Filosofia del Socialismo

Idealismo e Materialismo nella Storia contemporanea

pubblicato il 01/03/2020

III

Nell’epoca detta della “reazione al positivismo” (o al materialismo “oggettivo”) della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, oltre al neoidealismo di Croce e Gentile, o al neospiritualismo di Bergson, o al pragmatismo spiritualistico di James, maturò pure il futurismo.

Futurismo

Infatti il Manifesto del Futurismo, firmato da Filippo Tommaso Marinetti, uscì sul “Figaro” di Parigi il 20 febbraio 1909. Aveva già, politicamente, il sincretismo tra le ali estreme che sarà poi proprio, specie all’inizio, del fascismo (di cui Marinetti fu esponente, sempre controcorrente ma dall’inizio alla fine). Il manifesto, infatti, esaltava sia la rivoluzione che la guerra come manifestazioni estreme di vitalità, e di aperura al mondo ipermoderno incombente (“futuro”): mondo nuovo, dinamico, industriale e metropolitano, opposto a quello tradizionale e rurale, vacuamente sentimentale e immobilistico, che si sarebbe voluto spazzare via quanto prima perché sarebbe stato noioso, ammuffito e marcio. Perciò si affermava: “1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. (…) 9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. (…) 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali …”[1]

Qui – in quella che poi divenne una corrente importante dell’arte e della cultura, apprezzata pure da Gramsci già leader del comunismo[2] – non è difficile cogliere l’atmosfera spirituale degli opposti estremismi, ancora giustapposti (anarcosindacalismo e volontarismo di guerra, spirito della rivolta e spirito “eroico”, e, in embrione, una miscela esplosiva tra estrema sinistra ed estrema destra, poi fascista o quantomeno proto-fascista).

Di tutto questo magma detto “reazione al positivismo”, a prescindere pure dal Futurismo qualcosa, negli stessi anni, arrivava anche nella grande sinistra organizzata, ma marginalmente. Georges Sorel coglieva la crisi morale e spirituale del materialismo marxista e i processi d’integrazione del socialismo nel sistema “borghese”, cui voleva reagire. Egli voleva rivitalizzare la sinistra, ma più in generale la politica, trasformando il socialismo – che da Marx a Kautsky si era creduto “scienza” – in fede collettiva, in “mito” che fa la storia, sino a inneggiare alla violenza, però ancora intesa come rivolta, che avrebbe dovuto mutare lo spirito del socialismo stesso – spirito che sarebbe stato corrotto dai compromessi in parlamento e nelle istituzioni “borghesi” – rigenerandolo (ma più in generale rigenerando la politica di tutte le parti in lotta, tramite atti di rottura interiorizzati e praticati, di violenta insubordinazione e di scontro). Sempre inseguendo – possibilmente da sinistra, ma eventualmente anche “dall’altra parte” della barricata, grandi sogni o miti di entusiastica rigenerazione inter-soggettiva. Il mito “creatore” era desunto dall’intuizionismo di Bergson, che Sorel leggeva, e ascoltava, appassionatamente. Questo era il senso di Riflessioni sulla violenza di Sorel del 1909 (di cui si coglie una forte eco in Mussolini quando era socialista, e lo recensiva con forte apprezzamento; ma se ne coglie ancora un’eco nell’inno di “Lotta continua” alla “violenza”, nel 1969[3]). Naturalmente nel tutto c’era pure, esplicitamente, molto Nietzsche.

Ora, mentre fermentava tutto questo nella cultura, e certo nella coscienza di avanguardie non irrilevanti di tutte le parti in lotta prima e dopo la Grande Guerra, il socialismo – in grandissima parte – restava fermo al suo materialismo positivista, evoluzionista, ottocentesco, preteso “scientifico” anche in ambito sociopolitico. Era vero per i riformisti come per gli “intransigenti” del 1911/1917 (dal 1918 chiamati “massimalisti”). Solo piccole minoranze, non a caso prossime all’anarchismo, sorelliane, anarcosindacaliste, sindacaliste rivoluzionarie, erano conformi alla cultura epocale – bergsoniana, sorelliana, eccetera – di reazione al positivismo, cioè erano attiviste ed eversive non già in nome della scienza e dell’”evoluzione”, ma per ansia di vita intensa, che portasse al massimo l’adrenalina volta ad esprimere intensa vitalità: tendenze “gruppuscolari” che poi cercarono sbocco, dopo il futurismo e anarcosindacalismo d’anteguerra, nell’interventismo, nel volontarismo e arditismo di guerra e spesso, ma non sempre – perché i più tra quegli uomini in rivolta per passione non passarono affatto alla reazione, ma perdurarono nello spirito di rivolta – nel fascismo.

