Filosofia del Socialismo

Dio nell’Uomo: l’Assoluto come Logos in cammino nell’Idealismo di Hegel

pubblicato il 22/04/2020

Per Georg Wilhelm Friedrich Hegel l’infinità “immanente”, ossia ritenuta intrinseca alla nostra mente, è un punto fermo imprescindibile. L’Assoluto, per lui, è insomma a priori in noi. Ma lo è pure la profonda correlazione tra tale infinità e la finitezza, anche se la finitezza emerge dall’infinità. Il limite sarebbe inscritto come articolazione di un pensiero senza limiti, se non quelli che esso dia a sé stesso. Anche quando la finitezza umana appaia del tutto dominante. Persino nel massimo oscuramento di una coscienza, o di un’epoca, l’infinito, il divino, è latente. La vicenda umana, per questo filosofo, è proprio una correlazione – nella mente di ciascuno come in quella intersoggettiva – tra infinità e finitezza: tra l’Io in senso “universale” e l’Io in senso “empirico”; tra il divino che è in noi e la nostra contingenza nel mondo, in cui esso è comunque infuso. Ma per la coscienza consapevole di sé, “autocosciente”, è l’universale, l’infinito, il divino a dare un significato e un fine a quel che in noi e nella storia sembra senza senso e senza scopo: ma solo nella misura in cui riusciamo a cogliere significato e fine. Sullo sfondo ci sono sempre, ma talora solo come luce in fondo al tunnel (in una vita come nella storia). Ma la luce, in termini intersoggettivi, squarcia sempre le tenebre.

In termini di opere importanti del filosofo, il percorso si snoda soprattutto dalla Fenomenologia dello spirito (1807) e dalla Scienza della logica (1812) alle Lezioni di filosofia della religione, tenute dal 1821 alla morte, per dieci anni circa. Tra i due estremi si inserisce l’opus, nelle sue diverse edizioni: Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1816/1830).[1]

L’Assoluto immanente in noi sarebbe Ragione illimitata, nell’essere “divino-umano” che siamo, sempre “en marche”: dallo sciamano dei primordi che minacciava il suo dio credendosi in rapporto diretto e personale con lui, agli dèi assai umanizzati del paganesimo greco-mediterraneo antico, sino al Dio come uomo, Gesù Cristo: via via sino a noi stessi in quanto culmine di una storia di svelamento del divino nell’umano che viene da molto lontano e va lontano, pur tra immani massacri e erramenti, che sono solo il lato oscuro della vita e del divenire intersoggettivo. Il Logos, essendo tale, si manifesta dunque, per Hegel, come Idea. Ma il culmine dell’Idea nel suo peregrinare è, per questo filosofo, proprio la presa di coscienza della divinità intrinseca dello spirito umano, scoperta dal Cristo. Perciò parlando, nelle Lezioni di filosofia della religione, del concetto di religione, nel 1827 Hegel osservava: “Questo momento supremo è poi la dimostrazione che Dio esiste, cioè che questo universale in sé e per sé, che abbraccia assolutamente tutto, attraverso cui soltanto tutto esiste, ha consistenza – che esso è la verità. Questo uno è il risultato della filosofia. Cominciamo anzitutto da questo risultato della filosofia. (…) In questo senso il risultato della filosofia è qui il cominciamento.”[2]

Il punto d’arrivo, Il dio immanente in noi come Ragione assoluta, si vedrebbe solo al culmine della filosofia; ma il pungolo alla divinizzazione dell’umano, che è poi il tratto specifico sia dell’umano che del divino, sarebbe latente in noi umani dall’inizio. La scintilla dell’infinito, di Dio, dell’Assoluto, dello Spirito, in noi è ritenuta immanente, antropologica. Siamo, per così dire, teo-antropologici per natura. Non solo – commenterei io – aveva ragione il filosofo antico il quale diceva che era uomo e che per ciò nulla di umano gli era estraneo, ma in base a Hegel sono uomo e per ciò nulla di divino mi è estraneo. Io e Dio, il finito e l’infinito, siamo due in uno per natura. Anche se dati i tempi non era il caso di insistere, valeva pure per “Lui”.

