Filosofia del Socialismo

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: VII) Rinascita ideale e politica dell’area democratica, socialista e ambientalista

Pubblicato il 29/09/2020

Il rapporto con il tempo, nella nostra vita personale come nella storia, ha un grande ruolo.

Ci sono persone, ma anche forze politiche, che sono più schiacciate sul passato, anche nel loro rapporto con il presente (che naturalmente, volenti o nolenti, è sempre imprescindibile). Sono i conservatori o moderati, che guardano al presente dal punto di vista del passato. Anche quando cambiano la loro vita, o la grande storia, lo fanno – come diceva un protagonista del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – “perché tutto resti come prima”[1]. Molti “nobili” siciliani come il principe di Salina di quel romanzo, ma pure nobili piemontesi o lombardi, nel Risorgimento hanno ragionato così; e altrettanto hanno fatto tanti democristiani di destra – desiderosi di restaurare “legge e ordine”, sia pure in contesto democratico – tra il 1947 e il 1960. Ci sono, infatti, aree sociali e politiche che si sentono sempre assediate da forze di popolo che minano o minerebbero le loro antiche o recenti posizioni di potere e i loro modi di vivere tradizionali: aree moderate come quelle rappresentate da Berlusconi e Forza Italia quando nel 1994 scesero in campo per arrestare una svolta a sinistra impersonata da ex comunisti che sembrava sul punto di realizzarsi.

Nello stesso humus, volto a conservare il passato o a ripristinarlo, si è sviluppato pure il nuovo nazionalismo dal 1994 in poi. Mentre il nazionalismo del XIX secolo, che meglio si potrebbe dire patriottismo, esaltava un mitico passato (“l’elmo di Scipio”) in funzione della liberazione nazionale dallo straniero; e mentre il nazionalismo del secolo XX traeva da una mitizzata grandezza antica motivi per imporsi su popoli pretesi inferiori, il nazionalismo del tempo di Berlusconi, quando si pretendeva o credeva federalismo rivendicava un’immaginaria patria detta Padania, fatta risalire ai “Celti” e sempre operosa e produttiva, da rendere indipendente, liberandola dal preteso parassitismo di popoli contigui, detti fannulloni e criminali, pretesi diversi o estranei o inferiori, del sud (“terroni”), al tempo della Lega di Umberto Bossi ispirata dalle idee “nordiste” di Gianfranco Miglio; e più oltre, con la Lega egemonizzata da Matteo Salvini e diventata nazionale, si oppone da un lato a un’Unione Europea che prevaricherebbe l’Italia, e dall’altro, e soprattutto, a masse di immigrati “irregolari” che cercano di entrare in Italia, ritenute nocive all’interesse dei cittadini e lavoratori italiani. Naturalmente le posizioni nazionaliste, in tal caso fortemente unitarie sempre, valgono da sempre pure per Fratelli d’Italia, con più antico e coerente indirizzo di tal genere, evolutosi in senso ormai democratico presidenzialista, ma anche fermamente conservatore.

Ma ci sono persone, ed anche forze politiche, che sono più schiacciate sul presente. Esse tengono sì d’occhio il passato e il futuro, ma sempre con orientamento incentrato sulla situazione immediata. Sono tipi pratici, che spesso guardano con qualche ironia ai difensori del passato, ma anche con malcelato sarcasmo, o al più con meraviglia, a chi punti ad un futuro, anche possibile, un tantino staccato dalle urgenze immediate (o addirittura a chi punti ad un futuro remoto). Possiamo dirli riformisti perché tendono a risolvere i problemi impellenti senza “nostalgie”, dette “sterili”, per il passato anche relativamente recente, o “fughe in avanti”, dette “vane”, “velleitarie” o “irresponsabili”, verso un futuro non direttamente dietro l’angolo. Spesso quest’atteggiamento, nel suo migliorismo immediato, connota un centro moderato che guarda a sinistra, oppure connota una sinistra moderata che guarda al centro (insomma connota il riformismo di centro). Ad esempio sono stati e sono così, nella loro varietà, molti esponenti della sinistra cattolica, da Aldo Moro a Romano Prodi, ma anche molti esponenti del socialismo “di destra” europeo, in Italia da Leonida Bissolati a Bettino Craxi, ma pure a Matteo Renzi e a Carlo Calenda (dai vertici del Partito Democratico ai loro movimenti d’opinione d’oggi: rispettivamente Italia Viva e Azione). Questo atteggiamento è molto pragmatico (è la sua grande forza), ma ha radici poco profonde, e risulta sempre limitato perché, nonostante tante buone qualità, è privo di senso della “Prospettiva”, che forse persino per fare una grande impresa economica è fondamentale. Chi naviga a vista sta sempre sotto costa.

