Filosofia del Socialismo

La transizione dal capitalismo al comunismo: note su società civile, Stato e libertà in Marx

pubblicato il 06/02/2020

In materia di teoria marxiana dello Stato, le conclusioni che sembrano imporsi sono due: 1) Il fatto che Marx tendesse al relativismo istituzionale, considerando parlamentarismo o antiparlamentarismo come opzioni relative, e assolutamente non di principio, connesse al grande conflitto di classe tra proletariato e borghesia (impostazione poi condivisa dai marxisti del Novecento, anche democratici, che in caso diverso non avrebbero mai potuto giustificare regimi come l’URSS o similari, nel caso dei comunisti italiani per sessantaquattro anni consecutivi dopo la rivoluzione sovietica del 1917); 2) la fortissima propensione di Marx a ritenere la forma dello Stato che noi diciamo moderno, e che egli diceva “borghese” (lo Stato-macchina, lo Stato degli apparati, lo Stato che ha per corpo perenne burocrazia polizia ed esercito professionale) come qualcosa che avrebbe dovuto essere abbattuto e sostituito dallo Stato dei proletari: Stato operaio che però, per Marx, avrebbe dovuto essere l’opposto di quello degli apparati, o “moderno”, o “borghese”, cui si è fatto riferimento (ossia non già corpo separato, appunto degli apparati, ma il più possibile dipendente, e quasi fuso, rispetto alla società civile: non essendo lo Stato – qualsiasi Stato, anche operaio – per Marx, niente altro che il braccio armato della classe “in essa” palesemente dominante, e per ciò tanto più libero quanto più in procinto di sciogliersi come ghiaccio al sole nella società civile, in quanto corpo artificiale sovrapposto alle forze produttive: man mano che in economia sparissero le differenze di classe, cioè le classi)[1].

In proposito i testi fondamentali sono tre, che richiamo in un ordine logico più che storico: 1) La critica di Marx del 1875 al documento di unificazione – al congresso di Gotha – della socialdemocrazia tedesca, ossia tra socialisti statalisti seguaci di Lassalle e socialisti rivoluzionari proletari vicini a Marx; 2) gli indirizzi rivolti da Marx, come presidente della Prima Internazionale (o Associazione Internazionale dei Lavoratori) alla Comune di Parigi del 1871: grande rivolta proletaria esplosa a Parigi dopo la disfatta di Napoleone III a Sédan, “Comune” durata poco più di due mesi (dai primi di marzo alla metà di maggio del 1871), e poi repressa dal governo repubblicano e parlamentare di Versailles di Adolphe Thiers, mentre i vincitori prussiani stavano a guardare: opzione controrivoluzionaria e sommamente efferata, che determinò il massacro di oltre ventimila proletari e l’arresto di altrettanti (il più grande bagno di sangue e la più grande repressione di proletari del secolo XIX)[2]; 3) le annotazioni di lettura di Marx al libro di Michail Bakunin Stato e anarchia, del 1873[3], in cui il rivoluzionario russo anarchico comunista criticava la concezione della dittatura del proletariato attribuita a Marx.

Nella Critica al programma di Gotha del 1875 si davano indicazioni concrete, in parte desunte dalla Comune di Parigi e in parte da idee entrate nella cultura socialista del tempo, relative al passaggio da un’economia in cui la forza lavoro è merce (salariato) a un’economia di distribuzione, di servizi per tutti, non più monetaria, in cui – a parte il fondo per vecchi, disabili e bambini – tutti accedono ai beni comuni, tramite scontrini, in rapporto a un’attività lavorativa differenziata solo sulla base dei beni dell’impresa prodotti da ciascuno, ossia secondo il lavoro (siamo nella fase dell’operaio professionale, in cui non c’erano ancora catene di montaggio, in cui quindi si poteva vedere quante scarpe, con l’aiuto della macchina, un operaio o un gruppo di operai facesse al giorno); e con differenze minime, come quelle tra operai semplici e specializzati, in ogni ambito; e con riflessioni sul nuovo diritto operaio che, in quanto tale, rimarrebbe forzatamente, in modo residuale, un’uguaglianza formale, cioè tra disuguali, come in ogni preteso stato di diritto, sempre in parte borghese (persino durante il passaggio dal capitalismo al comunismo, dunque). “L’uguale diritto – scrive infatti Marx – è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese, (…) mentre lo scambio di equivalenti, nello scambio di merci, esiste solo nella media, non per il caso singolo.” Qualcuno produrrà un po’ di più e qualcuno un po’ di meno, in cooperative tra uguali. “Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro. (…) Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente l’ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di una uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio, nel caso dato, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. (…)

In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita[4]; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”