Perciò Hegel, nell’introduzione al corso di lezioni di filosofia della religione del 1827, parlando della Ragione infinita, e quindi del filosofare, immanente in noi, osservava: “La filosofia si esplica solo nella misura in cui essa esplica la religione, e esplicandosi esplica la religione. È lo spirito pensante che penetra quest’oggetto, la verità, e che in questa occupazione è godimento della verità e purificazione della coscienza soggettiva. Così religione e filosofia coincidono. La filosofia è in effetti essa stessa servizio divino, al pari della religione.” Qui filosofia sta naturalmente per filosofia hegeliana, intesa come “spirito pensante”, alias Logos: e come tale Logos che conosce sé stesso, autocelebrandosi (appunto “servizio divino”). In essa, secondo Hegel, dimensione religiosa e logica sono complementari, come già si sarebbe visto nella patristica e scolastica, e ora, evidentemente, nell’idealismo – tanto più suo – in forma diversa tornerebbe a vedersi. L’idealismo è infatti la filosofia in cui il pensiero è considerato la realtà suprema, infinita, immanente in noi. Al proposito Hegel ricorda con approvazione Anselmo d’Aosta, l’elaboratore della prova ontologica (che dall’idea in noi a priori di Dio, “essere perfettissimo”, che evidentemente non siamo noi come individui empirici, ricavava l’esistenza di Dio), ricordando il suo motto “cum ad fidem perveneris, negligentia mihi esse videtur non intelligere quod credis” (“quando sarai giunto alla fede, mi pare negligenza non capire quel che già credi”)[3]: ciò naturalmente poneva un nesso stretto tra fede e intelletto. Non confermava tanto l’idea della fede che cerca l’intelletto come forza ausiliaria subordinata, ma certo la complementarità tra l’uno e l’altra: tra ciò che vediamo in noi e chi in noi vede. Perciò Hegel rivendicava con forza il nesso stretto tra filosofia e teologia, in cui però il termine forte era per lui il primo: Dio nell’Io, la presenza a priori di Dio nella mente umana universalmente intesa, che non solo Lo ospita, ma che alla prima radica “Lo è” (è “Spirito”). L’eterno sarebbe identico alla mente umana autocosciente, consapevole della propria infinità. In tal caso il pensiero umano – in quanto autocosciente, infinito – comprenderebbe di essere anche divino in senso forte, almeno alla prima radice: in quel che è universalmente umano, vero e per ciò valido per tutti. Infatti “la filosofia mostra l’assoluto nella sua produzione, nella sua attività, e questa attività è il cammino dell’assoluto per diventare per sé stesso”, cioè assoluto per sé, per la coscienza: insomma “per diventare spirito, e Dio è così il risultato della filosofia, anche se riconosciamo che egli non è semplicemente il risultato, bensì si produce eternamente, è ciò che risulta, ed è parimenti il cominciamento del primo elemento.”[4]

La relazione stretta tra Ragione umana e Ragione divina è di vera e propria identità, affermata appena con qualche reticenza legata al contesto storico di Restaurazione e prussiano. Per chiarire tale relazione Hegel deve ricorrere a metafore, perché segnalare come l’umano possa essere considerato divino, il finito infinito, implicava un procedere per allusioni, per quanto molto chiare. Oltre a tutto parlare per grandi metafore, su temi così immensi, potrebbe essere inevitabile anche per chi non abbia alcun bisogno pratico politico di esprimersi in modo allusivo. Così, per spiegare il nesso tra finitezza e infinità non nella loro astratta separatezza, ma nella loro unità dinamica, notava: “Si sa che nel magnete il polo sud è molto differente dal polo nord, e tuttavia sono inseparabili. Non si può mostrare la terra senza il cielo, e viceversa. Il vero è la loro unità”.[5] E ancora: “Io sono il fuoco e l’acqua che si toccano, e sono il contatto di elementi ora separati, scissi, ora conciliati, uniti – l’unità di ciò che si sfugge assolutamente, e proprio questo contatto costituisce a sua volta questa relazione, che è duplice, contraddittoria in quanto relazione.”[6] Se le cose stanno così, se il rapporto tra finitezza e infinità in noi è così intrinseco, dovremmo facilmente vederlo; ma non è evidentemente così. Hegel se lo spiega con una sorta di offuscamento o cecità: quasi nel senso che noi enucleiamo nel proverbio per cui nessuno è più cieco di chi non voglia vedere. Per molti motivi il finito può chiudere gli occhi di fronte a un’infinità, che sembra negarlo e sopraffarlo, in fondo a conferma del famoso prologo giovanneo sul fatto che il Logos, Cristo, è venuto tra noi, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce. Proclama – con audacia in tal caso da filosofo “romantico e mistico”[7] – che lo scopo delle sue lezioni è “conoscere Dio”; ma nota che Lo conosce chi a Lui – cioè all’infinità divina immanente – si apra; e se no, no. La prova consiste nel volerlo vedere, ma non è evidentemente da tutti, tanto che osserva: “Chi non ha allargato il proprio petto anche oltre le sollecitudini del finito e non ha guardato nel puro etere dell’anima, e non ne ha goduto, chi non ha avuto il sentimento lieto e calmo dell’eterno, sia pure anche solo offuscato sotto forma di nostalgia, costui non possiede la materia di cui qui sto parlando.”

