Filosofia del Socialismo

Idealismo e Materialismo nella Storia contemporanea

pubblicato il 16/02/2020

I

Nella serie di riflessioni che vengo svolgendo – specie da quella su Marx e la religione come “oppio dei popoli” (28 dicembre 2019) in poi – ho cercato di evidenziare, inquadrare e spiegare alcuni punti chiave del pensiero filosofico e sociale-politico del primo e maggior pensatore del “comunismo critico”. Ora vorrei provare a verificare, a poco a poco, gli assunti messi a fuoco sin qui: però “nella storia”, ossia così come si sono sviluppati nella vicenda socioculturale delle correnti progressiste del XX-XXI secolo. Vorrei farlo quantomeno a grandi linee, e sempre seguendo il filo rosso del mio pensiero. Procedo dal tema “idealismo, materialismo e socialismo”, senza tacere la problematica morale e religiosa sottesa.

Proverò però a sdoppiare la trattazione, come uno che cercando di dimostrare le sue tesi proceda prima in modo storico esperienziale e poi in modo concettuale. Così, “poi”, si capirà subito quale fosse o sia la posta in gioco sottesa a posizioni apparentemente di esclusiva pertinenza degli “addetti ai lavori” nel campo della filosofia, e invece importanti per tutti.

Procedo da una piccola premessa di metodo. Nella storia della cultura ci sono stati i “discontinuisti” e i continuisti. Ad esempio Gibbon, in Decadenza e caduta dell’impero romano (1776/1788), era un “discontinuista” perché tra mondo tardo antico e affermazione del cristianesimo vedeva irrimediabile rottura; il cristianesimo, infatti, sarebbe stato una rivoluzione spirituale-sociale, che avrebbe portato alla rovina il bel mondo tardo antico, che pure si era corrotto, come impero romano, per conto proprio, ma che esso avrebbe distrutto, aprendo così le dighe al dilagare del Medioevo barbarico per quasi cinque secoli, più o meno dal 410/476 all’800, se non addirittura al 1000. Anche Burckhardt, in La civiltà del Rinascimento in Italia (1880), era un discontinuista, perché tra Medioevo e Rinascimento vedeva frattura, essendo l’uno un mondo cristiano e l’altro quasi un nuovo paganesimo redivivo, che penetrava persino dentro il primo. E anche Nietzsche era un discontinuista, che estremizzava – ad esempio nell’Anticristo (1888, ma 1907) – le fratture epocali individuate da Gibbon come da Burckhardt. Anche Marx era fortemente discontinuista, sia nella spiegazione del passaggio da un sistema sociale all’altro (asiatico, antico, feudale, capitalista e infine collettivista), sia per l’idea che tra un sistema e l’altro all’acme ci fosse una rivoluzione sociale, come sosteneva in Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859)[1] (anche se tra i sistemi sociali, con buona pace del grande pensatore in questione, le contaminazioni possono essere state ed essere forti, spesso con slittamento di classe omeopatico, ben più di quel che apparisse nei suoi schemi, tendenti a universalizzare quello che era accaduto in Francia).

Ora, se si vadano a vedere gli storici, almeno degli ultimi cento anni, si nota facilmente che i “continuisti” prevalgono di gran lunga sui “discontinuisti”, come si può agevolmente vedere per la storia delle origini del cristianesimo, o nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento[2], e così via. Storici importanti hanno visto continuità persino tra impero zarista e Rivoluzione d’ottobre e Unione Sovietica, sostenendo che l’URSS aveva consentito all’ultimo grande impero della terra radicato nei secoli di seguitare, sotto mentite spoglie, sino al 1991. Figuriamoci nel paese del “Gattopardo”[3]. Io, per altro, credo che la storia sia novità nella continuità: mi considero un “discontinuista” moderato, oppure un “continuista” che ammette parecchie rotture (non faccio questione di parole).

Facciamo un passo oltre. Il materialismo – la tendenza per cui la realtà esiste totalmente a prescindere da chi la pensa, come un che di “oggettivo”, che determina ampiamente il pensiero stesso, che sostanzialmente la riflette – non è venuto fuori come un fungo. Dapprima c’è stata una spiegazione oggettivistica, di tipo meccanicistico, dell’universo, escludente sapori, odori, sensazioni, emozioni, stati d’animo, eccetera, e incentrata sul quantificabile e temporalizzabile, e possibilmente riproducibile sperimentalmente, purché con esatta misura, o con misura ritenuta esatta: anche se né Galileo né Newton, che la fondarono e svilupparono, mettevano in discussione – fosse pure in lettere segrete – il teismo. L’universo, come il nostro stesso corpo, sarebbe stato (e in vero sarebbe) da intendere come una macchina matematicamente comprensibile, anche se essi ritenevano che “ab ovo” l’avesse fatta Dio – essere, o Architetto, perfettissimo – che l’aveva sussunta a rapporti matematici “perfetti” come Lui, e verificabili. Ma ogni nostra intuizione soggettiva, e ogni impronta o sostrato di tipo divino, immateriale, al di là dello spazio e del tempo, avrebbero dovuto (e dovrebbero) restare fuori gioco, “come se” l’universo o il nostro stesso corpo umano non avessero una mente reale interna, neanche sottesa o implicita, presente come un radicale (reale persino nel caso in cui sia ineffabile, come un quid, o quis, che c’è anche se non si vede, ma di cui si possa desumere l’esistenza, o – per quel che mi riguarda – la realtà psicologica a priori). La spiegazione “senza Dio”, o che ragiona come se “Lui” non ci fosse, si è estesa via via a tutti i campi: dalla chimica alla biologia, sino a Darwin e all’evoluzionismo biologico (e oltre). Ed è valsa precocemente anche nelle scienze sociali: dal diritto internazionale, quale già lo definiva il calvinista Grozio, a quello pubblico secondo Hobbes (ma già Machiavelli), e così via. La cosa andò così avanti che a un certo punto Dio – come diceva Laplace a Napoleone che l’aveva interrogato in proposito – risultava “un’ipotesi inutile”. Più oltre, pochi decenni prima dell’opus di Darwin, o pochi decenni dopo nel secondo caso, arrivò l’ateismo rivoluzionario di Marx, e poi il “Dio è morto” di Nietzsche, in realtà profondamente complementari[4].