Ci sono poi persone, ma anche forze politiche, che sono più legate al futuro, cui subordinano le istanze del presente, che non vedono l’ora di mettersi dietro le spalle. Possiamo dirle anch’esse riformiste, ma di un genere di riformismo che è meglio dire “riformatore” perché dal presente trascorre subito verso un mondo possibile migliore che non c’è ancora, o al massimo c’è in embrione. I riformatori possono anche essere detti democratici rivoluzionari. Molti “italocomunisti”, da Togliatti a Ingrao, da Enrico Berlinguer a Giorgio Napolitano, sono stati così. Ma sono stati così, nella diversità dai comunisti e nella loro grande varietà interna, molti esponenti della sinistra socialista, da Lelio Basso a Vittorio Foa, e da Riccardo Lombardi a Giorgio Ruffolo.

Ciò premesso, concentriamoci sulla tendenza riformista, con particolare riferimento a quella di sinistra, o riformatrice, o democratico rivoluzionaria di cui si è detto, cercando di parlarne in modo tale da non dimenticare né i riformisti moderati per amore dei riformatori o riformatori rivoluzionari, né i riformatori per consonanza con i riformisti moderati: senza dimenticare, insomma, che la sorte dei due riformismi nella storia concreta è sempre legata, persino quando i due riformismi abbiano avuto o abbiano reciprocamente un rapporto da “cani e gatti”. Per me, come ho detto e come avrò modo di dire ancora, è quasi una legge storica di tipo politologico, cioè una costante storica, il fatto che i due riformismi quando si separano si fanno male a vicenda e fanno il gioco dell’area avversaria.

Ora l’area riformatrice, ma anche riformista “moderata” (e viceversa) – nel mondo, e soprattutto in Italia – è in evidente drammatica crisi: sempre più grave da un trentennio. La globalizzazione economica ha reso sempre più difficile la salvaguarda di antichi diritti sociali della sua base popolare, e la coeva rivoluzione elettronica ha disarticolato grandi collettività di lavoratori che da centocinquant’anni si muovevano insieme, in modo spontaneo oltre che organizzato da socialisti e comunisti. Nel mondo della globalizzazione economica e delle fabbriche “senza massa”, in cui tutti sono in concorrenza con tutti, e il Welfare State è sempre più difficile da mantenere, e c’è una rivoluzione elettronica che ha sempre meno bisogno di lavoratori non specializzati, la sinistra trova molto difficile rinnovarsi; e quindi “perde”, più o meno in tutte le aree forti del capitalismo mondiale, Italia compresa. Tuttavia ha punte di ripresa, oltre che di caduta, per cui parlare di un processo di agonia della sinistra sarebbe eccessivo. In proposito la crisi è molto seria, ma niente affatto insuperabile. Sarebbe assai pericolosa solo nel caso in cui non si volesse, o sapesse, o riuscisse a “imparare la lezione della storia” realizzando il necessario rinnovamento dell’area stessa: rinnovamento che, partendo dal modo d’essere della sinistra del nostro tempo, tematizzerei nel modo seguente.

I) Innanzitutto la tendenza riformista, o riformatrice, o democratico rivoluzionaria nel mondo d’oggi, e tanto più in Italia, evidenzia un problema identitario irrisolto. La tendenza non ha voluto, o saputo, o potuto “mutare la pelle” rispetto a quella tradizionale consumata dalla storia: insomma, “rinnovarsi” alla radice pur partendo dai propri presupposti (com’è sempre giocoforza fare). Si capisce che parlo dell’ex comunismo, ma anche della socialdemocrazia, e persino del democraticismo riformista americano (ma anche italiano, in riferimento al Partito Democratico, che ha finito per esserne il corrispettivo italiano).