Ma il vero bersaglio della critica di Marx era lo statalismo economico, tipico di Lassalle, che nel programma criticato di Gotha del 1875 induceva il”Partito Operaio Tedesco”, “per avviare la soluzione della questione sociale”, a chiedere “l’istituzione di cooperative di produzione con l’assistenza dello Stato, sotto il controllo democratico del popolo lavoratore”, tanto nell’industria quanto nell’agricoltura, “in tale proporzione che da esse sorga l’organizzazione socialista del lavoro complessivo”. Marx obiettava: “Invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della società, l’organizzazione socialista del lavoro complessivo’ ‘ sorge’ [secondo i lassalliani, che sarebbero prevalsi nel programma di Gotha criticato] ‘dall’assistenza dello Stato’, che lo Stato dà a cooperative di produzione, che esso, e non l’operaio, ’crea’. Che si possa costruire con l’assistenza dello Stato una nuova società, come si costruisce una nuova ferrovia, è degno della fantasia di Lassalle”. Nello stesso programma di Gotha si sosteneva la “Base liberale dello Stato”, “lo Stato libero”. Ma Marx obiettava: “Stato libero, che cosa è? Non è affatto scopo degli operai, che si sono liberati dal gretto spirito di sudditanza, rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo ‘stato’ è ‘libero’ quasi come in Russia: la libertà consiste [invece] nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa, e anche oggigiorno le forme dello Stato sono più libere o meno nella misura in cui limitano la ‘ libertà dello Stato’. “E qui si riferiva esplicitamente a Svizzera e Stati Uniti, come democrazie borghesi più avanzate, e perciò meno stataliste.

“Il partito operaio tedesco – almeno se fa proprio questo programma – mostra come le idee socialiste non gli siano penetrate nemmeno sotto pelle; perché invece di considerare la società presente (e ciò vale anche per ogni società futura) come base dello Stato esistente (e futuro per la futura società), considera piuttosto lo Stato come un ente autonomo, che possiede le sue proprie basi spirituali, morali, liberali).”

Su tali basi veniva persino respinto l’interventismo statale nell’educazione pubblica. In conclusione per Marx il programma socialdemocratico chiedeva, in un Paese con tratti autoritari come la Germania bismarckiana, quel che era stato realizzato in paesi democratici come Svizzera e Stati Uniti, dimenticando il punto fermo fondamentale: “Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.”[5]

Il tutto si riverbera sugli indirizzi di Marx del 1871 a sostegno della Comune di Parigi, raccolti nel 1891 nell’opuscolo di Marx La guerra civile in Francia. Di lì emergeva un modello, ritenuto di valore pressoché permanente, di Stato operaio, in cui tutte le cariche dello Stato, anche amministrative, erano diventate elettive da parte delle assemblee popolari, e da esse sempre revocabili; e gli stessi burocrati, il cui ruolo non poteva essere immediatamente abolito, erano pagati al massimo come operai specializzati, mentre operai armati, che pure continuavano a lavorare, sostituivano l’esercito professionale e la polizia. Si configurava uno Stato, operaio, ritenuto intrinsecamente “in estinzione”: uno Stato che sin dall’inizio avrebbe teso a sprofondare, a risolversi, a identificarsi con la società civile, da cui alla nascita delle società divise in classi era sorto, millenni fa (e tanto più dopo lo Stato burocratico-militare-poliziesco “moderno” sorto tra 1300 e 1500), per servire gli interessi della classe economicamente dominante nell’uno o nell’altro sistema di proprietà privata[6]. La stessa opera di Lenin Stato e rivoluzione (1917, ma 1918)[7] sarebbe stata in gran parte un commento e un’attualizzazione di tali posizioni, poi superate, in senso sempre più autoritario (cioè opposto), nel corso della rivoluzione russa. A più di uno studioso persino Stato e rivoluzione di Lenin è parso un’opera anarchica, come del resto a caldo aveva ritenuto il primo importante marxista russo, ormai menscevico, Plechanov, il quale nell’aprile 1917 diceva che Lenin si era con ciò candidato a succedere a Bakunin (invece “allora” era marxiano).