La ricerca della grande armonia nel reale durante l’età dei Lumi

Tuttavia prima che si affermasse l’epoca della grande negazione del cristianesimo, dell’ateismo o – nella migliore e più accettabile delle tendenze – della “secolarizzazione” (in cui in ogni campo si ragiona “come se Dio non esistesse” sia che ci si creda e sia che non ci si creda), ci fu un tentativo di grande sintesi, che in storia possiamo veder procedere dall’assolutismo illuminato ai giacobini compresi; e, nella storia della cultura, da gran parte dell’illuminismo (con particolare riferimento a Rousseau e Kant) all’idealismo romantico (poi culminato nella ben nota triade Fichte, Schelling, Hegel). Tra l’Illuminismo di Rousseau e Kant e l’idealismo romantico da Fichte a Hegel ci fu più continuità che discontinuità. Tutta questa fase io – sviluppando idee già ben argomentate in uno dei grandi classici della storiografia filosofica, Da Hegel a Nietzsche di Karl Löwith[5] – la chiamo epoca della grande sintesi (tentata su larga scala, e purtroppo fallita, certo per buoni motivi filosofici e politici, ma credo anche con gravi conseguenze). Cerco anche di dire qualcosa di più ampio e chiaro – qua e là – dell’amato Löwith.

Tra Illuminismo e Romanticismo idealistico tedesco, tra Rousseau e Hegel, tra assolutismo illuminato e i giacobini (o il primo bonapartismo, che di lì veniva), si voleva la ragione. Si voleva la scienza. Si voleva l’innovazione tecnologica. Si voleva la riforma dello Stato, o addirittura la sua rifondazione razionale per farne lo Stato di tutto il popolo (dei “cittadini”, della “Nazione”, eccetera). Ma li si voleva evitando la catastrofe, ossia lo sradicamento della fede nell’infinito e nell’eterno, ed evitando la distruzione dello Stato esistente (temendo – in caso diverso – la follia morale e la barbarie distruttiva che avrebbero potuto conseguirne, come paventava soprattutto il grande conservatore liberale Edmund Burke, fermo al modello della “gloriosa rivoluzione” inglese del 1688, alle origini della Rivoluzione francese[6]). Ci furono molti grandiosi tentativi, prima della gran Rivoluzione del 1789 e anche dopo, di definire e realizzare la grande sintesi, che al tempo di Hegel si diceva pure armonia tra teologia e filosofia, religiosità e esperienza, divino e umano, e anche cittadino e Stato (anche se il suo farlo “da prussiano” fece perdere di vista a molti, ma mai al pur ipercritico Marx, il fatto che guardava alla forma-stato moderna, pure scaturita in Francia dalla Rivoluzione francese).

Non tutto veniva dal 1789, comunque. Fu bandita la tortura e fu proclamato da Beccaria – all’ombra dell’assolutismo illuminato teresiano, e sin dal 1764 – il principio giuridico della presunzione d’innocenza, in Dei delitti e delle pene[7]. Fu fatto il catasto e inventata la moderna tassazione[8]. Il potere giudiziario fu separato da quello esecutivo-legislativo. Si fecero molte riforme, persino di riordino dei dipartimenti, in Francia, che avrebbero poi indotto Tocqueville, nel 1856, a sostenere che ci fosse stata continuità tra Ancien Régime e Rivoluzione[9]. L’illuminismo era anche stato l’età di Mozart, che però anticipa Beethoven: un Mozart che oltre a scrivere “sinfonie massoniche” e una grande opera impregnata di ideologia massonica come Il flauto magico, scrisse pure toccanti Requiem. Ci fu anche un tentativo di fondare appunto una nuova religione, che conciliasse Dio e Natura, ma pure Dio e ragione (il Grande Architetto di Newton): la richiamata massoneria, nata (e per essa “rinata”) a Londra nel 1717.[10] Non poteva funzionare perché non basta togliere i dogmi irrazionali, i preti e l’intolleranza per rendere vero il dualismo religioso, che è proprio quello che non sta in piedi dopo la rivoluzione scientifica, che avanza da oltre quattrocento anni, da Galileo a Einstein (tanto che chi creda nel Dio trascendente e nell’anima immortale, e non semplicemente nel divino nell’umano e nella natura, è costretto in tutti i campi, seguitando ad arretrare, a comportarsi come se Dio o l’anima non esistessero; anche se dopo Heisenberg e la fisica quantistica tutto sembra essere molto meno chiaro, tanto che un grande fisico padre di un ricercatore, allora mio collaboratore, anni fa mi parlava del raggio che a livello sub-atomico può andare da una parte e dall’altra di un pezzetto di vetro, senza necessità, come se lo decidesse “lui”).

Rousseau fa parte di tutta la temperie culturale vagheggiante una visione armonica o armonizzatrice del mondo. Egli era un idealista, un “coscienzialista” come lamentava tanti anni fa un marxista “ortodosso” come Augusto Illuminati[11]. Rousseau distingueva la religione dell’uomo antico, detta del cittadino, da quella del prete. (Tra l’altro molte cose sciagurate delle religioni che si possono stigmatizzare sono state connesse all’esistenza di un corpo sacerdotale monopolizzatore delle credenze e culti dei credenti, “corpo sacerdotale” sempre pronto ad ammanicarsi con lo Stato assoluto o anche d’altro genere, ma preferibilmente autoritario, dal tempo dei faraoni in poi, lasciandosi condizionare e condizionandolo “quanto possa”, ove possibile imponendosi: con tanto di “gran sacerdote”, che d’accordo con la prepotenza statale romana accoppava i dissidenti sin dal 33 d.C.; così come la tragedia del comunismo nel XX secolo non è derivata né dal proletariato né dalle idee di Marx, ma dal fatto che una burocrazia di professione abbia preso il monopolio delle decisioni del proletariato e sulla “dottrina”. E – come avrebbe detto il settimanale satirico “Travaso” degli anni Cinquanta del secolo scorso -: “Accidenti ai cavezzatori!”).