Questo problema identitario in quest’epoca sembra più risolto, o meno irrisolto, in campo conservatore, o moderato, o della destra “democratica”, ove – tramite il nuovo populismo di destra e il sovranismo nazionalista – l’identità antica è stata rinnovata effettivamente: in modo ovviamente deplorevole per i suoi avversari culturali, sociali e politici. Si è rinnovata tramite un liberalismo poco liberal (più liberista che liberale, più von Hayek che Keynes, o più Margaret Thatcher o Reagan che non Franklin Delano Roosevelt o Kennedy o Obama), e tramite una tendenza che non è fascista in senso proprio, ma è post-fascista (come nella Turchia di Erdogan, nell’Ungheria di Orban e soprattutto nella Russia di Putin). Il fascismo senza fascismo, o meglio il post-fascismo, è un nazionalismo spinto, populista e sovranista, connotato da un governo forte (tutti tratti classicamente fascisti o fascistoidi). Tuttavia questo post-fascismo non può essere detto “fascismo”, come ci dicono i maggiori studiosi del fascismo stesso[2] (anche se la cosa potrebbe essere ulteriormente discussa, perché anche Berlinguer se confrontato con Lenin e compagni potrebbe essere detto non-comunista: il che però sarebbe falso; e anche il liberalismo classico, da Constant a Tocqueville, avrebbe certo considerato illiberale la democrazia del XX-XXI secolo che tutti noi diciamo tranquillamente liberale. Gli “ismi” si evolvono tutti. Ma lasciamo pure stare le vecchie denominazioni, se aprano più problemi di quanti ne risolvano). Sembra comunque chiaro che il post-fascismo, o populismo di destra, o “democratura”, sia il superatore del fascismo sull’humus del fascismo (è post-fascismo in tal senso: è “il figlio”). Ha ottenuto e ottiene ciò con opzione per un governo, o potere esecutivo troppo forte rispetto agli altri due poteri dello Stato (il legislativo e il giudiziario), ma non dittatoriale, e anzi con ampio consenso verificato periodicamente in modo più o meno democratico (quando non faccia proprio elezioni-farsa), da parte della maggioranza dei cittadini. Si tratta di un indirizzo populista e nazionalista che tramite un governo forte – formalmente democratico, o non-antidemocratico – segnato da ampio consenso dei cittadini verificato più o meno democraticamente a intervalli regolari – vuol proteggere l’economia interna tramite: politiche “legge e ordine” sempre di contenimento più o meno forzato dei conflitti sindacali e sociali interni; ripristino di dogane che parevano desuete a protezione della produzione nazionale; e la chiusura dei confini agli stranieri poveri immigrati. Questo post-fascismo – sorto o risorto nella nostra epoca per reazione alla globalizzazione economica legata alla rivoluzione elettronica – è dilagato in innumerevoli paesi, dall’Ungheria alla Russia, dall’India al Brasile, e a quanto pare si è insediato pure nell’America del nord, con Trump, anche se per ora si può ritenere che lì la democrazia abbia radici così solide da trasformare la presidenza di tal genere in un grave “episodio” nella storia della libertà a stelle e strisce (anche se bisognerà “starci attenti”, vigilando su quel che potrà accadere in proposito in quella che resta la prima potenza del mondo). In sostanza la “democratura” è il nuovo volto del populismo di destra internazionale: in forme più morbide o più radicali a seconda dei contesti nazionali più o meno avanzati, o più o meno arretrati, in cui operi, e, ovviamente, delle contingenze politiche.

Invece la parte riformista, riformatrice o democratico rivoluzionaria, incentrata su un presente aperto – o “spalancato” – al futuro, e che insomma vorrebbe cambiare davvero i rapporti sociali e i modi insani di vivere, sembra appunto non riuscire ad andare al di là di un’operazione di maquillage, o al massimo di lifting nei confronti della propria vecchia identità.

C’è sì un’area ambientalista, che sembra internazionalmente dover integrare il socialismo (arricchendo il “verde” con tratti di “rosso”), oppure essere integrata dal socialismo (arricchendo il “rosso” con tratti di “verde”): soltanto che, per ora, quest’ambientalismo nell’insieme, e soprattutto in Italia, è allo stadio infantile, nonostante le buone prove che ha già dato in Germania e in Francia. In Italia il “verde” è addirittura un bimbo che ancora gattona.