Un motivo su cui insiste molto è, però, l’idea che la sua visione confermi il fondamento stesso del cristianesimo: il mostrarsi di Dio nell’uomo, il Cristo, che poi chiedeva ai suoi di “essere perfetti come il Padre che stava nei cieli”. Per ciò, chi parlava dell’inconoscibilità di Dio (come Kant), o del suo essere una potenza assoluta sovrastante l’uomo perché l’uomo non la è (Schleiermacher), o anche di abissi in Dio (Schelling), per lui non era cristiano: nel senso che il cristianesimo sarebbe proprio la concezione che ci fa vedere Dio in persona, tramite l’uomo che ha manifestato Dio per sé e in sé, e per tutti coloro che a Lui si aprano. Perciò osservava: “Ne consegue che Dio può essere saputo e conosciuto: infatti Dio è rivelarsi, è essere manifesto. Quelli che dicono che Dio non sarebbe manifesto, non parlano comunque in sintonia con la religione cristiana; infatti la religione cristiana è la religione rivelata. Il suo contenuto è che Dio si è rivelato agli uomini, che essi sanno che cosa Dio è. Prima non lo sapevano; ma nella religione cristiana non c’è più alcun mistero – o meglio c’è un mistero, ma non nel senso che esso non sia saputo. Per la coscienza intellettuale, per la conoscenza sensibile è un mistero, mentre per la ragione è qualcosa di manifesto.” Essa stessa è “coscienza di Dio”.[8] La concezione non solo vede il Logos o Ragione infinita in noi come funzione, ma ne riconosce espressamente l’immortalità, e anzi l’eternità. Al proposito cita espressamente il filosofo mistico medievale Meister Eckhart, che diceva: “L’occhio con cui Dio mi vede è l’occhio con cui io lo vedo; il mio occhio e il suo occhio sono una cosa sola. (…) Se Dio non fosse, io non sarei; se io non fossi, egli non sarebbe. Non è però necessario sapere queste cose, perché sono cose che possono essere facilmente fraintese e che possono essere accolte solo nel concetto.”[9] Il tutto è connesso al fatto che l’autocoscienza, “spirito assoluto”, immanente in noi, è “eternamente in sé e per sé”. “ … essa resta assolutamente per sé, soggettività infinita”, “soggetto (che) ha per sé un valore infinito, ha questa coscienza di essere l’oggetto assoluto dell’amore infinito di Dio; a Dio importa il soggetto – il che è connesso con l’immortalità dell’anima, col fatto che l’anima è eternamente in sé e per sé.”[10]

La Ragione o Logos è la totalità del pensiero, infinitizzante per natura. Ma possiamo pure intendere la ragione come nella Critica della ragion pura (1781/1787) di Kant, ossia come quella terza funzione del pensiero che lungi dall’appagarsi dei fenomeni legati alla sensibilità (spazio-temporale) rielaborati con l’intelletto (astrattivo), vorrebbe invano sciogliere i dilemmi sulla natura ultima del reale, ma non lo può. Non può sciogliere i contrari (dialettica) sulla natura ultima di ciò che sta al di là dello spazio, del tempo e dell’Io empirico, con tutte le sue astrazioni, utili ma di limitata visuale[11]. Ma se il Logos, infinito, sovrasta i contrari, ma pure le soluzioni parziali (intellettuali, astrattive, pratiche), la soluzione è già a monte: è l’infinità che circola in tutti gli ambiti del pensiero, con la sua luce trascendentale, infinita, che si dirama nelle sue parti: dando un’impronta d’infinità “inferiore”, ma funzionale, alla sensibilità e all’intelletto: impronta che potrà anche essere respinta o offuscata, ma mai cancellata, neanche nelle forme umane più deteriori. L’opporsi e temporaneo ricomporsi dei contrari ha sempre l’infinità in sé, almeno alla prima radice della nostra umano-divinità. Ci sono tre momenti (tesi antitesi e sintesi), ma in tutti e tre c’è l’Uno, che noi stessi siamo alla prima radice.