Rousseau mirava a costituire – dopo la religione pagana del cittadino, e dopo quella del prete – una nuova religione civile. La concepiva come un cristianesimo naturale senza dogmi, come il “vicario savoiardo” spiegava a Emilio; e Rousseau non si capacitava perché tale idea, per lui francamente religiosa, fosse invisa non solo ai materialisti suoi avversari di Parigi tipo D’Holbach o Helvetius, o ai gesuiti, ma pure ai suoi antichi concittadini calvinisti della nativa Ginevra (sino a maturare in sé stesso un complesso di persecuzione)[12].

Robespierre era sostanzialmente un roussoiano, oltre che un montesquieuviano (la repubblica basata sulla “virtù”). La stessa Costituzione giacobina del 1793 dimostra l’influsso fortissimo di Rousseau in modo palmare. L’ultima battaglia di Robespierre fu proprio il tentativo di fondare una nuova religione civile: Dio nella Natura e fede nell’immortalità dell’anima e nel premio eterno ai cittadini “virtuosi”. Diceva che l’ateismo è dei ricchi, legato al culto del denaro[13]. Robespierre doveva fallire sia sul piano politico-sociale che su quello filosofico. Doveva fallire sul piano politico sociale perché, almeno col senno di poi, era ovvio che una volta che fosse stata spazzata via non solo l’aristocrazia, ma anche il clero (di cui poco si parla, ma che da secoli era legato all’assolutismo come il culo alla camicia, avendo realizzato da tempi immemorabili la famosa alleanza tra trono e altare), dovesse prevalere la borghesia capitalistica, per cui i proletari, “sanculotti”, avevano sostanzialmente lottato[14] (ed era stato giusto così, perché in Francia non c’era stato altro modo di far andare avanti la storia). Ma Rousseau e Robespierre, come rifondatori di religioni, dovevano fallire pure loro sul piano filosofico e culturale perché la religiosità, dopo la rivoluzione scientifica, e la sua accettazione da parte di tutti i pensanti o quasi – detti honnêtes hommes al tempo dei Lumi – o è monista, cioè connessa a un divino immanente nell’uomo e nella natura (Uno del e nel Tutto e viceversa), o è inconcepibile (almeno “razionalmente”, come quando si parla di “Uno” che giochi “da fuori”, il quale è comunque, per davvero, oltre a tutto in un universo concepito in termini meccanicistici, un “deus ex machina”, se pensato come puramente o prevalentemente “trascendente”). Caduto Robespierre, arriva dunque il Termidoro. E con esso trionfa una borghesia edonista, che – pur senza ripudiare un tranquillo cristianesimo alla camomilla, che calma i nervi dei popoli e fa diminuire un poco la paura della morte – nell’insieme viaggiava a tappe forzate verso il materialismo integrale, vuoi morale e politico e vuoi scientifico e tecnologico, poi positivista, materialista a tutto tondo, specie dagli anni Quaranta dell’Ottocento sino alla fine degli anni Ottanta-Novanta di quel secolo (anche se la tendenza ovviamente variava, negli anni e nell’intensità, da paese a paese). Napoleone imperatore si vantava con Metternich di essere uno capace di scatenare battaglie con decine di migliaia di morti senza tremare, diversamente dai suoi avversari delle vecchie monarchie. Pare che Radezki, dopo le cinque giornate di Milano del marzo 1848, si sia ritirato nel famoso quadrilatero perché decimare le folle cittadine non faceva per lui; o forse a giusta ragione lo riteneva possibile, ma politicamente, oltre che moralmente, controproducente[15].

La ricerca della grande armonia nel reale nell’idealismo romantico

Torniamo comunque all’inizio del XIX secolo. Anche l’idealismo classico tedesco fa parte della ricerca di “grande sintesi”, o “grande armonia”, di cui ho detto, schematicamente svoltasi da Rousseau in poi (più o meno sino a Napoleone “primo console”), ma con tutti i passaggi cui ho accennato: in sostanza una grande sintesi, necessariamente innovatrice, tra fede e ragione, tra morale-religione e politica (ovviamente nelle coscienze dei singoli, ma predicata da chi auspicava che tale coscienza liberamente si diffondesse), e tra Stato e riforma, o anche tra Stato e rivoluzione. Taluni, come Goethe o i giovani Schelling e Hegel, spereranno non solo nella Rivoluzione francese come fonte di tale “grande sintesi” (erede e superatrice delle aporie dell’assolutismo illuminato), ma anche in Napoleone, quantomeno “primo console”. Si sa che Beethoven voleva dedicargli L’eroica, ma poi strappò la dedica quando quello si fece imperatore. Anche Marx sosteneva che i tedeschi avevano fatto nella filosofia – protestante e poi idealistica – quello che altri popoli, come i francesi, avevano fatto sul piano politico-sociale. Per lui Hegel non esprimeva affatto, se non in modo marginale, la Prussia autoritaria, ma piuttosto lo Stato moderno pure francese, come i suoi due grandi saggi sugli “Annali franco-tedeschi” dimostrano.[16]

Questi grandi pensatori, da Goethe a Hegel, sono quasi tutti uomini della grande sintesi. A mio parere dovremmo valutare con qualche considerazione anche le loro elaborazioni scientifiche poi risultate “perdenti”. Goethe e il suo amico Alexander von Humboldt erano degli scienziati veri, che avevano fatto scoperte l’uno nella morfologia umana e l’altro nella botanica, ma contestavano il newtonismo (erano, in sostanza, dei vitalisti). Oltre a tutto è una tendenza che è seguitata. Anche Bergson ha scritto un libro in cui contestava la teoria della relatività di Einstein e ha infatti interloquito con Einstein anche faccia a faccia, ovviamente inascoltato, nell’aprile 1922 per sei ore consecutive, in pubblico, su ciò. Chi ha letto Bergson capisce subito che aveva una formidabile cultura e testa scientifica[17] e che sapeva di quel che parlava. Di lì veniva Teilhard de Chardin, altra testa di vero scienziato, perseguitato per una vita dalla chiesa per il suo panteismo, o panenteismo, anche se del tutto riabilitato dopo il Concilio Vaticano II[18]. Vale pure per Hegel, anche quando, sbagliando, difendeva Keplero contro Newton, a Heidelberg.