L’insieme della sinistra (diciamo la sinistra maggioritaria nelle diverse nazioni europee), rifrigge sempre quel che era stata – per lo più, e per di più, in una forma depotenziata – procedendo cioè per sottrazione: rimuovendo ciò che è risultato fallimentare o peggio, ma senza mettere nulla al suo posto, se non quello che c’era “ancora prima”, scambiato col “nuovo”. In Italia, poi, la volontà della maggior sinistra della prima repubblica, quella comunista, di non riunire tutta la sinistra sotto le bandiere della socialdemocrazia europea neanche dopo la caduta del comunismo da Berlino a Vladivostock tra 1989 e 1991, è culminata nella nascita del Partito Democratico, dopo vari ribattezzamenti (Partito Democratico di Sinistra, Democratici di Sinistra). Ciò ha fatto regredire addirittura il movimento riformatore di sinistra dal socialismo alla “democrazia”, da Filippo Turati a Felice Cavallotti e da Enrico Berlinguer a Ugo la Malfa, sino a fondere post-comunisti e post-democristiani. Va però riconosciuto che la necessaria e persino indispensabile unione socialista di tutta la sinistra, che dopo il 1989 era possibile e arcimatura – oltre che da un antico animus ostile ai socialisti da parte dei comunisti, apertamente o sotterraneamente ininterrotto da Bordiga a Berlinguer – fu assai favorito dalla palese degenerazione, semplicemente messa in piena luce dalle inchieste di Tangentopoli, subita dal socialismo italiano dopo trent’anni di collaborazione con la Democrazia Cristiana (1963/1993), a conferma del vecchio adagio per cui chi va con lo zoppo impara a zoppicare (o almeno chi ci va “troppo a lungo”, e come forza più debole in partenza). E ciò nonostante le importantissime riforme civili e sociali realizzate in quel trentennio.

Così la sinistra italiana invece di diventare neosocialista è diventata Partito Democratico, come la sinistra americana. Inoltre il sistema italiano, come si vede nell’elezione diretta dei sindaci e presidenti di Regione, tende, persino suo malgrado, al semipresidenzialismo. Mettendo insieme la nascita e consolidamento di un “Partito Democratico” invece che di un Partito Democratico Socialista, e la fortissima tendenza presidenzialista per ora a livello di elezione dei sindaci e dei “governatori” delle Regioni, si può vedere che il sistema politico italiano si è via via americanizzato. Questo è emerso pure nelle elezioni regionali parziali del settembre 2020, del tutto incentrate non già sui partiti, ma sulla figura dei “governatori” elettivi: processo cui plaudo, ma che senza un semipresidenzialismo a livello nazionale può rendere le Regioni sempre più “Stato”, favorendo un antistorico e nocivo Anti-Risorgimento. Nessuno paventa ciò, ma per incoscienza storica.

Sembra però che lo strano ircocervo del PD, nato sposando ex comunisti ed ex democristiani, sia destinato a durare, in un Paese che senza neanche accorgersene è, appunto, sempre più simile all’America (ora anche col rischio che sia quella di Trump: anche se qui, per fortuna, non abbiamo una questione razziale di quella portata).

Per quanto concerne, poi, le tendenze che si sono pretese di nuova sinistra, cioè deliberatamente collocate alla sinistra della maggioranza della sinistra (o centrosinistra), da “Rifondazione comunista” a “Liberi e Uguali” passando per “Sinistra Ecologia Libertà”, esse purtroppo non hanno mai saputo porsi come il polo aggregante di una nuova casa di tutti i riformatori e riformisti, volta ad unire – anche su posizioni prevalenti radicalmente di sinistra – i riformismi da sinistra al centro: risultando per ciò più “avanguardistiche” che avanguardia di popolo. Insomma, queste tendenze sono risultate, senza volerlo, élites paghe del loro sentirsi “diverse”: per fortuna su un terreno non più violento neanche in modo marginale (a parte i “marginali” per scelta di vita, al di là persino di Rifondazione Comunista).

Ho fatto l’esempio dell’Italia, ma ho l’impressione che ciò sia valso per tutta la sinistra anche di altri paesi (Verdi tedeschi e francesi esclusi): consentendo così – pur partendo dalle migliori intenzioni riformiste del mondo – una vittoria più facile ai conservatori, ai moderati o addirittura ai reazionari.

Non a caso, tra l’altro, i Verdi che contano, in Germania e Francia, hanno fatto saltare la differenza tra l’essere riformatori e riformisti, o se si preferisce tra sinistra e centro, essendo “tutte e due” le cose: nel che è poi il segreto del successo dei Verdi in Germania e Francia. Questo, secondo me, è l’approccio della sinistra del futuro: dovrà riuscire ad essere molto più moderata e al tempo stesso molto più radicale, in una casa comune. O estinguersi via via, con conseguenze in prospettiva terribili.

Per contro, nell’insieme, la sinistra non è stata capace di vivere se non ritirandosi “indietro”, sino a diventare, col PD, addirittura il partito dello Stato costituzionale: non proprio come il liberalismo prima del fascismo (i cui esponenti si dicevano “costituzionali”, quasi come fossero i rappresentanti dello Stato) o come la Democrazia Cristiana nella prima Repubblica, in modo non troppo diverso. Chi se lo sarebbe immaginato pensando a figliolini e nipotini di Gramsci e Togliatti?