In sostanza l’opposizione tra socialismo e statalismo, tanto più prima della costituzione dello Stato operaio, era forte. Ciò è tanto vero che Engels – tra l’altro nello stesso anno dell’introduzione alla riedizione di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di Marx, in cui era parso aprire alla via parlamentare al socialismo – presentando i testi di Marx sulla Comune del 1871, nel 1891, scriveva: “Questa distruzione violenta del potere dello Stato esistente e la sostituzione ad esso di un nuovo potere, veramente democratico, è descritta esaurientemente nel terzo capitolo della Guerra civile. Era però necessario ritornare qui brevemente sopra alcuni tratti di essa, perché proprio in Germania la fede superstiziosa nello stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la ‘realizzazione dell’Idea’, ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia interne si realizzano o si devono realizzare.” Ciò era detto in polemica con la concezione hegeliana e idealistica dello Stato, attribuita evidentemente anche ai socialisti tedeschi seguaci di Lassalle. Tale orientamento non sarebbe stato senza conseguenze. Infatti Engels seguitava: “Di qui una superstiziosa venerazione dello Stato e per tutto ciò che ha relazione con lo Stato, che subentra tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari comuni a tutta la società non possano venire curati altrimenti che come sono stati curati fino a quel momento, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi ben pagati funzionari. E si crede d’aver già fatto un passo estremamente audace quando ci si è liberati dalla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella Repubblica democratica. Però lo Stato non è in realtà che una macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, nella Repubblica democratica non meno che nella monarchia; nel migliore dei casi è un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vincitore della lotta per il dominio di classe, i cui lati peggiori il proletariato non potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del possibile, come fece la Comune, finché una generazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale.”[8]

Tuttavia il modello dello Stato operaio estrapolato dalla Comune di Parigi da Marx, e ritenuto forma nascente di ogni dittatura del proletariato, non persuadeva tutti, come si vede nel citato libro di Bakunin Stato e anarchia (1873). Marx, che lì era criticato anche per la sua teoria sulla dittatura del proletariato, appose al testo di Bakunin – come si è detto – le sue glosse. Traggo dagli appunti di Marx alcune citazioni vuoi da Stato e anarchia di Bakunin, e vuoi di Marx stesso, così come le avevo già incastonate nel capitolo “Stato e libertà nel comunismo. Da Marx a Stalin” nel mio libro Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico (1992).

“Bakunin: “Se vi è stato vi è inevitabilmente dominio e di conseguenza anche schiavitù; un dominio senza schiavitù, aperta o dissimulata, è inconcepibile: ed ecco perché noi siamo nemici dello Stato.

Che cosa significa proletariato elevato a ceto dominante?”

Marx: “Significa che il proletariato, invece di lottare alla spicciolata contro le classi economicamente privilegiate, ha acquistato una potenza e un’organizzazione sufficienti per poter applicare nella lotta contro di esse mezzi generali di costrizione; ma non può applicare che dei mezzi economici, i quali eliminano il suo carattere specifico di salariato e, in conseguenza, lo eliminano come classe. Con la sua vittoria completa finisce quindi anche il suo dominio perché finisce il suo carattere di classe. “

Bakunin: “ Forse che tutto il proletariato sarà a capo del governo? (…) Questo dilemma nella teoria dei marxisti si risolve semplicisticamente. Per governo popolare essi” (cioè Bakunin, scrive Marx), “intendono un governo del popolo per mezzo di un numero insignificante di rappresentanti eletti dal popolo. “

E Marx: “Asino! Questa è insipienza democratica, vaneggiamento politico! Le elezioni sono una forma politica persino nelle più piccole comunità russe e nelle cooperative (artel). Il carattere delle elezioni non dipende da questi nomi, bensì dalle basi economiche, dai legami economici tra gli elettori, e non appena le funzioni hanno cessato di essere politiche:1) non esistono più funzioni governative; 2) la distribuzione delle funzioni generali diventa una questione di affari[9] e non dà luogo a nessun dominio; 3) l’elezione non ha nulla dell’odierno carattere politico.”

Bakunin: “Quindi il risultato è: governo della stragrande maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, dicono i marxisti, sarà formata di lavoratori. Sì, forse da ex lavoratori, i quali però cessano di essere dei lavoratori”. (Marx interloquisce: “Non più di quanto un fabbricante cessa di essere capitalista quando è membro di un consiglio comunale”).

Comunque Bakunin, sempre in riferimento agli elementi ex operai ascesi al potere, continua nei seguenti termini: “ E guarderanno dall’alto dello Stato tutti i lavoratori comuni; essi non rappresentano più il popolo, ma se stessi e le loro pretese di governare il popolo. Chi può dubitare di questo ignora completamente la natura dell’uomo. (…)

I marxisti sentono questa contraddizione e, riconoscendo che il governo dei dotti “ (quelle rêverie, commenta Marx), sarà il più duro, il più odiato e disprezzato del mondo e, nonostante tutte le forme democratiche sarà una vera dittatura, si consolano col pensiero che questa sarà provvisoria e di breve durata. “

Ma Marx interloquisce:

“No, mon cher! Il dominio di classe degli operai sugli strati del vecchio mondo che lo combattono durerà fino a quando non saranno distrutte le basi economiche dell’esistenza delle classi.”