L’idealismo è stato una grande scuola. La radice è nel maggior filosofo dell’illuminismo, Kant: quel Kant, idealista nella gnoseologia, fautore dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 nonché autore del trattatello Per la pace perpetua (1795), base granitica del movimento federalista europeo[19].

Anche Schelling, che vedeva lo spirito infinito attorno a cui ruota la conoscenza umana come identico a quello operante nell’infinita natura, non è poi così male, e infatti è stato riscoperto da importanti studiosi cristiani come Xavier Tillette, ma anche dall’ecologismo contemporaneo, come si può vedere nel piccolo, ma interessante libro di Victor Hösle Filosofia della crisi ecologica (1992). Il tutto confluisce poi in quello che è parso a me il più importante pensatore dell’ecologismo contemporaneo: Fritjof Capra. Questo austriaco-americano allievo di Heisenberg non solo è figura per me centrale dell’ecologismo contemporaneo, ma da anni è alla ricerca di un paradigma post-meccanicistico. In una fase relativamente recente ha riscoperto pure Leonardo da Vinci, proprio come espressione di una visione della natura viva, sempre alla ricerca di un paradigma scientifico post-meccanicistico.[20] Ora questa ricerca, da Goethe o addirittura Spinoza[21] a Fritjof Capra, non ha nulla di oscurantista ed è molto importante, anche se va totalmente riconosciuto che sinora il paradigma cosiddetto meccanicista è risultato più razionale. Ma ormai sappiamo tutti – e i fisici più di ciascuno – che nelle scienze ci sono stati paradigmi diversi, per ragioni non solo scientifiche, come ha tra l’altro sostenuto Thomas Samuel Kuhn in La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962/1969)[22]. Se studiassimo qualunque scienza facendone la storia in dettaglio scopriremmo, non senza stupore, che a contraddirsi, anche se con encomiabile accettazione della dimostrazione in senso contrario, non sono stati e non sono solo i filosofi, ma anche gli scienziati. E quando toccano i problemi ultimi dell’essere, della vita e della mente si contraddicono come i filosofi, e spesso come filosofi veramente dilettanti.

Ma torniamo di nuovo all’idealismo dell’inizio del XIX secolo.

Per ora non voglio dire ancora su quali argomenti filosofici forti possa poggiare una rivalutazione dello stesso, ovviamente alla luce di quel che è stato poi pensato, e soprattutto fatto nella storia, nei duecento anni successivi. Mi sembra indubitabile il substrato religioso di Hegel. A parte Löwith, l’aveva già dimostrato Dilthey nel suo studio fondamentale sul giovane Hegel; e la raccolta degli scritti teologici giovanili come delle lezioni di filosofia della religione di Hegel lo dimostra senza ombra di dubbio[23]. Questi testi per me dimostrano cose che per ora sintetizzerei così (ma tra qualche mese vi tornerò in termini più filosofici). L’uomo inventa dio, ma perché la mente dell’uomo è divina. Essa è Logos, né più né meno che per Giovanni Evangelista; ma non come seconda persona di una Santissima Trinità trascendente, bensì come mente immanente nell’uomo, e inconsciamente o semiconsciamente nel resto della natura. Sulla religiosità di Hegel le discussioni sono grandi, sin dalla sua morte. Hegel per me non era affatto “l’ateo e Anticristo” presentato così, paradossalmente, da Bruno Bauer, o il post-cristiano o anticristiano che passo passo deve portare, sul terreno spirituale, al materialismo antropologico di Feuerbach e al materialismo storico di Marx[24]. Era, invece, un composto tra religiosità e realismo, conservatorismo e rivoluzione, che i suoi epigoni dissoceranno. Comunque per me (e per tanti altri) avevano ragione, rispetto alla sinistra hegeliana, quelli della destra hegeliana, o del “centro”, come Rosenkranz. Li ricordiamo meno, o niente – a parte Rosenkranz, in quanto primo e più importante biografo di Hegel – perché erano meno originali[25]. Gli altri, i “nostri”, quelli della sinistra hegeliana, “usavano” Hegel – come ovviamente è sempre accaduto ai pensatori più grandi – non già in modo ingannevole, ma per farne la base per saltare oltre. Quel che rendeva possibile quel salto mortale è il fatto – su cui nella parte più filosofica mi piacerà tornare – che l’Essere di Hegel sia in perpetuo Divenire; è un Divenire dell’Essere e un Essere in Divenire (proprio quello che né il cristiano Kierkegaard né il neo-parmenideo Emanuele Severino avrebbero mai potuto ammettere[26]). Perciò il Logos di Hegel non se ne sta mai chiuso in noi al caldo, ma è un flusso continuo, in cui c’è una logica – a livelli diversi – dall’ameba all’uomo, ma basata su una grande interdipendenza, sempre in atto: infinito che si pone come finito a diversi gradi. Sicché “Dio” per lui è sempre incarnato. (Il che poi, passo passo, porta pure a Bergson o a Teilhard de Chardin, ma sul piano dello storicismo sino a Gentile[27] e oltre; la compagnia è varia, e non sempre raccomandabile, ma vale più o meno per tutti i maggiori filosofi, tanto che non solo Nietzsche dovette annoverare, più o meno forzosamente, tra i suoi estimatori, Mussolini e Hitler, ma persino il quasi libertario Marx dovette “godersi” il suo Stalin, per non dire di Beria, o magari di Pol Pot). Ma seguitiamo, attenti e autocritici, ma senza nulla concedere al gioco vacuo degli indignati di professione.