È stato come se globalizzazione economica, crisi degli Stati nazionali, dispersione dei proletari in mille rivoli dopo la fine delle grandi fabbriche “fordiste”, perdita di credibilità delle grandi correnti ideali del passato fossero cosette di limitata portata. In Italia, ad esempio, la divisione è sempre tra una maggioranza di post-comunisti bisognosi dei post-democristiani (“figlioli” o nipoti di quel “papà” PCI e di quella “mamma” DC), e piccole minoranze di sinistra che essendo qualunque cosa ma non neo-socialiste sono condannate a essere o effimere fiammate o movimenti d’opinione che non contano niente..

I figliolini del PCI e della DC di sinistra, nonostante la presunzione di superiorità dell’ex comunismo, trovano quasi sempre i capi più efficaci tra ex democristiani, pur tra loro diversi: da Romano Prodi a Matteo Renzi. Il Matteo Renzi, dopo essere stato purtroppo – purtroppo e ancora purtroppo – sconfitto nel referendum del dicembre 2016 (in cui voleva un senato che non votasse più la fiducia ai governi e una legge elettorale che avrebbe garantito governi di legislatura dando il 55% dei seggi della Camera alla prima lista più votata al secondo turno), si è poi lasciato risucchiare dalla matrice “centrista” non socialista da cui veniva: lui che appena diventato segretario del PD, nel 2013 – dopo sette anni di dimenticanza collettiva, non certo casuale, di Bersani e compagnia bella – l’aveva subito fatto aderire al Partito Socialista Europeo. Si è infatti fatto un suo partitino di centro, dimostrando, con ciò, che l’anima ex democristiana – nonostante dosi massicce di socialismo lib-lab “blairiano”, e per ciò craxiano, nonché di democraticismo “obamiano” – era rimasta “sotto sotto” vivissima in lui, tanto da indurlo a passare dal premierato e maggioritario spinto del 2013/2016 al puro proporzionalismo e poi alla posizione di prima, probabilmente per indurre gli altri partiti governanti ad abbassare la soglia minima, per entrare in parlamento col proporzionale puro, dal previsto 5% al 3% che ha. Ha insomma fatto, come post-democristiano, la stessa cosa fatta poco prima dai post-comunisti: il solito partitino del 3%, destinato a sciogliersi come neve al sole alle elezioni. (A ciascuno la consorteria sua).

Certo la forza di quest’area di centrosinistra – compresa tra PD, Liberi e Uguali, Italia Viva e Azione – è quella di possedere una buona cultura pragmatica di governo, di tipo vagamente progressista, che ne fa ormai, e di gran lunga, la migliore élite politica di governo del Paese (il che procedendo per comparazione con tutti gli altri è persino evidente, a uno sguardo che sia minimamente equanime). Ma senza “virtus” politica, di partito e rapporto tra i partiti, senza un vero disegno politico strategico, senza una prassi un po’ più di lungo periodo, e senza miti rinnovati sul nuovo mondo da fare, e senza nuovi leader in qualche modo epocali, quest’area riformista-riformatrice, anche vista come fenomeno internazionale, non può né rinnovare il mondo né – da noi – salvare l’Italia, ad esempio spendendo bene 240 miliardi di euro in arrivo dall’Unione Europea rilanciando l’Italia “tutta”, e nemmeno “durare”. Quando, come in Italia, sotto la pressione di alleati “a 5 Stelle” che oggi si sciolgono come neve al sole, ma che nelle elezioni del 2018 sono stati primo partito, non buttano dalla finestra ingenti masse di quattrini, la sinistra tutta sembra capace solo di fare del riformismo di centro: sa solo fare, insomma, un’opera di intelligente galleggiamento dentro un mondo in subbuglio (nel mondo e soprattutto “da noi”), senza carica riformatrice, né ideale né pratico sociale: rischiando per ciò di finir male, o di finir male troppo spesso.

Ciò posto, che cosa manca, in generale all’area riformista e riformatrice per tornare ad essere tale, e non semplicemente il “meno peggio”, specie in Italia, in termini di cultura di governo?

II) A sinistra manca un nuovo, o un rinnovato, “pensiero forte”, o quantomeno un pensiero che sia il meno “debole”, o “liquido”, che sia possibile. Insomma, ci vuole un contesto ideale identitario forte quale fu, tramite il marxismo, o almeno tramite i grandi sindacati operai al tempo dell’operaio-massa (che però non c’è più), l’idea socialista: un pensiero politico forte comune e aggregante, che alimenti pure coevi miti di liberazione di grandi masse. Questo nuovo pensiero “forte” aggregante, per quanto laicamente e problematicamente inteso, è comunque il necessario punto di ripartenza: la pietra angolare dei partiti e movimenti “veri”, che non siano semplici tram di cui si servono capi e capetti nazionali regionali o locali nel viaggio, generalmente breve, verso il potere. Infatti un vero partito è un’Idea che ha trovato l’Organizzazione, come compreso benissimo da Lenin e dal miglior Gramsci[3].