La reazione al materialismo positivista ai margini della sinistra e il “caso Mussolini” nel Partito Socialista

Tuttavia anche nel socialismo in senso forte – pur sempre restio a tendenze del genere – in modo assolutamente temporaneo e transitorio a un certo punto la cultura della reazione al positivismo – nietzscheana, bergsoniana e sorelliana – si manifestò e parve quasi prevalere. Accadde nel libero Partito Socialista Italiano, che è stato in ogni tempo, nelle luci come nelle ombre, spesso in senso innovatore , ma in certe fasi anche in senso deteriore, una straordinaria fabbrica del futuro, che una volta, ma in senso positivo, in riferimento alle maggiori svolte riformista dalla fine del XIX secolo alla fine del centrosinistra, da Giovanni Giolitti a Aldo Moro, nel XX secolo, ho chiamato “autobiografia della nazione”[4]. Per tale tratto, proprio di gente al tempo stesso libertaria e senza una forte, ma anche limitatrice, identità, perciò poté accadere – sia pure per un triennio soltanto in posizioni di primo piano – che un tipico esponente del magma, o “reazione al positivismo” si trovasse sbalzato (o in grado di balzare) ai vertici dello PSI. Aveva certo letto Nietzsche e Sorel, ma anche Bergson e Pareto, anche se aveva la cultura soprattutto del giornalista, cui molte idee possono arrivare o come brevi suggestioni oppure di seconda mano, ad esempio, in tal caso – come il personaggio in questione avrebbe apertamente riconosciuto – attraverso il periodico “La voce” di Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Amendola. Mi riferisco naturalmente a Benito Mussolini, tra il congresso di Reggio Emilia del PSI del 1912, la sua successiva direzione del quotidiano socialista “Avanti!”, e la sua espulsione per interventismo nel settembre 1914[5].

Ora questo attraversamento del PSI dal 1902 al 1914 (sebbene con un ruolo di primo piano solo dal 1911) da parte di Mussolini, è un fatto storico rilevante nella storia del socialismo, e che incise profondamente sulla gioventù socialista di estrema sinistra dell’epoca, da Bordiga a Gramsci, come Renzo De Felice, ma pure Luigi Cortesi, e Giovanni De Luna, hanno benissimo raccontato[6]. Mussolini tentò pure di fondare una vera corrente di pensiero di quel genere, ponendo a lato dell’”Avanti!”, di cui tra il 1913 e il 1914 fu prestigioso direttore, il suo mensile “Utopia”, che esplicitava proprio il problema di una revisione idealistica e volontaristica del socialismo. Ma poi la guerra lo spinse progressivamente dall’altra parte della barricata, credo dalla rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917 in poi, che scavò un abisso tra chi la guerra l’aveva contestata, subita e detestata (sino ad esplodere in quella terribile rotta, che fu quantomeno un grande “sciopero militare”[7], anche se non fu effetto di deliberato disfattismo rivoluzionario), e chi la guerra l’aveva voluta, imposta alla maggioranza virtuale del Paese, come Mussolini stesso, e spesso entusiasticamente fatta.