La visione triadica della mente, in cui però l’Uno è sempre latente o più o meno manifesto, ha naturalmente a che fare pure con il ripensamento in chiave filosofica e immanentistica della nozione cristiana di Trinità. Questa è nell’interiorità umana. Al proposito non sarebbe certo peregrino trovare in Hegel echi del De Trinitate (400/416) di Agostino[12]. Nel giovane Hegel non erano mancate le resistenze nei confronti di Cristo e del cristianesimo[13], qua e là presenti ancora nella critica del dualismo cristiano tradizionale nella Fenomenologia dello spirito (1807). Lì, contro il dualismo medievale, è detto – parlando in simboli – che la ricerca del Santo Sepolcro dei crociati si risolse nella “scoperta di una tomba vuota”. Ma Hegel, inserendosi nella grande tradizione protestante luterana della scoperta di Dio nell’intimo della coscienza, giunge a immanentizzare, cioè a risolvere nella coscienza umana in quanto tale, il Dio di Lutero. “Lui” è in noi, ma pure noi siamo in “Lui”: alla prima radice siamo identici a Lui, e Lui a noi.

Ciò ha molto a che fare appunto con l’andamento detto triadico del nostro ragionare. Il Logos ha sdoppiamenti, contrasti e sintesi continui (tesi antitesi e sintesi), ma è immanente nella tesi come nell’antitesi e nella sintesi “determinata” (transeunte): come il trascendentale-trascendente umano-divino immanente nell’intersoggettività umana sempre in cammino. Hegel dava conto di ciò soprattutto nella sua Scienza della logica (1812). Per illustrare un Vero che si contraddice e supera di continuo, doveva negare addirittura, e anzi innanzitutto, il principio di non-contraddizione, per cui se A è uguale ad A, A è diverso da B, stabilito da Aristotele e sempre ritenuto incrollabile (anche da Kant, anche da Fichte). Doveva vedere nel movimento, contraddittorio, il modo stesso di svolgersi della Ragione o Logos attraverso il tempo. Così il Logos può dapprima vedersi come Essere, poi dissolvere l’Essere nel Nulla e così andare al Divenire. Esso permea di sé la sensibilità (che in noi è anche animale, ma innanzitutto spirituale), l’intelletto (in noi astraente, astrattivo, ma subordinatamente alla spiritualità o Logos, o razionalità “infinita”, pure ivi immanente), e la ragione (che tutti i momenti richiamati “comprende” in sé). La Ragione è il primo autore di tutta la nostra mente, che implica l’infinità nella finitezza e viceversa: in Dio, nel cosmo e nell’Io, sciogliendo così i grandi dilemmi della metafisica, che Kant aveva detto irrisolvibili, dalla “ragion pura”.

Il processo, molto complesso, per Hegel culmina non già nello Stato (Spirito oggettivo), come spesso si dice a scuola, ma nello Spirito che percepisce la propria infinità in presa diretta, del tutto autocosciente, detto “Spirito assoluto”, che si esprime nell’arte, nella religione e nella filosofia. Com’è spiegato nelle diverse edizioni dell’opus Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.