Quest’idea socialista ricreata, o quest’idea ambientalista capace di ereditare il socialismo, va naturalmente posta al passo con i tempi: ma non può essere mai ridotta a un brodino per malati, buono per tutti quanti, com’è in Italia lo stesso Partito Democratico. E ciò benché oggi in tale area ci sia solo il PD, e nient’altro. Ma non è detto che la situazione non possa cambiare, trasformando il PD in una grande socialdemocrazia unitaria aperta sia al riformismo di centro di Renzi o Calenda e sia alla tendenza riformatrice di sinistra di Bersani e Speranza. Vie alternative alla formazione di una grande socialdemocrazia aperta tanto verso “sinistra” quanto verso il “centro” (e vinca il migliore di volta in volta), per ora non solo non se ne vedono, ma neppure si intravedono. Ma questo sembra dover implicare una forte ed esplicita opzione neosocialista, rosso verde ed unificatrice di tutte le tendenze riformiste e riformatrici. Fare tali cose “di nascosto”, in modo implicito, non può bastare. Un giorno si potrà formare un grande Partito Democratico Socialista, sarà o sarebbe l’inizio della rinascita.

Infatti l’idea che l’assenza di un grande pensiero politico riformatore, rosso-verde e molto unitario, che faccia da base ideal-politica comune, sia surrogata dai “Valori”, o da un qualche riferimento generico alla Costituzione, su cui, almeno a parole, ormai giurano tutti (da Fratoianni alla Meloni), è una pia illusione (veltroniana e non). La Costituzione è ormai di tutti, salvo un 2 o 3% di eversori o di destra o di sinistra (per lo più ormai “in sonno”, grazie a Dio, avendo subito una disfatta storica che a quanto pare è definitiva). Pensare di rinnovare il Socialismo tornando alla Democrazia sarebbe come voler rinnovare il cristianesimo tramite i dieci comandamenti. Bisogna, invece, riscoprire idee, miti, simboli e credenze condivisi (in connessione “ipercritica”, ma positiva, con il passato, e in parte con nuovi apporti, in specie “verdi”).

Sul versante riformatore, “di sinistra”, oggi si tratterebbe di porre al centro, senza se e senza ma – in forme di pensiero e miti rinnovati -: la solidarietà e libertà di tutti; il “riscatto del lavoro”, che “dei suoi figli opra sarà”; le rosse bandiere (o rosso-verdi), il sole della liberazione umana, sia esso aurorale o “ridente”; e i cortei, e le lotte in mezzo alla povera gente, e l’apertura psicologica e umana costante nei suoi confronti; e tutti “i buoni”, e anche “cattivi”, grandi libri che hanno insegnato tutto questo: libri non intesi, però, come imparaticci o formulette ripetuti da “teste frasche”, per le quali non abbiamo rimpianti, bensì letti, meditati e discussi (o niente); il sentirsi compagni, sodali e solidali; l’essere sempre dalla parte della “povera gente”; l’idea socialista di un’economia di mercato, per me anche ben poco statalista, o la meno statalista possibile, ma basata su imprese cooperative tra uguali, senza padroni o almeno su imprese cogestite e con partecipazione dei lavoratori agli utili; il mirare a far sì che ciascun essere umano che viva tra noi non faccia la fame, abbia un tetto sulla testa e sia curato, ricevendo se perda il lavoro o ce l’abbia un salario minimo, ma solo andando a lavorare presso qualcuno, tipo Comune o Regione o Stato per ottenerlo; il disinquinare acqua e aria a tutti i costi e al più presto, con auto elettriche e rimboschendo territori e ampliando le zone protette e difendendo il verde dai barbari; la cura per i dannati della terra, che debbono essere aiutati, quando siano nati e cresciuti qui, e abbiano fatto un ciclo di studi qui, o dopo un certo numero di anni da “regolari” e “onesti”, a essere nuovi cittadini, tra l’altro in Paesi sempre più abitati da anziani. Tutto ciò è “qualcosa che vale”, al di là del semplicismo e dell’arroganza di innumerevoli cretini politici del passato e del presente. Questi sono punti chiave decisivi: da ritrovare, da riformulare, da reinventare e soprattutto da vivere. E se non si può, tutto diventa più o meno putrido.