Bakunin seguita, sempre in riferimento ai marxisti:

“Essi dicono che la loro unica preoccupazione e il loro unico scopo saranno quelli di educare ed elevare il popolo”. (Marx commenta: “Politicante da caffè!”), “così economicamente che politicamente, a un livello tale che ogni governo diverrà ben presto inutile e lo Stato, perdendo qualsiasi carattere politico, cioè di dominio, si trasformerà da sé in una libera organizzazione di interessi economici e di comunità. Qui vi è una contraddizione stridente. Se il loro Stato sarà veramente popolare, perché distruggerlo? E se invece la sua distruzione è necessaria per l’effettiva liberazione del popolo, come si può osare di chiamarlo popolare?”[10]

L’irritazione di Marx di fronte alle critiche di Bakunin, rozze ma efficaci, era più che comprensibile, ma non è difficile riconoscere “a chi” la verifica storica abbia dato maggiormente ragione in proposito.

Oltre a tutto noi siamo oggi in grado di ragionare su un ciclo che, almeno nel mondo occidentale, si è palesemente concluso. E si tratta di un ciclo alquanto lungo, iniziato nel 1848 con il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e terminato, con il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991; ma la verifica si spinge sino a oggi (2020). Sussistono sì alcuni paesi asiatici, come la grande Cina, tuttora retti da un partito comunista, ma è evidente che il potere comunista lì convive con un’economia capitalistica quasi allo stato puro. Come si chiama la combinazione tra un’economia capitalistica fortissimamente tale e l’autoritarismo politico?

Ammiro troppo la Cina per rispondere. Ma non direi “socialismo”.

Comunque a questo punto i passaggi mancanti sembrano essere due. Da un lato si tratta di vedere come i punti di cui si è detto si siano svolti e soprattutto abbiano – o non abbiano – retto “dopo Marx”; dall’altro si tratta di vedere che cosa da tutto ciò possiamo evincere ai fini di una filosofia del socialismo a misura dei problemi del XXI secolo. Sono due punti, in specie il secondo, da “far tremar le vene e i polsi”. Non abbiamo certo la chiave del futuro, ma insieme a tanti altri possiamo provare a portare la nostra piccola pietra. Volenti o nolenti siamo tutti in cammino.

di Franco Livorsi

  1. K. MARX, La guerra civile in Francia (1871), del 1891, in: K. MARX – F. ENGELS, Il Partito e l’Internazionale, tr. di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1948, pp. 129-142.
  2. P. O. Lissagaray, Histoire del la Commune de 1871, Bruxelles, 1876.
  3. Si veda il testo nell’edizione Feltrinelli, Milano, 1968.
  4. Marx – come si è visto, già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (In “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, 1963) sull’uomo come essere per natura intersoggettivo e creativo (idea ancora connessa all’idealismo), e soprattutto nelle Tesi su Feuerbach del 1845 (in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, 1888, e Rinascita, Roma, 1950), a proposito dell’uomo come essere che esprime il pensiero nella praxis – considera l’uomo come un produttore creativo per natura, che gioisce scoprendo e facendo, manipolando la realtà. Perciò sarebbe solo il capitalismo a ridurre il lavoro a una pena, quando invece per natura, senza agire costrittivo e dipendente, sarebbe il nostro essere più naturale.
  5. K. MARX, Glosse marginali al programma del Partito Operaio Tedesco (1875, ma 1891), in: “Il Partito e l’Internazionale”, tr. di P. Togliatti, Rinascita, Roma, 1948, pp. 225-245, Ho sottolineato il passaggio sul rapporto tra Stato e società civile.
  6. K. MARX, La guerra civile in Francia (1871), del 1891, in: K. MARX – F. ENGELS, Il Partito e l’Internazionale, tr. di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1948, pp. 129-142.
  7. Si veda il testo cit. di LENIN nelle sue “Opere complete”, Editori Riuniti, 1967, vol. XXV, pp. 361.462.
  8. Introduzione di F. ENGELS a: K. MARX, La guerra civile in Francia (1871), 1891, in: Il Partito, pp. 129-142, ma v. p. 141.
  9. Qui il traduttore avrebbe certo dovuto dire “una questione di amministrazione”.
  10. K. MARX-F. ENGELS, Contro l’anarchismo, Rinascita, Roma, 1950, da confrontare con: K. MARX, “Estratti e commenti critici a “Stato e anarchia” di Bakunin (1873), in: K. MARX – F. ENGELS, Critica dell’anarchismo, a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino, 1972, pp. 312-367, ma qui v.: F. LIVORSI, Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 150-151.

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