Il sistema, visto così, appare esposto in modo sincronico (ossia come una specie di modello in sé concluso), ma siccome l’Assoluto è sempre in movimento, tanto che non c’è mai soggetto senza predicato, è decisiva anche la sua presentazione diacronica (storica), anche se a mio parere molto più opinabile nei singoli passaggi. (Si potrebbe persino mettere in discussione il fatto che ci sia “vera storia”, tanto più dopo che l’antropologia contemporanea ci ha spiegato che ci sono tante forme della cultura umana, che non sono affatto in scala o successione necessaria dalla barbarie alla Modernità e oltre, come si era creduto più o meno sino alla metà del XX secolo, e come ad esempio avevano creduto anche Marx e Engels[14]). Comunque tramite l’illustrazione storica delle metamorfosi dell’Assoluto, verso forme di coscienza ritenute sempre più autocoscienti, Hegel intendeva farci vedere che l’Idea, che l’Assoluto esprime, non si svolge affatto in modo arbitrario, ma come Logos o intersoggettività in divenire. Perciò Hegel tenne decisive lezioni di filosofia della storia, delineando la storia ideale-reale dell’umanità; di storia della filosofia, cercando di dimostrare che la successione delle filosofie non è altro che l’illustrazione del modo in cui l’umanità (il Logos) ha pensato se stessa, con interconnessione necessaria tra le visioni di un’epoca, opposte ma complementari, verso un’autocoscienza sempre più ampia; e di filosofia della religione, mostrando l’evoluzione della visione del divino, prima in forme di confusione tra forze della natura ,in specie animale, divinizzate, e umanità, e via via umanizzando il divino, prima negli dèi greci e poi, in modo decisivo, nel Cristo “vero Dio e vero uomo”: un Cristo inteso in sostanza come colui che ha scoperto la divino-umanità dell’uomo, per sé e per tutti noi: visione culminata nell’idea dell’immanenza del divino nell’umano infinitamente raziocinante, propria dell’idealismo, e soprattutto dell’idealismo hegeliano. Può darsi che il vedere in successione le forme di coscienza del divino nell’umano fosse sbagliato (e anzi possiamo ormai dirlo tale), ma cercare di vedere nelle diverse forme della vita religiosa lo svelarsi dell’umano nel divino e del divino nell’umano, non mi pare affatto infecondo, e mi pare anzi la quintessenza di tutte le successive forme di fenomenologia religiosa[15]. Hegel, comunque, parla proprio della “coscienza di Dio in noi”, sino a dire che “io lo so con la stessa certezza con cui so che io stesso sono”.[16]

Il tutto indica il carattere decisivo della dimensione religiosa nella storia umana, ben chiaro in due idee forti di Hegel: quella del profondo legame tra etica e religiosità nella storia, che non è tanto diversa dalla successiva visione di Durkheim[17]; e quella per cui la storia cambia tramite il variare – o evolversi – delle idee religiose. Infatti nelle citate Lezioni di filosofia della religione a un certo punto, nel 1827, Hegel dice espressamente: “In sintesi: la venerazione di Dio o degli dei rinsalda e conserva gli individui, le famiglie, gli Stati; il disprezzo di Dio o degli dei dissolve i diritti e i doveri, i legami delle famiglie e degli Stati e li conduce alla rovina.”[18]

Inoltre, appunto in secondo luogo, Hegel – proprio in quanto vede il Logos o Ragione infinita immanente in noi come la base di tutto – ritiene che le idee più importanti nella storia siano quelle religiose (sul Logos), anche al fine del cambiamento della storia stessa, sino a sostenere, nelle sue lezioni sulla storia universale, che “senza cambiamento della religione non può avvenire alcun vero cambiamento politico, non può avvenire alcuna rivoluzione[19]. Per lui, infatti, solo il mutamento spirituale della coscienza intersoggettiva può essere efficace nei tempi lunghi della storia. Il modello del cambiamento per lui era stato quello del cristianesimo, alle origini; ma non meno paradigmatico era per lui il protestantesimo, che avrebbe dato un carattere interiore alla coscienza dei cittadini, e di cui si sentiva certo il continuatore, ma in tal caso sino a identificare l’infinità della nostra coscienza con Dio e viceversa. Egli voleva infatti ritrovare l’Assoluto come divino-umanità latente, “immanente”, nella coscienza umana giunta a comprendersi pienamente: “autocoscienza” chiamata a scoprire – ed a “fare nel mondo” – il divino interiore, quasi attuando una seconda Riforma: Dio non solo nella, ma come autocoscienza umana, intersoggettiva, in cui il vero e il bene sono per tutti, nell’interiorità come nella storia “en marche”.

Ma il proposito neo-religioso, volto a realizzare il divino nell’umano (come umano), nella coscienza e nella storia (come coscienza e come storia), risultò ben presto perdente nell’epoca di materialismo – cosiddetto scientifico e tecnologico, e pure riformista e rivoluzionario – che prese a dilagare da Parigi e Londra già intorno al 1830, e che negli anni Quanta divenne l’approccio dominante, liquidando – già tramite i discepoli “ribelli” della “sinistra hegeliana”[20] – le originali e profonde aspirazioni di “renovatio” religiosa ed etica – pur profondamente contaminate con l’autoritarismo modernizzatore prussiano e con il mondo della Restaurazione – da lui tenacemente sostenute.