Ormai, in proposito, si può farlo distinguendo ben bene il grano dal loglio, con giusto atteggiamento critico-autocritico verso il passato: un passato certo da recuperare, ma senza costruire santini (tipo san Gramsci o san Togliatti o san Enrico Berlinguer o anche san Riccardo Lombardi), ma sempre andando – ciascuno secondo le proprie possibilità – a fondo. Il punto chiave è quello che Friedrich Engels coglieva quando diceva che la lotta di classe si svolge necessariamente su tre terreni: l’economico, il politico e il culturale[4]. Qui sto parlando del fatto che una grande battaglia culturale oggi come oggi, in area progressista, o di sinistra, non è un di più, un accessorio, ma è addirittura il fondamento, la base di tutto.

Questa lotta per la “cultura del cambiamento”, democratico riformatrice o democratico riformista, deve però da un lato non accettare la logica del “scurdammoce ‘o passato” nostro, con le aberrazioni che c’erano state, per vedere solo “il buono”: deve essere, invece, quasi spietata nel ricordare quel passato, nell’autocritica del passato (ce l’ha appreso Marx[5]): insieme- però – al mantenere memoria viva per il molto di costruttivo e di buono che era pur stato fatto e pensato, ma non a scopo ridicolmente celebrativo, legato agli anniversari sino al giorno del giudizio universale, bensì guardando ormai in avanti. Questo a mio parere, soprattutto in Italia, comporta talune opzioni antiche e nuove.

III) Ci vuole, nel campo identitario ideale di cui si è detto, una speciale cura per l’idea ambientalista, che è la nuova questione chiave su cui si giocano le sorti dell’umanità e addirittura di innumerevoli specie viventi nel XXI secolo: è l’equivalente di quel che era stata la questione repubblicana o dello “Stato libero” più o meno dal 1689 inglese e soprattutto dal 1789 “francese” al 1848 o al 1870; e la questione sociale dal 1848 o dal 1871 in poi. Tutta la questione della libertà nello Stato (prima forma), della questione sociale, o della liberazione del lavoro (seconda forma) si ripropone necessariamente sul terreno dell’ambientalismo (terza forma). L’idea socialista del futuro prossimo-remoto potrà essere solo verde-rossa, o rosso-verde, sia che sia il nuovo socialismo ad assumere in sé l’ambientalismo, o il nuovo “ismo” dell’ambientalismo ad assumere in sé il socialismo. (Lo deciderà la storia). Come possiamo evitare la superproduzione di anidride carbonica che genera l’effetto serra, surriscalda la terra e stravolge persino le stagioni? Come possiamo ripulire acque e aria dagli agenti inquinanti? Come possiamo far crescere un’economia ecologica? Come possiamo fermare il “folle volo” di uno sviluppo capitalistico senza limiti? E fermare questo folle volo, questo “sviluppo illimitato”, è mai possibile senza una grande rivoluzione culturale e spirituale che ci faccia riscoprire la sacralità della natura e della vita, cambiando la mentalità delle persone, dai pochi ai molti e ai più, nel profondo?

IV) È perciò necessaria, in termini sempre di identità, un’apertura molto forte alla cultura sociale e democratica di tipo religioso. In tutti questi articoli ho enfatizzato molto la necessità di riscoprire le ragioni di un nuovo idealismo, storico e religioso, anche in senso forte, tale da ritrovare l’Uno-Tutto e l’Uno-Tutti, infinito ed eterno, nella nostra mente e nella Natura. Ma comprendo che questo è un discorso arduo e difficile, che posso ritenere centrale “per me”, ma che non posso certo presumere che “debba” esserlo per tutti (anche se per molte ragioni, pure etiche e politiche, oltre che filosofiche, me lo auguro di cuore; ma non può certo essere un discrimine politico). Diciamo che mi auguro una sinistra che discuta la filosofia religiosa, immanentistica o meno, idealistica o neospiritualistica o esistenzialista cristiana o altro, e che si lasci lavorare nel profondo da tutta la gran luce che ci viene dall’Oriente indiano o tibetano, e dalla coeva cultura del “fare anima”, dallo yoga alla psicologia analitica, almeno con la stessa intensità con cui fu fatto, nell’ambito del socialismo e comunismo, col materialismo filosofico e scientifico: mai inteso, almeno a Occidente, come discrimine per accettare o meno i militanti nei partiti della sinistra. Mi piacerebbe che molti giovani e molti intellettuali riformatori maturassero anche tali propensioni, naturalmente senza obbligo per nessuno, ma come un fermento di spiritualizzazione della vita da parte di piccoli o meno piccoli gruppi “animosi”, rinascenti a livello di interiorità di gruppo. Su ciò Hillman, da posizioni riformatrici, ci ha insegnato molto[6].