Ma già prima del settembre 1914, quando la popolarità di Mussolini a sinistra era all’acme, il suo essere alquanto fuor d’acqua, secondo i capi del suo partito, emergeva. Mentre era già direttore dell’”Avanti!”, nonostante il sostegno di Tasca, Gramsci e altri, i socialisti di Torino nel 1913 gli preferirono, come candidato alla Camera, l’operaio Mario Bonetto. E Gramsci, in un famoso articolo del ’25, “Capo” – in cui contrapponeva Lenin come vero capo storico fondatore di uno Stato nuovo a Mussolini come pseudocapo storico, che occupava lo Stato e non lo rifondava – ricordava che nel PSI, in Direzione, Mussolini si sarebbe fatto mettere nel sacco da figure di secondo piano, che citava[8]. Su ciò c’è un testo del 1913 di Filippo Turati che io ho scovato e commentato, già nella vasta – e sin lì, e da lì, più vasta e da me introdotta e curata per la Feltrinelli– raccolta di scritti di Turati (1979), sul quale poi avrei fatto la biografia (Rizzoli, 1984). Turati nel 1912, al congresso di Reggio Emilia del PSI, aveva consentito – benché il voto dei delegati della sua corrente fosse determinante – la liquidazione dei principali capi della “destra riformista” socialista, astenendosi quando Mussolini aveva proposto l’espulsione di quei suoi amici riformisti della prima ora, due dei quali già a lui carissimi (Bissolati e Ivanoe Bonomi), rimasti filogiolittiani nonostante la guerra di Libia (Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca); ma poi Turati, che aveva sottovalutato la corrente pretesa rivoluzionaria (da lui creduta acefala), si era ritrovato per dieci anni, ai vertici del partito, una “sinistra intransigente”, di cui Mussolini era – a lato di Giacinto Menotti Serrati e Costantino Lazzari – se non il vero leader maximo l’esponente più popolare, e certo uno che – per quanto poi risultato anni dopo cinico e spregiudicato in sommo grado, e a detta del suo amato fratello maggiore Arnaldo, persino con qualche tratto criminale – sapeva fare politica ed era un giornalista ed agitatore efficace. In un ampio articolo, geniale e inesorabile, ma anche indicativo della distanza tra vecchio socialismo “evoluzionista e positivista” e tendenze emergenti che ho detto di reazione al positivismo, il sottile Turati, dal fiuto infallibile da leader di lungo corso sulla breccia dal 1878, e anche da persona con una forte sensibilità letteraria (da ex poeta), diceva: “Or cotesta voce [di Mussolini direttore dell’”Avanti!”] – abbia pure il caldo simpatico accento di ciò che esce dal profondo di uno spirito passionato, geniale, sdegnoso di opportunistiche reticenze e viltà – è voce che non sorge dalla realtà delle cose, né si inspira al socialismo – questa ‘realtà che diviene’ – alla sua dottrina e al suo metodo; che ad esso non può quindi condurre, ma ci dilunga da esso. Voce che forse deriva dalle vetuste catacombe dei primi ingenui cristiani, dai recessi solitarii degli asceti auspicanti il ‘millennio’, dai cenobiti degli inebriati di dissolvimento – che altra volta echeggiò nella storia, dove turbe angariate ed oppresse sognarono, nei tempi più oscuri, palingenesi subitanee da cataclismi fantastici e meravigliosi – voce, insomma, che s’inspira al miracolo, e vi crede, e lo invoca, e che, impaziente, lo affretta. Non è – diciamo anche questo – la voce e la parola neppure del vecchio giacobinismo presocialista, del blanquismo superato e sepolto, al quale udimmo spesso avvicinarla come a termine congruo di paragone. Né c’inganni la modernità letteraria dell’intonaco, onde il periodo tormentato e vibrante del pubblicista sembra riconnettere il pensiero all’ispirazione stirneriana e nietzschiana, alla suggestione, oggi in voga, del volontarismo neoidealista, neospiritualista, neocarlyliano, o bergsoniano, o neomistico. (…) I filosofi del volontarismo, come i revenants del misticismo riverniciato, credono bensì ad un certo loro miracolo – ma lo inseguono nell’individuo che si isola e si sublima – ‘solo il solo è forte’ – non nelle opache masse popolari: esaltano il superuomo nella sotto-umanità.” E qui Turati, che pure aveva conosciuto d’Annunzio sin dal 1899, negava per spirito polemico l’evidenza, cioè le fonti stesse del pensiero-prassi in questione, che pure – lo si è or ora visto – elencava una ad una (Blanqui, Stirner, Nietzsche, Bergson). E proseguiva dicendo la verità, ma al tempo stesso evidenziando l’incapacità di cogliere il sottosuolo di una cultura o spirito del tempo e del profondo che avevano carattere epocale, essendo ben altro che “mode”: “Che è, allora, questa voce e questa parola, che vorrebb’essere voce e parola di un Partito d’avanguardia vigile e vivo, e che – forse titillando le sdruciate minugie della cetera atavica sepolta nei gangli nervosi della stirpe, desta qualche fremito di echi, quasi frammenti, che affiorino, di una vecchia canzone obliata? Religione? Magismo? Utopia? Sport? Letteratura? Romanzo? Nevrosi? Certo non è il socialismo – perché è la negazione del socialismo. Il quale ben può assumere, nella varietà delle epoche, dei paesi, delle contingenze, dei temperamenti dell’uomo, le forme le più disparate, dall’audace idealismo ultrarivoluzionario, agli empirici adattamenti del più timido e micromane possibilismo; e le diverse forme possono, sino a un certo segno, coesistere, cospirare, integrarsi o supplirsi a vicenda; ma sempre, fin che sia socialismo, insegna a rinnegare la fede nel miracolo, ravvisa nel complesso tessuto delle economie, nelle lente formazioni della storia, le cagioni vere dei contrasti e dei dominii di classe, delle aurore e dei tramonti sociali; e ammonisce a disdegnare la stregoneria semplicistica, che affida alla volontà e all’iniziativa degli individui, dei precursori, degli apostoli, dei cenacoli, dei gruppi, delle ‘armate di salvazione’, la missione di improvvisare – precorrendo le trasformazioni profonde, generate negli uomini e nelle società da un graduale e faticoso succedersi e addensarsi di riforme e di conquiste, nell’evolvere parallelo di condizioni obiettive propizie – le coscienze e forze, le capacità sufficienti e necessarie, nei milioni di proletarii disseminati sulla terra, per modellare e suscitare e animare lo spirito vitale, le nuove aspettate civiltà del lavoro, dell’uguaglianza, della solidarietà umana e sociale.” In tal modo chiamava a raccolta tutte le frazioni socialiste contro un elemento estraneo, di cui aveva intuito la pericolosità per quel materialismo economico e gradualismo con cui identificava il socialismo.[9] Tante volte a sinistra si sarebbe fatto così con il potenziale “capo”, specie se non fosse o sia espressione dei burocrati o vecchi oligarchi interni al vertice da decenni, ma “homo novus”: quasi sempre con spari, ben mirati, ai piedi del proprio partito e, generalmente, pure e soprattutto ai piedi degli sparatori stessi.

Il conflitto socioculturale tra materialismo positivistico dei socialisti (e maggioranza dei comunisti) e idealismo volontaristico dei loro avversari tra Grande Guerra e dopoguerra