Morte dello Spirito assoluto hegeliano e irruzione del materialismo rivoluzionario

Ora con la sinistra hegeliana e poi con Feuerbach e Marx accade qualcosa di decisivo, la posa del plinto dell’edificio che culmina nel 1844 nell’idea marxiana della religione come “oppio dei popoli” e nel 1882 nella proclamazione della morte di Dio da parte di Nietzsche[28]. (Ciò non determina, ma è complementare, all’affermarsi del materialismo nel movimento operaio). L’accadimento decisivo è che nell’edificio hegeliano cade ben presto l’infinità; e non c’è infinità senza eternità, e senza un sottendere l’al di là dello spazio e del tempo, ossia “il Logos”. Nasce un ateismo che subito sottende il materialismo. Si badi che non è così per ogni ateismo. Ad esempio il buddhismo è ateo; parte addirittura da quello che Siddharta Sakyamuni detto Buddha (l’Illuminato) oltre cinquecento anni prima di Cristo, in India, chiamava “Anatman”, che vuol dire: non c’è l’Anima del mondo, non c’è Dio, non c’è Atman, non c’è il Sé. Ma tra gli aggregati dell’essere concreto i buddhisti mettevano e mettono la Coscienza, che per quanto mobile e mutevole insieme a tutto il resto, in base all’esperienza che fa di vita in vita era ed è per loro un che di perenne[29]. Invece i giovani hegeliani accentuavano talmente la fusione tra l’essere e il divenire, tra il Logos e il reale, e da Feuerbach in poi tra lo spirito e la materia, da negare il primo termine risolvendolo totalmente nel secondo, riducendo l’Io in senso universale di Hegel, ancora presente – come potrei dimostrare – nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx – pur già formalmente atei e materialistico feuerbachiani (ma forse meno di quanto sembri) – a quello che Hegel avrebbe detto “Io empirico”. Perciò non c’era più la Ragione “in re”, il soggetto assoluto pure in continuo movimento, ma solo la pretesa razionalizzazione, com’è poi stato spesso nello storicismo contemporaneo[30].

Questo fatto aveva molte motivazioni. Trascuro, per ora, quelle più filosofiche (che riprenderò in seguito, magari tra molti mesi). Quei giovani, senza saperlo, erano tutti contestatori che stavano preparando il loro Sessantotto, il 1848 europeo. Il dio di Hegel, risolto nella mente e nella storia (e anche nella natura, sia pure ritenuta da Hegel – diversamente che da Goethe e Schelling, che la consideravano sinonimo del divino – un Assoluto opaco, meno intenso, inconscio o semiconscio), si conciliava sempre con l’esistente: era una potenza sintetizzatrice infinita a priori a monte, non solo come costruttività dell’intelletto umano come in Kant, ma come essere appunto infinito, o Dio-Uomo e nell’Uomo, in moto perpetuo. (In Hegel la distinzione tra Ragione e Intelletto era fondamentale, come distinzione tra filosofare universalistico e scienze empiriche; e persino tra filosofia e scientificità empirica: tra realtà “con” la mente, e “nella” mente, e realtà pensata come se la mente che la pensa non esistesse: lui era per la prima, e “pretendeva” anzi di sussumere la seconda alla prima come “instrumentum Rationis”).

Ma questo indirizzo di Hegel faceva o sembrava fare il gioco della conservazione. Quella sintesi a priori ontologica, d’essere, per cui come nel canto protestante “Dio fu sempre in noi” (e per Hegel fu “sempre noi”), pareva dover essere tolta di mezzo al più presto, per la sinistra hegeliana, in modo che la sintesi “verace” fosse solo il risultato “razionale”, frutto dell’antitesi, elevata a perno del divenire: un divenire che Marx infatti intenderà come rivoluzione continua, che deve rendere razionale un “reale” che di per sé e nella sua datità non lo era affatto[31].

Naturalmente la costruzione di Marx è una cosa grandiosa, se e quando uno la capisca. Ha in sé lo spirito rivoltoso e creativo di Prometeo, che non solo aveva entusiasmato il giovane Goethe a ridosso della Rivoluzione francese, ma era citato con entusiasmo, da Marx, pure nella tesi di laurea del 1841, e da Nietzsche, che vedeva il mito di Prometeo come caratteristico dell’uomo “ariano” (da lui però mai contrapposto al semita), nella Nascita della tragedia (1872).[32] Io avevo preso a leggere Nietzsche con entusiasmo totale a sedici anni e fu proprio per questo – quando compresi che il vero Marx era portatore di un pensiero prometeico, di rivolta totale e sociale, similare – che nel 1962 volli diventare marxista, socialproletario e comunista.

Anche Lenin era uno così, un vero uomo in rivolta o, come scrissi nel 1970 nel centenario della sua nascita, il tipo dell’”uomo rivoluzionario”[33]. In questo era proprio come Marx: credeva che la Rivoluzione fosse il soggetto della storia, il frutto maturo dell’antitesi più radicale, l’effetto necessario della distruzione dello Stato borghese. Al congresso di Copenaghen del 1910 dell’Internazionale Socialista un membro dell’Ufficio di presidenza, parlando delle polemiche suscitare da Lenin nella socialdemocrazia russa cui apparteneva, con un avversario di corrente dello stesso Lenin, Axelrod, si stupiva che un solo uomo potesse suscitare tanti problemi in un partito. Axelrod gli diede questa spiegazione: “Perché non vi è un altro uomo che per ventiquattr’ore al giorno sia assorto nella rivoluzione, non pensi ad altro che alla rivoluzione e che, anche nel suo sonno, non sogni altro che della rivoluzione. Provatevi solo a trattare con un tipo simile.”[34]

La valutazione era confermata, a caldo. Nella palazzina di Pietroburgo della ballerina di corte Ksesinskaja – palazzina (poi Museo) che io ho visitato nel 1997, e che era stata la sede del partito bolscevico nel 1917 – Lenin, fortunosamente tornato in Russia nell’aprile 1917, aveva enunciato le famose Tesi d’aprile (in linea con Stato e rivoluzione, dello stesso anno). A udirlo c’era pure, benché non bolscevico, anche il menscevico di sinistra Suchanov, simpatizzante. Egli descrisse la sua forte impressione così: “Non dimenticherò mai quel discorso tonante che scosse e sorprese profondamente non soltanto me, eretico sopraggiunto per caso, ma anche tutti gli ortodossi. Sembrava che tutti gli elementi fossero usciti dai loro rifugi e che lo spirito di distruzione universale, che non conosceva né limiti né dubbi, né difficoltà umane né calcoli umani, si librasse nella sala della Ksesinskaja sopra le teste dei discepoli stregati.”[35]

