine del nostro debito pubblico.

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