Di lì a poco arrivò la Grande Guerra, che per la piccola minoranza nazionalista, di estrema destra neo-reazionaria (incarnata da Enrico Corradini e Alfredo Rocco, poi confluiti nel 1923 dall’Associazione Nazionalista nel Partito Nazionale Fascista), fu occasione per gettarsi in una politica di potenza e antidemocratica, cui affidava – tramite la politica di potenza espansionistica – la risoluzione dei problemi persino sociali dell’Italia; ma per la sinistra democratica, repubblicana e riformista di destra, che voleva la guerra – da Salvemini a Bissolati, da Carlo Rosselli a Nenni, da Cesare Battisti a Filippo Corridoni, passando per Mussolini, ancora di quell’area sino al 1919 e forse sino al 1920 – fu da un lato legata al sogno di completamento del Risorgimento tramite le cosiddette “terre irredente” di Trento, Trieste, Fiume e Pola, e dall’altro al proposito della distruzione dei grandi imperi autoritari residui – l’asburgico, il germanico guglielmino – realizzando, accanto alla libera Francia, il sogno dell’Europa dei popoli, o delle patrie, di Mazzini. Da Salvemini ai fratelli Rosselli, da Cesare Battisti a Giovanni Amendola, da Nenni allo stesso Mussolini, questo era il proposito dell’interventismo di sinistra (anche se poi il crollo dei vecchi imperi – degli Asburgo, degli Hoenzollern e dei Romanov – avrebbe generato pure Hitler da una parte e Stalin dall’altra, in tal caso smentendo totalmente i sogni di Mazzini e dell’interventismo repubblicano e di sinistra). Sia come sia in tutti i tipi indicati, o quasi (salvo forse che in Bissolati e Salvemini, che si erano formati in un’altra epoca ben anteriore), si facevano sentire i fermenti della visione neoidealistica, neospiritualistica e attivistica di cui ho detto.

I socialisti italiani, quasi soli al mondo con svizzeri e marxisti russi (ma gli svizzeri erano “svizzeri”, e i socialisti russi per schierarsi con il “loro” Stato avrebbero dovuto schierarsi con lo zar), dissentirono: gli intransigenti, e poi massimalisti, per ostilità a ogni militarismo, e comunque allo Stato “borghese”, con cui mai e poi mai avrebbero voluto “contaminarsi”; e i riformisti turatiani perché diventati pacifisti, in senso quasi gandhiano, ma anche perché i liberali democratici, coscienti dopo la guerra di Libia del 1911/1912 delle debolezze dell’Italia e persuasi di poter ottenere “parecchio” trattando col Kaiser (come diceva saggiamente Giovanni Giolitti prima dell’intervento), non volevano la guerra; e non la volevano neppure i cattolici “ufficiali”, perché erano pacifisti, cristiani, ma anche perché la chiesa temeva persino lo scisma, minacciato, della cattolicissima Austria se si fosse schierata contro l’impero asburgico. La minoranza interventista, col sostegno del re e del governo Salandra, impose la guerra, con una forzatura epocale della minoranza sulla maggioranza che secondo Prezzolini, allora interventista, era già prefascista[10].

Il conflitto socioculturale tra il materialismo positivistico dei socialisti e comunisti e l’idealismo volontaristico dei loro avversari, tra Grande Guerra e dopoguerra

Ma il PSI si assestò sul “né aderire né sabotare”, forma tipica dell’attendismo di cui si è detto (come se nella storia si potesse non essere né pro né contro una grande guerra in corso nel proprio Paese). Anni dopo, quando era già dittatore, nel 1932, Mussolini fu intervistato da un famoso storico giornalista, Emil Ludwig. Questi a un certo punto gli chiese che cosa sarebbe accaduto se lo PSI avesse accettato l’idea di essere per la guerra (come i socialisti di quasi tutti i paesi del mondo), e Mussolini disse che tutta la situazione sarebbe mutata e che lo sbocco sarebbe stato la repubblica[11].

Certo la Grande Guerra sarebbe stata da evitare, non solo per ragioni umanitarie, ma per la totale sproporzione tra immane sacrificio e risultati possibili e ottenuti (ogni cittadino delle terre “irredente” acquisito fu pagato almeno con un italiano ammazzato, e forse si sarebbe potuto “liberarlo” con trattative), e perché il crollo degli imperi asburgico e guglielmino (e zarista) spianò la via non all’Europa mazziniana dei popoli o delle patrie, ma ai tre totalitarismi (comunista, fascista e nazista), che in Russia e Germania furono i più autoritari e sanguinari della storia dal 1789 in poi (e forse della storia umana). In Italia, poi, la guerra scavò, tra interventisti e neutralisti socialisti, un abisso, una montagna di risentimenti, che fu precondizione della dittatura fascista (che in pratica era il partito della guerra il quale, in alleanza con il padronato di ogni ordine, grado e territorio dall’autunno 1920 in poi, si univa contro la protesta proletaria – prima pacifista e poi sociale – e, contro di essa, prendeva il potere, ben presto in forma dittatoriale).

Ma qui m’interessava chiarire una diversità d’approccio tra chi creda che la storia si fa da sé e chi – sia lui di sinistra, destra o centro – abbia una visione non economicista né determinista, bensì idealistica e attivistica, ma pure spiritualista, del mondo e del fare politica. (Infatti la seconda visione fu poi del repubblicano e poi socialista Nenni almeno sino al 1934, dei fratelli Nello e Carlo Rosselli e della loro “Giustizia e Libertà”, e poi, almeno per molti aspetti e protagonisti assoluti, del liberalsocialista Partito d’Azione, e anche di una frazione cospicua di ex sindacalisti rivoluzionari sorelliani, tra cui Giuseppe Di Vittorio, dapprima interventista, frazione che in oltre la metà degli effettivi non seguì la maggioranza dei capi, confluita nel fascismo; mentre i cristiani in politica non erano certo materialisti positivisti).

La storia comunque allora ci fa vedere che il primo orientamento – materialista, impersonalista e determinista – non realizza i suoi ideali ed è sempre sconfitto (in tutti i casi nelle epoche di crisi e quasi sempre anche in quelle “normali”); l’altro orientamento, di reazione al materialismo positivista, può perdere, ma anche vincere.