Così era Lenin, anche se dopo aver visto le tragedie immani provocate dal comunismo di guerra, volto a realizzare il modello collettivista, abolendo persino l’economia monetaria, in modo immediato, non solo s’inventò, dal 1921, il modello anticipatore di Deng Hsiao Ping della Nuova Politica Economica (privatismo economico sotto la dittatura del partito comunista a nome del proletariato), ma a mio parere prese a ripensare la dialettica tutta incentrata sull’antitesi di Marx (e sua), per rettificarla: si mise a ristudiare la Logica di Hegel, secondo me non per inverare il proprio Materialismo e empiriocriticismo del 1909, come pensava Colletti (tanto materialista “oggettivista”, ovviamente deluso nelle epigoniche speranze rivoluzionarie “oggettive”, da diventare infine berlusconiano), ma alla ricerca della sintesi degli opposti che la totale concentrazione sull’antitesi gli aveva inibito[36]. Il punto chiave da comprendere, per me, è che la dialettica della grande negazione, senza uno Spirito universalmente umano ritenuto sempre presente in tutti i momenti che scandiscono ogni divenire (tesi antitesi sintesi), poteva facilmente consentire, come un’auto in corsa senza freni, o magari solo con guidatore “automatico”, disastri immani. Questo negativismo radicale era il lascito della negazione del Logos, o Assoluto, o “Dio” pure immanente: negazione che toglie ogni limite alla distruttività umana, inverando tutti i più grandi incubi di Dostoevskij sul nichilismo e la rivoluzione. Del resto il rivoluzionario assassino Necaev, che è adombrato nei Demoni, era un seguace di Bakunin, il quale era strettamente legato al negativismo della sinistra hegeliana[37].

La mia tesi oggi è che quegli hegeliani, o post-hegeliani (oggi abbiamo i post-comunisti, ma tra il 1835 e il 1846, e pure oltre, ad esempio nell’ex giovane hegeliano Bakunin, c’erano i post-hegeliani), gettarono via l’acqua sporca col bambino. Credendo di essere rivoluzionari, negarono il Logos “immanente” e così si lasciarono convertire al materialismo della borghesia, che presto sarebbe diventato positivistico. Borghesia capta ferum inimicum cepit.[38] La borghesia catturata, catturò il suo feroce nemico”, il movimento operaio. Vi riuscì, e riesce, attraverso tutte le forme possibili e immaginabili di materialismo.