Al termine della lunga parabola post-hegeliana, culminata da un lato nel crollo del comunismo da Berlino a Vladivostock, e dall’altro in una crisi di tutti i valori senza precedenti e sboccata in una specie di nichilismo rozzo trionfante a livello planetario (sinché durerà), è lecito chiedersi se la liquidazione di quelle aspirazioni neo-religiose ed etiche idealistiche – pur da depurare dalle incrostazioni reazionarie del tempo, e molto da approfondire, rettificare e ulteriormente sviluppare – per l’umanità in cammino sia stata un buon affare.

di Franco Livorsi

  1. G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito (1807), a cura di E. De Negri, La Nuovo Italia, Firenze, 1933 e poi 1960, due voll.; Scienza della logica (1812), tr. di A. Moni riveduta da C. Cesa, Laterza, Bari, 1968, due voll.; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827 e infine 1830), a cura di B. Croce, Laterza, 1907; Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa e S. Achella, Guida, Napoli, 2008.
  2. G. W. F. HEGEL, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 309.
  3. Ivi, pp. 119-120.
  4. Ivi, p. 94.
  5. Ivi, p. 136.
  6. Ivi, p. 172.
  7. G. della VOLPE, Le origini e la formazione dell’idealismo hegeliano. Hegel romantico e mistico. 1793-1800, Le Monnier, Firenze, 1929.

  8. G. W. F. HEGEL, Lezioni di filosofia della religione, cit., pp. 320-321 e 323.
  9. Ivi, p. 324.
  10. Ivi, p. 292 e 295.
  11. Si tratta della “dialettica trascendentale” di: I. KANT, Critica della ragion pura (1781 e infine 1787), tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo radice, rivista da V. Mathieu, Laterza, Bari, 1959.
  12. AGOSTINO, La Trinità (400/416), testo originale con tr. a fronte, Introduzione e note di G. Catapano, tr. note e apparati di B. Cillerai, Bompiani, Milano, 2012.
  13. G. W. F. HEGEL, Scritti teologici giovanili, a cura di E. Mirri, Guida, Napoli, I, 1972 e II, 1989. Si confronti con: W. DILTHEY, Storia della giovinezza di Hegel e Frammenti postumi (1921), a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Guida, 1968.
  14. Per il definitivo superamento della visione per cui le culture arcaiche sarebbero “inferiori” a quelle dei tempi successivi, e non semplicemente diverse forme di adattamento umano a ambienti differenti, è fondamentale: C. LÉVI-STRAUSS, Razza e storia e altri studi antropologici. Le regole che condizionano il pensiero e la vita dell’uomo (1952), Einaudi, Torino, 1986. Si confronti con: F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan (1884), a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma, 1971. Engels, come del resto l’amico antropologo Lewis H. Morgan, pur valorizzando moltissimo il carattere collettivista e abbastanza libertario dei nativi americani e quindi degli uomini delle più antiche aggregazioni umane, contrappone pure tali popoli, detti “senza storia”, ai civilizzati, che indicano ai primi “il progresso” che, volenti o nolenti, dovranno raggiungere per superare la barbarie primordiale.
  15. L’autore fondamentale della fenomenologia religiosa è il romeno Mircea Eliade. Un’eccellente sintesi del suo pensiero è il piccolo libro: Il sacro e il profano (1957), Bollati Boringhieri, Torino, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. L’opera più classicamente vasta e compiuta della tendenza è quella dell’olandese Gerardus van der LEEUW, Fenomenologia della religione (1956), ivi, 2002.
  16. G. W. F. HEGEL, Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa e S. Achella, cit., pp. 320-324. Sottolineatura mia.
  17. E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa (1912), a cura di M. Rosati, Mimesis, Milano, 2013.
  18. G. W. F. HEGEL, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 161.
  19. G. W. F. HEGEL, Filosofia della storia universale (1822-1823), a cura di F. Meiner, 1968, e in it. a cura di S. Dellavalle, Einaudi, 2001, p. 532. Sottolineatura mia. Si confronti con quanto ho scritto nel capitolo “La coscienza nella storia. Idee, forze sociali e individui nell’idealismo” nel mio libro: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 51-106.
  20. K. LŐWITH (a cura), La sinistra hegeliana. Antologia di testi (1962), Laterza, 1966.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*