Materialismo economico e rivoluzione proletaria fallita in Occidente nel primo dopoguerra

È vero che Lenin, che era un vero determinista economico, in Russia vinse, ma realizzando non già la demolizione dello Stato macchina (come ardentemente voleva ancora nel suo Stato e rivoluzione del 1917-1918), bensì – grazie a Stalin e suo malgrado – lo Stato macchina più burocratico poliziesco degli ultimi cinquecento anni, prima del nazismo; e vedendo fallire la rivoluzione proletaria in Europa, ossia ogni sua suprema speranza. Lenin era un “giacobino marxista”, come definiva sé e il suo movimento dal 1905[12], ma dal suo scacco, in base al retroterra autocratico russo, nacque – grazie a Stalin – il primo totalitarismo “di sinistra” della terra: a mio parere – anche se oggi molti storici non concordano con me[13] poiché vedono in Lenin il “piccolo padre” di Stalin – a dispetto delle idee e della prassi di Lenin, e tuttavia su un humus reso possibile dallo scacco del suo disegno “redentivo”. Inoltre, come ho detto, c’era in Lenin, coesistente con il materialismo positivista e determinista, un tratto di soggettivismo, emergente già nel 1902, che fu sempre importante.

Verso il 1921 Lenin dovette prendere atto del fatto che la rivoluzione proletaria in Occidente, che tra fine 1917 e 1919 era stata considerata questione di mesi, non era arrivata. Sperava – al pari dei suoi compagni di tutto il mondo – che si trattasse di un parto ritardato[14], poiché tutta la fase gli pareva di crisi “suprema” del capitalismo, resa manifesta dalla stessa Grande Guerra, e dalla Rivoluzione d’ottobre[15]; pertanto pensava ad una rivoluzione solo temporaneamente “mancata”. Del “ritardo”, che poi risultò fallimento, abbozzava una spiegazione, anche in L’estremismo malattia infantile del comunismo (1920), conforme al materialismo storico. Quel deplorevole ritardo sarebbe stato “colpa” dell’”aristocrazia operaia”, già compresa e condannata da Marx, forte nei grandi sindacati e nei gruppi parlamentari europei: élite operaia imborghesita di cui i riformisti socialisti erano considerati la longa manus politica. L’aristocrazia operaia, sin da Marx, è una piccola minoranza operaia molto qualificata, appunto imborghesita[16], per ciò stesso integrata nell’odiato sistema borghese, e agente della borghesia in seno al proletariato: un proletariato ritenuto sempre frenato – nel suo antagonismo – e forzosamente riconciliato con i moderati, in una “logica” perennemente trasformista. Ma poteva mai essere così?

Io stesso per molti anni – più o meno dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso – anche nei miei studi su Bordiga come su Turati – ne fui convinto. Ricordo verso la fine degli anni Ottanta certi dialoghi con Massimo Negarville, nipote di un famoso dirigente del PCI degli anni Quaranta e Cinquanta (Celeste Negarville), ed ex esponente di spicco di “Lotta continua”, approdato al PCI e anche lui – sia pure più criticamente di me – allora prossimo al migliorismo di Napolitano, anche se non vi aderiva. Sentendo che io dubitavo della tesi del primo dopoguerra come rivoluzione proletaria mancata, se ne stupiva. Non l’aveva mai ipotizzato. Ma oggi io credo che la rivoluzione proletaria “qui” fosse stata una speranza e un mito, senza una base di fatto minimamente dimostrabile. Sul piano europeo come italiano.

L’idea che se la rivoluzione proletaria fosse stata una possibilità concreta questa non sarebbe arrivata (venisse poi sconfitta o meno), era legata a un determinismo economico – forma caratteristica del materialismo – risultato infondato nel primo dopoguerra come pure dopo la grande crisi economica del 1929 (grande crisi economica che fu sì un grande coefficiente di vittoria, ma per il nazismo). Se la gente avesse voluto fare la rivoluzione, l’avrebbe fatta, o almeno tentata su larga scala. Se poi non fece così neanche in seguito, seguitare a pensarlo pare essere un’assurdità. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, pure Trockij lo riconosceva.[17]

Almeno in Occidente, non si dà rivoluzione proletaria senza mutamento della coscienza proletaria: era la scoperta di Gramsci e dell’”idealistico” marxismo occidentale. La coscienza funziona se matura “prima” degli eventi, come nell’idealismo.

La presa del potere in Occidente poteva solo essere frutto di una conquista democratica o costituzionale del governo, anche nel caso in cui poi si fosse trasformata in dittatura (più o meno come fecero da destra Mussolini e Hitler). Qui, in Occidente, la “supremazia” viene dall’”egemonia” (potere basato sul consenso di grandi masse, più o meno maggioritario), egemonia consolidata dalla “forza” (ovviamente anche dello Stato), spiegherà Gramsci nei Quaderni del carcere, smentendo inascoltato tutti gli eversori di sinistra come di destra che avessero creduto o credessero o avrebbero creduto o credano nel potere dei colpi di mano di “bande armate”, poi trascinatrici.[18] Persino il timore che in un grande paese capitalistico dell’Occidente la destra eversiva, come pure la sinistra eversiva, potessero prendere il potere come fossimo in Sud America, senza avere alle spalle il consenso forte e chiaro diciamo di una decina di milioni di persone, con buona pace della scuola di Berlinguer mi è sempre parso l’opposto di quel che Gramsci ci aveva insegnato in proposito. Infatti, a dir la verità, i terroristi e pure gli estremisti violenti di ogni colore politico che fossero “in buona fede” – quando lo erano – per tale ragione a me erano parsi, e paiono, dei cretini politici: insomma – senza voler offendere nessuno – gente che non capiva l’A, B, C della storia, magari mentre inneggiava a Gramsci.