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. Per i citati “discontinuisti” richiamati, si vedano: E. GIBBON, Decadenza e caduta dell’impero romano (1776/1788), Newton Compton, Roma, 1973; J, BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), Sansoni, Firenze, 1955 (e, con Prefazione di C. Vasoli, 1986). Ma si veda pure l’op. cit. di Nietzsche in: F. NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli (1887), Il caso Wagner, L’Anticristo e Scelta di frammenti postumi del 1887, in “Opere complete”, Adelphi, Milano, 1970.
  2. A proposito di continuità storica si vedano: c. AUGIAS – G. FILORAMO, Il grande romanzo dei Vangeli, Einaudi, Torino, 2019; G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia del cristianesimo. L’Antichità; K. BURDACH, Riforma, Rinascimento, Umanesimo (1926), Sansoni, Firenze, 1935; M. CILIBERTO, Il Rinascimento. Storia di un dibattito, La Nuova Italia, Firenze, 1995.
  3. B. BONGIOVANNI, La caduta dei comunismi, Garzanti, Milano, 1995. Su ciò: F. LIVORSI, La caduta dei comunismi, “Le ragioni del Socialismo”, a. 1, n. 3, aprile 1996, pp. 43-45. Il cenno al “gattopardismo”, col motivo per cui tutto deve cambiare per restare come prima, si veda: G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1958.
  4. A proposito dell’affermarsi del modello “oggettivo” di scienza si veda: J. D. BERNAL, Storia della scienza, Editori Riuniti, Roma, 1956. L’approccio volto a determinare principi di diritto internazionale formulati “come se Dio non esistesse”, è del calvinista olandese UGO GROZIO (Hulg van Groot), in De jure belli ac pacis (1625), ma si veda ivi: Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, a cura di G. Fasso, Zanichelli, Bologna, 1949. Ma l’approccio materialistico scientifico, molto apprezzato anche da Marx, è in: T. HOBBES, Elementi di filosofia. Il corpo – L’uomo (1655/1658), a cura di A. Negri, UTET, Torino, 1972. Tra l’altro la frase famosa “homo homini lupus” è qui e non nel più famoso Leviatano (1651), a cura di G. Miceli, La Nuova Italia, 1976, come di solito si crede. Per il puro evoluzionismo biologico, si veda: C. DARWIN, L’origine delle specie (1859), a cura di G. Montalenti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977; per il tema della religione nell’autore: C. DARWIN, Lettere sulla religione, a cura di T. Pievani, Einaudi, Torino, 2013. Il carattere avalutativo della scienza è teorizzato da M. WEBER in: Il metodo delle scienze storico sociali (1922), Einaudi, 1958, ma infine 2003. Le pagine più famose di F. NIETZSCHE sulla “morte di Dio” sono in: La gaia scienza (1881-1882), Adelphi, Milano, 1965, ma ripreso in Oscar Mondadori, Milano, 1973, libro III, par. 125, pp. 125-126.
  5. K. LŐWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del secolo XIX, Einaudi, Torino, 1949.
  6. E. BURKE, Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790), in: “Scritti politici”, a cura di A. Martelloni, UTET, 1963.
  7. C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, 1965.
  8. C. CATTANEO, Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) – La città considerata come principio ideale delle istorie (1858), a cura di F. Livorsi e R. Ghiringhelli, Oscar Mondadori, 2001. Nel primo dei due testi, curato da me, il riformismo teresiano è profondamente vagliato e apprezzato, pur con approccio “anche” patriottico italiano, da Cattaneo.
  9. A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione (1856), in “Scritti politici”, a cura di N. Matteucci, UTET, 1968/1969, I.L’opera di W. A. MOZART, con libretto di Emanuel Schikaneder, è del 1791.
  10. Per la massoneria si veda soprattutto: S. HUTIN, La framassoneria, in: “Storia delle religioni”, a cura di H.C. Puech, vol. 12: Esoterismo, spiritismo, massoneria, Laterza, 1981, pp. 157-180.
  11. Per i riferimenti a Rousseau, si veda: J.-J. ROUSSEAU, “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, UTET, 1970, per i seguenti scritti: Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), pp. 207-264 e Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754), pp. 265-370, in cui compare e viene sviluppato il tema dello stato di natura armonico, e sino a un certo punto quello del “buon selvaggio”, con valorizzazione del comunismo originario, piena di echi nel futuro socialismo; Contratto sociale (1762), pp. 719-843, per il modello di uno Stato razionale basato sull’autogoverno, espressione della “volontà generale” dei cittadini. Ma si veda pure: Emilio o dell’educazione (1762), a cura di P. Mazzini, Armando, Roma, 1989; Le Confessioni (1782/1789), Garzanti, 1976.Per l’idealismo del pensatore, si veda: A. ILLUMINATI, J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, Il Saggiatore, Milano, 1977.
  12. J.-J. ROUSSEAU, Contratto sociale (1762), in: “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, cit., 832/842 (sulla “religione civile”).
  13. H. GUILLEMIN, Robespierre politico e mistico (1987), Garzanti, 1989.
  14. A. BORDIGA, Fiorite primavere del capitale, “Il programma comunista”, n. 4, 1953: bellissime pagine sul protagonismo proletario “in campo” nelle rivoluzioni borghesi come quella del 1789, per conto del capitalismo moderno nascente, ma con ruolo progressivo. Ho riproposto il testo in: A. BORDIGA, “Scritti scelti”, a cura di F. Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 244-256.
  15. Su Metternich e Napoleone, si veda: K. Von METTERNICH, Memorie (1820), Bonacci, Roma, 1991 (ma già Einaudi, 1943).
  16. K. MARX in: Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), in: “Annali franco-tedeschi” (1844), a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, Milano, 1965, osservava: “La filosofia del diritto, la filosofia politica tedesca è l’unica storia tedesca che stia al pari con il moderno presente ufficiale (p. 132)”. Ossia, che non rifletta le condizioni premoderne ancora forti in Germania, ma l’Occidente capitalistico avanzato. “In politica, i tedeschi hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno realizzato. La Germania è stata la loro coscienza teorica. (…) (La) scienza politica tedesca esprime l’incompletezza dello Stato moderno, la piaga del suo stesso corpo.” In altre parole “la filosofia tedesca” è la teoria del diritto dello Stato moderno europeo, e postula una rivoluzione in Germania e in Europa di tipo post-borghese, “una rivoluzione che la sollevi non solo al livello ufficiale dei popoli moderni”, cioè al modello degli Stati borghesi “avanzati”, “ma all’altezza umana che sarà il prossimo futuro di questi popoli” (p. 134).” Si parla poi di rivoluzione “radicale”, ma già incentrata sul proletariato (pp. 141-142).
  17. J. W. Goethe in morfologia scopre l’osso intermascellare. Ma si veda: F. MOISO, Goethe, la natura e le sue forme, Mimesis, Milano, 2012. L’opera più famosa, vasta e accattivante, del grande botanico ed esploratore A. von HUMBOLDT è Kosmos (1845/1862). Si veda, parzialmente: Quadri della natura, La Nuova Italia, Firenze, 1995.
  18. Il confronto tra Henri Bergson e Einstein sul “tempo” e la teoria della relatività si tenne a Parigi, presso l’Association Franςaise de Philosophie, il 6 aprile 1922; ma si veda: H. BERGSON, Durata e simultaneità. A proposito della teoria di Einstein, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano, 2004. Nell’indirizzo si veda: P. TEILHARD DE CHARDIN, La vita cosmica (1916), Il Saggiatore, 1970 (e 1982). Dello stesso si veda l’opera fondamentale: Il fenomeno umano (1938/1940), a cura di F. Mantovani, Queriniana, Brescia, 1995.