In ogni caso – tornando agli anni Venti del Novecento, ma sempre con lo sguardo rivolto in avanti – la presa del potere in Occidente richiedeva una capacità di smuovere i precordi, i sentimenti e passioni, dei popoli, ampliando così il consenso attivo e partecipe, fatto di entusiasmo e disponibilità di massa all’azione anche risoluta: capacità di smuovere i precordi in modo non epidermico, ma profondo e durevole, che i dottorini marxisti, riformisti come pure i leninisti, a Occidente non avevano. Necessitava, insomma, come condizione a monte, di una coscienza diffusa desiderosa di cambiare la vita per davvero, e pronta a lottare con abnegazione e per lungo tempo perché accadesse. Esattamente come quelli che dall’altra parte – come Carducci aveva detto del popolo del 1848, anche se nel 1914/1918 si trattava di una minoranza, erano sorti “cantando a chiedere la guerra”, ed erano andati volontariamente a farla. Un tale spirito a sinistra non c’era, tanto che la resistenza contro la reazione violenta del 1921/1925 fu minima. Il materialismo economico non si concilia con tali attitudini, come aveva colto anzitempo, su questo punto a ragione, Sorel.

In una misura non piccola ciò era però stato compreso dal cosiddetto “marxismo occidentale”, da Gorter e Korsch a Lukàcs, al giovane Gramsci: proprio perché il “marxismo occidentale” era intriso di idealismo.[19] Questo marxismo occidentale aveva compreso che a Occidente senza rivoluzione preventiva della coscienza proletaria e di parte della piccola borghesia colta, e pure senza democrazia operaia sui luoghi di lavoro (due condizioni entrambe imprescindibili in Europa occidentale), nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile. Ma tutte e due le tendenze che erano state dominanti nella sinistra (e che lo sarebbero sempre state), la socialdemocratica riformista e la rivoluzionaria o massimalista (poi comunista leninista), entrambe materialiste “oggettive”, di ciò capivano poco o nulla, tanto che il “marxismo occidentale”, spesso confuso con la sinistra comunista, finì o per rifluire in un vacuo estremismo, o per confluire, cercando – con scarso successo – di condizionarlo sotterraneamente, nel marxismo-leninismo: due forme – riformismo e leninismo, marxismo socialdemocratico e marxismo sovietico – del materialismo positivista, impersonalista e determinista, che aveva sempre fatto o un gioco di rimessa, di spinta in avanti del moderatismo dominante (purché “progressivo”), ma dentro il suo gioco (socialdemocrazia riformista), oppure non aveva mai saputo muoversi con la necessaria duttilità e facendo sognare le masse nelle grandi crisi del capitalismo (comunismo “rivoluzionario”).

Forse l’Italia, in area comunista, fu la grande incubatrice di un marxismo occidentale, idealistico e volontaristico, aperto agli influssi del bergsonismo, di Sorel e del neoidealismo, e sempre più capace di sintetizzarlo con il leninismo (ossia proprio di ciò che ci sarebbe voluto per prevenire il dilagare del fascismo o forse pure fermarlo). E questa consapevolezza post-materialistica del comunismo gramsciano (e “in parte”, ma con pesante fardello stalinista, togliattiano), non mi stupisce, perché l’Italia è un Paese che è stato a lungo innovativo, che si sottovaluta ed è spesso sottovalutato nella grande cultura in movimento in Europa e nel mondo, ma che è – dal Medioevo e Rinascimento in poi (da Dante a Machiavelli), sino all’Illuminismo lombardo di Beccaria, sino allo storicismo di Vico, e poi a De Sanctis, e più oltre sino a Croce e Gentile, e più oltre al fascismo stesso (sul versante contro-rivoluzionario) e al comunismo italiano (come in Bordiga e Gramsci, e poi Togliatti, sul versante “rivoluzionario”) – una notevole fabbrica del futuro, nel “bene” come nel “male”. Nel primo dopoguerra il riferimento va al gruppo dell’”Ordine Nuovo” di Torino, dei Gramsci, Tasca, Terracini, Togliatti e compagni di ogni ordine e grado (mentre quantunque lui pure innovativo Bordiga, primo leader del comunismo italiano, era segnato da pesanti remore di settarismo dottrinario e di materialismo determinista, che poi finirono col rendere sterile la sua pur notevole elaborazione dottrinaria di una vita, condannando lui e i suoi a un vacuo e spesso rancoroso settarismo gruppuscolare, politicamente del tutto infecondo).

Ma nel socialismo i comunisti concordi con Gramsci negli anni Venti del Novecento erano ancora una piccola minoranza (persino molto meno influente, anche a Torino, di quanto si sia poi fatto credere nella “leggenda comunista”), come poi fu piccola minoranza il PCI dal 1921-1925 al 1943 (per quanto fosse una piccola minoranza combattiva, e la sola sempre attiva pure durante il fascismo, e “quindi” protagonista della Resistenza, e “quindi” maggioritaria a sinistra dal 1948 al 1993, diversamente da tutti gli altri comunismi dell’Occidente). Negli anni Venti “quelli” prossimi – anche solo più o meno – a Gramsci erano giovani che stavano imparando l’arte della politica, in minoranza sino al 1925 nel loro stesso piccolo partito.[20] Ma comunque di lì emerse una direzione in prospettiva adeguata, in specie grazie al grande leader storico Togliatti, segnatamente nel ventennio 1944-1964; soltanto che Togliatti – per molte ragioni che non starò qui a spiegare, e in parte anche per contraddizioni morali e politiche sue proprie – che pure non starò qui a spiegare – era fortemente limitato nelle sue possibilità di movimento politico, e persino di rinnovamento culturale, dal marxismo-leninismo-stalinismo dell’area, sin nei suoi collaboratori “antichi” più stretti come Secchia o Longo, (a parte il solo Terracini), interpreti di un sentire lì molto vasto: un marxismo-leninismo-stalinismo sempre intriso del materialismo positivistico di cui si è detto, forte anche nel comunismo italiano, e fortissimo in quello sovietico, da cui il PCI fu almeno sino al 1968, e più debolmente sino al 1981, pesantemente condizionato. Ma anche chi contestava da sinistra il marxismo sovietico, come si vedrà, si muoveva nello stesso humus, pur pretendendo di “tornare alle origini” o di rivitalizzarle in modo innovativo: come se quello non fosse stato tale per ragioni profonde, tanto da implicare sempre e dappertutto le stesse conseguenze, burocratiche, autoritarie e in Occidente inefficaci. Fu la tragedia del Sessantotto-Settantotto. Ma pure l’area socialdemocratica – da Saragat a Craxi stesso, che pure fu un vero riformista – restò legata a modelli materialistico evoluzionisti in grandissima parte messi a punto dal gruppo della “Critica Sociale” di Filippo Turati soprattutto dal 1894 al 1925, e solo un po’ aggiornati, anche se data la necessità del neocapitalismo e la volontà della DC di fare il “Welfare State”, poté almeno agire come minoranza modernizzatrice del capitalismo e della democrazia italiana, ma dati quei limiti sempre “di complemento” dei moderati di centro (anche se ora con Fanfani e Moro invece che con Giovanni Giolitti). Questa discrasia tra cultura, psicologia e idee della sinistra e grandi idee di riforma in sintonia con le energie più profonde dell’Occidente, portò disfatte continue, per la gioia successiva di Berlusconi e consorti, per tacer di Salvini. Come si vedrà.