  19. Il riferimento naturalmente va a: I. KANT, Critica della ragion pura (1781/1787), tr. di G. Gentile e di G. Lombardo Radice, rivista da V. Mathieu, Laterza, Bari, 1959; Critica della ragion pratica (1788), a cura di F. Capra, rivisto da E, Garin, ivi, 1965; Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con Introduzione di N. Bobbio, Editori Riuniti, 1992. Su quest’ultimo testo si veda pure: F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., “Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo”, a cura e e con Introduzione di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1988, pp. 3-31.
  20. Per Schelling è ora fondamentale: X. TILLETTE, Vita di Schelling (1992), Bompiani, Milano, 2012. Tra le molte opere di F. CAPRA, scienziato alla ricerca di un nuovo paradigma, post-meccanicistico e anzi vitalistico, si vedano: Il Tao della fisica (1975), Adelphi, Milano, 1982; Verso una nuova saggezza. Conversazioni con G. Bateson, I. Gandhi, W. Heisenberg, Krishnamurti, R. D. Laing, E. F. Schumacher, A. Watts e altri personaggi straordinari (1988), Rizzoli, 1988, libro di grande interesse e di grande suggesione; Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982), Feltrinelli, Milano, 1982, che io considero l’opera più importante dell’ecologismo contemporaneo; con C. SPRETNAK, La politica dei Verdi. Cultura e movimenti per cambiare il futuro dell’Europa e dell’America (1984), Feltrinelli, 1986; L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, Rizzoli, 2012. Ho vagliato le idee di Fritjof Capra nel mio: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000, pp. 297-318.
  21. F. LIVORSI, Il mito della nuova terra, cit., pp. 163-168; A- NAESS, Spinoza and the deeo ecology movement, Eburon, Delft, 1993.
  22. T. S. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 2009.
  23. K. LŐWITH, Da Hegel a Nietzsche, cit. Ma si veda: W. DILTHEY, Storia della giovinezza di Hegel e Frammenti postumi (1921), Guida, Napoli, 1986; G. W. F. HEGEL, Scritti teologici giovanili (a cura d H. Nohl in Germania, 1907), e tr. a cura di E. Mirri, Guida, Napoli, 1972/1977, due voll.; Lezioni sulla filosofia della religione, (già a cura di Georg Lasson in Germania, 1925/1929), tr. it. a cura di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, 1983, tre voll., da confrontare ora con: Lezioni di filosofia della religione (a cura di Walter Jaeschke in Germania, 1983), tr. it. a cura di R. Garaventa e S. Achella, Guida, Napoli, 2001, due voll.
  24. K. LŐWITH, La sinistra hegeliana. Antologia di testi (1962), Laterza, 1966. Ma si vedano pure: L. FEUERBACH, L’essenza del cristianesimo (1841), Feltrinelli, 1971; K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927), in “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, 1963.
  25. Sulla destra hegeliana: H. LŰBBE, Gli hegeliani liberali (1962), Laterza, 1974. Ma si veda l’hegeliano di “centro”: K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel (1844), Mondadori, Milano, 1974.
  26. Per il tema anti-hegeliano dell’Assoluto che non può divenire, si veda il bellissimo: S. KIERKEGAARD, Timore e tremore. Lirica dialettica di Johannes de Silentio (1843), Comunità, Milano, 1983. Per Emanuele SEVERINO si vedano – oltre a: Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia, 1972, che contiene pure il suo noto saggio del 1964 Ritorno a Parmenide, le pagine su Hegel nel suo: La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein, Rizzoli, 1986 e poi 2004.
  27. G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze, 1913,
  28. K. MARX, Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), in: “Annali franco-tedeschi”, cit. Rinvio pure alle pagg. già cit. di F. NIETZSCHE, La gaia scienza, sulla “morte di Dio”.
  29. D. S. LOPEZ Jr., Buddhismo e scienza. Storia di un amore (2008), Ubaldini, Roma, 2010. Ma si veda pure: J. M. KOLLER, Le filosofie orientali (1970), Astrolabio-Ubaldini, 1971, specie alle pagg. 140-180.
  30. Emerge da tutto il vasto studio di Pietro ROSSI Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, 1956.
  31. G. W. F. HEGEL, Scienza della logica (1812), a cura di A. Moni, Laterza, 1968, due voll.; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), a cura di B. Croce, Laterza, 1907. A proposito di idea dell’eticità e realtà va ricordato quel che Marx diceva in: Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, nel 1843, in “Opere filosofiche giovanili”, cit.: “Si è molto combattuto Hegel a proposito del suo sviluppo della morale. Ma egli non ha fatto altro che sviluppare la morale dello Stato moderno e del moderno diritto privato. Si è voluto separare maggiormente la morale dallo Stato, emanciparla maggiormente. Che cosa si è con ciò provato? Che la separazione dello Stato attuale dalla morale è morale, che la morale è impolitica e lo Stato è immorale. É piuttosto un grande merito di Hegel, sebbene inconsapevole sotto un certo aspetto (sotto l’aspetto per cui Hegel spaccia per idea reale dell’eticità lo Stato che ha come suo presupposto una cosiffatta morale, l’aver messo la moderna morale al suo vero posto)” (p. 122).
  32. ESCHILO, Prometeo incatenato (470/460 a,C.), in: ESCHILO, SOFOCLE, EURIPIDE, I”l teatro greco. Tragedie” , a cura di G. Paduano, BUR (Rizzoli), 2005, pp. 251-284; W. GOETHE, Prometeo (1772/1774), in “Opere”, I, a cura di L. Mazzucchetti, Sansoni, Firenze, 1944, pp. 393-413. Ma si vedano: K. MARX, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro (tesi di laurea discussa a Bonn nel 1841, in cui Prometeo è espressamente evocato come simbolo della rivolta contro il Cielo), a cura di D. Fusaro, Bompiani, Milano, 2009; F. W. NIETZSCHE, La nascita della tragedia (1872), Adelphi, 1972, in cui Prometeo è evocato, nel modo anzidetto, al cap. 9).
  33. F. LIVORSI, Attualità di Lenin. A cento anni dalla nascita, “L’idea socialista”, Alessandria, aprile 1970. Ma con lo stesso spirito, sullo stesso mensile, avevo scritto, più rozzamente: Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, 3 novembre 1962 (in cui recensivo: LENIN, Il movimento operaio italiano, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma, 1962); Lenin e l’attuale estremismo di sinistra, 19 ottobre 1963 (in cui recensivo in modo attualizzante, in senso antiriformista: LENIN, L’estremismo malattia infantile del comunismo, 1920, e ivi, 1962).
  34. B. D. WOLFE, I tre artefici della Rivoluzione d’ottobre. (Lenin, Trotzki, Stalin) (1948), La Nuova Italia, Firenze, 1963, p. 329.
  35. Citato da: L. TROTSKY, Storia della rivoluzione russa (1932), Sugar, Milano, 1964, p. 326 (sottolineatura mia). G. WALTER, Lenin, Dall’Oglio, Milano, 1962, pubblica integralmente non solo le Tesi d’aprile, ma i commenti a voce di Lenin.
  36. LENIN, Materialismo e empiriocriticismo (1909), Rinascita, Roma, 1954; Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Feltrinelli, 1958; L. COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Laterza, 1969. Ma si veda pure: Il futuro del capitalismo, a cura di L. Colletti e C. Napoleoni, Laterza, 1970.
  37. Il rivoluzionario anarchico e nichilista Necaev scrisse con Bakunin – assai segnato dal negativismo della sinistra hegeliana – Il catechismo del rivoluzionario. Si veda, su ciò: F. VENTURI, Il populismo russo, Einaudi, 1952, I. Necaev ispira, con il suo radicalismo criminale, una delle figure centrali del romanzo di F. DOSTOEVSKIJ I demoni (1871), Mondadori, 1932, ma poi Biblioteca Moderna Mondadori, Milano, 1955, due volumi. Lo stesso Necaev uccise pure un membro della sua piccola setta. Ma si veda ora: M. CONFINO, Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affare Necaev, Adelphi, Milano, 2014.
  38. F. DOSTOEVSKI, I fratelli Karamazov (1879/1880), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998.

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