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. F. T. MARINETTI, Manifesto del Futurismo (“Le Figaro”, 20 febbraio 1909), in: “Opere”. I. Teoria e innovazione futurista, Mondadori, Milano, 1972, pp. 7-13,
  2. In: L. TROCKIJ, Letteratura e rivoluzione, a cura di V, Strada, Einaudi, 1972, è da vedere la lettera, da Trockij intitolata Una lettera del compagno Gramsci sul futurismo italiano, datata “Mosca, 8 settembre 1922”, in cui il rivoluzionario sardo, che là rappresentava il PCd’I, rispondeva a quesiti di Trockij sul futurismo in Italia e sui rapporti tra proletari e futuristi, ritenuti di simpatia (pp. 141.143).
  3. G. SOREL, Considerazioni sulla violenza (1908), con Prefazione di B. Croce, Laterza, 1909. Ne discuteva pure: B. MUSSOLINI, nell’ampio articolo-recensione Lo sciopero generale e la violenza, pubblicato su “Il Popolo”, n. 2736 del 25 giugno 1909 (ora riportato in: “Scritti politici di Benito Mussolini”, Introduzione e cura di E. Santarelli, Feltrinelli, 1979, pp. 115-120) Ma si vedano pure: F. LIVORSI, Sorel rivoluzionario? , “Nuova Antologia”, n. 2195, luglio-settembre 1995, pp. 319-336; Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni. L’idea della rinascita nel XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2019, pp. 67-81 (su Sorel).
  4. F. LIVORSI, I socialisti autobiografia nazione, “Il Ponte”, n. 5, maggio 1992, pp. 17-57. Naturalmente usavo, in senso positivo invece che negativo, la formula che Piero GOBETTI aveva usato, ne La rivoluzione liberale, Saggio sulla lotta politica in Italia (Cappelli, Bologna, 1924), contro il fascismo.
  5. Rinvio pure alla mia breve riflessione Mussolini “socialista”?, su tali anni, in: “Il socialismo italiano. Da Filippo Turati a Pietro Nenni (1892-1972)”, a cura di F. Livorsi, Paravia, Torino, 1981, pp. 131-133, da confrontare con le pagine tratte dal resoconto del congresso del PSI del 1912 in cui Mussolini fa espellere Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca e con quelle di Mussolini all’assemblea della sezione milanese del PSI che il 24 settembre 1914 lo espulse, ivi, pp. 110-117. Ma si veda pure il capitolo Note politiche e psicoanalitiche su Benito Mussolini, in: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 181-204.
  6. R. DE FELICE, Mussolini. Il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, 1965 (primo volume della biografia “Mussolini” in quattro volumi, in otto tomi, comparsa tra 1965 e 1996). Sul tema sono molto importanti tutte le pagine dell’opera sul precomunismo, di L. CORTESI, Le origini del Partito Comunista Italiano. Dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza, 1972. E, inoltre: G. DE LUNA, Benito Mussoini: soggettività e pratica di una dittatura, Feltrinelli, 1978.
  7. Su ciò è fondamentale, anche per la ricerca delle motivazioni psicologiche nella storia: M. ISNENGHI, Il mito della grande guerra. Da Marinetti a Malaparte, Laterza, Bari, 1970, da confrontare con altri lavori dello stesso: La tragedia necessaria. Da Caporetto all’otto settembre, Il Mulino, Bologna, 1999 e Gli italiani in guerra. Memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, UTET, Torino, 2008.
  8. A. G. (Antonio Gramsci), “Capo”, “L’Unità”, 6 novembre 1924.
  9. F. LIVORSI, Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia, Rizzoli, Milano, 1984.F. TURATI, Per ritornare al socialismo … (A proposito dei fatti di Milano e della loro interpretazione), “Critica Sociale”, a. XXIII, n. 11-12, 1-16 giugno 1913, pp. 161-165 e in: F. TURATI, “Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici”, Introduzione e note di F. Livorsi, Feltrinelli, 1979, pp. 269-278.
  10. Lo spiegava in un’intervista del programma televisivo a puntate, straordinariamente interessante, del 1971, poi trasformato in libro: S. ZAVOLI, Nascita di una dittatura, SEI, Torino, 1972.
  11. E. LUDWIG, Colloqui con Mussolini, Mondadori, Milano, 1932.
  12. LENIN, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (1905), in “Opere complete”, Editori Riuniti, 1960, vol. IX, pp. 9-126,
  13. La tesi della totale continuità tra Lenin e Stalin, da cui dissento radicalmente, anche se un nesso c’era, è ora in: V. SEBESTYEN, Lenin. La vita e la rivoluzione (2017), Rizzoli, Milano, 2017.
  14. Su questi temi si veda soprattutto: A. AGOSTI, Riforma e rivoluzione nella storia contemporanea, Einaudi, 1977.
  15. LENIN, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, cit.
  16. LENIN, L’estremismo malattia infantile del comunismo (1920), a cura di A, Cecchi, Editori Riuniti, 1963.
  17. Nel suo ultimo articolo prima di essere assassinato, pubblicato si New International nel novembre 1939, e in In difesa del marxismo, pp. 8-11, considerato una sorta di testamento politico, Trockij su ciò fece osservazioni molto importanti, così sintetizzate dal suo maggior biografo, Isaac DEUTSCHER: “Egli tornò a più riprese al fatto che i lavoratori non avevano rovesciato il capitalismo altro che in Russia. Esaminò a più riprese la lunga e deprimente serie di sconfitte subite dalla rivoluzione fra le due guerre mondiali. E si vide costretto a concludere che se si aggiungevano alla serie nuovi insuccessi di una certa importanza, bisognava rimettere in discussione tutta la prospettiva storica tracciata dal marxismo. (…) Egli dichiarò che la prova decisiva per la classe lavoratrice, per il socialismo e per il marxismo, era imminente: veniva con la Seconda guerra mondiale. Se la guerra non portava alla rivoluzione proletaria in Occidente, allora veramente il posto del capitalismo decadente non sarebbe stato occupato dal socialismo, ma da un nuovo sistema di sfruttamento burocratico e totalitario. E se le classi lavoratrici dell’Occidente avessero conquistato il potere, ma poi si fossero dimostrate incapaci di conservarlo e lo avessero ceduto a una burocrazia privilegiata, come avevano fatto i lavoratori russi, allora si sarebbe dovuto riconoscere che le speranze riposte dal marxismo nel proletariato erano vane. ‘ (…) Per quanto gravosa possa essere … questa prospettiva, se il proletariato mondiale si dimostrasse incapace di compiere la sua missione … non rimarrebbe altro da fare che riconoscere apertamente che il programma socialista, basato sulle contraddizioni interne della società capitalistica, si è ridotto a una semplice Utopia’.” (in: I. DEUTSCHER, terza parte della biografia: Il profeta esiliato. Trotsky 1929-1940 (1963), Longanesi, Milano,1965, pp. 588-589).

  18. Gramsci in: Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. Si vedano le note del 1930-1932 su guerra di posizione e guerra manovrata alle pagg. 865-866, e del 1932-1933 di Introduzione alla filosofia, pp. 1377-1395
  19. D. LOSURDO, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, 2017.
  20. (A. GRAMSCI), Per un rinnovamento del Partito Socialista, “L’Ordine Nuovo”, II, n. 1, 8 maggio 1920. Enunciava tesi, subito approvate da Lenin al congresso dell’Internazionale Comunista del 1920. Lì Gramsci al punto 3 diceva, l’8 maggio 1920, quando certo neanche Mussolini l’avrebbe creduto, tanto più che lo squadrismo fascista sarebbe iniziato solo sei mesi dopo: “La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro sevile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.” Può essere molto interessante, anche perché non è stato notato, che anche Mussolini era stato colpito dalla capacità di previsione di tal genere dei “comunisti di Torino”, che talora chiamava “operaisti di Torino”, anche se attribuiva la leadership a Terracini, come risulta dalle conversazioni col suo biografo preferito, tra il 1935 e il luglio 1943, in: Yvon DE BEGNAC, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Prefazione di R. De Felice, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 198. ↑ 

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