Comunque – anche a prescindere da ogni apertura all’infinito ed eterno, immanente o meno – ritengo assolutamente da riscoprire tutta la ricca elaborazione del solidarismo cristiano, di cui già Lelio Basso aveva compreso la congruità con l’idea socialista[7], in termini almeno etico-politici. (Ma il liberalsocialista Aldo Capitini, neo-religioso e gandhiano, l’aveva compreso anche meglio[8]). Sarebbe del più alto interesse riscoprire tutta la grande cultura del personalismo comunitario ed ecologista, da Emmanuel Mounier alla teologia della liberazione e di G. Gutiérrez e Leonard Boff, sino al papa Francesco dell’enciclica ecologista “Laudato si’” e, a quanto pare, a un’enciclica sulla fratellanza, di prossima uscita, che sarà certo da leggere e da discutere[9]. Lì ci sono le basi di un neo-socialismo cristiano, solidarista ed ecologista, che si potrebbe benissimo legare a quanto si è detto sulla necessità di una cultura socialista ecologista “forte”.

V) Il solidarismo è naturalmente legato, oltre che alla liberté, soprattutto alla fraternité. Quest’ultima è sempre stata un valore forte per il cristianesimo, e infatti ha improntato il personalismo, in specie quello comunitario, direi da Mounier a papa Francesco. Ma, soprattutto, anche a prescindere dal cristianesimo, la solidarietà è incompatibile con ogni visione polemologica della storia, della società e della politica. Questo è il vero punto differenziale dal marxismo, che con l’idea e pratica dell’antagonismo irriducibile tra le classi (sin dalla visione della storia come lotta tra le classi del 1848)[10], trasferisce la guerra tra stati nella guerra sociale, ora latente, o a lungo latente, ed ora manifesta. Oggi, come affermato bene pure da Edgar Morin e Anne Brigitte Kern, sono invece da sostenere tutte le posizioni “unitive”[11], ovviamente purché liberamente tali e mai in qualunque caso e a qualsiasi condizione, anche se in altri contesti non era stato e non è stato così. L’opzione per il solidarismo piuttosto che per l’antagonismo non significa affatto che possiamo considerare Marx come un “cane morto”, e neppure le vastissime elaborazioni dei politici o teorici o filosofi di quella scuola marxista, in tutte le sue vaste articolazioni sino ai giorni nostri: elaborazioni che però sono il passato della “rivoluzione” che non torna e non può tornare, più o meno com’erano stati i vari Rousseau o Robespierre per Marx, giù giù sino ai giorni nostri. Se oggi noi guardiamo con tale ottica il marxismo, possiamo constatare che in esso (e negli indirizzi similari) era appunto erronea la visione polemologica, legata all’idea della distruzione di quel che non va per accedere direttamente al nuovo: visione che sul piano storico enfatizzava il ruolo delle guerre e rivoluzioni, e sul piano teorico il negativismo (l’idea che la chiave di volta sia non la forza sintetizzatrice, “unificatrice degli opposti”, sempre operante persino al di sotto dei conflitti, ma l’antitesi). Questo assoluto privilegiamento dell’antitesi come chiave di volta di ogni divenire veniva a Marx dalla dialettica com’era vista dall’estrema sinistra hegeliana e poi, dopo Marx, passò a generazioni di socialisti e comunisti del XX secolo[12].

Invece il costruttivismo, e non il negativismo; la fraternité e non l’antagonismo; la sempre possibile competizione tra classi, ma come competizione in famiglia, in vista del compromesso sociale – e non la lotta fratricida classe contro classe, o la guerra tra stati o la guerra civile, o la distruzione dell’altro, o la “rivoluzione” violenta – è il punto chiave. Per questo tutte le forme di cooperativismo tra uguali, tutte le forme di partecipazione dei lavoratori agli utili e al governo delle imprese, sono valide; mentre l’antagonismo paga – come del resto nella storia in generale – solo in circoscritte situazioni estreme (come eccezione e non come regola), quando le soluzioni “unitive”, ben inteso contrattate e ricontrattate di continuo anche tramite la fraterna competizione (economica e politica), siano bruciate. Perciò l’indipendenza e il cooperativismo dal basso sono in generale migliori delle altre soluzioni. Le soluzioni polemologiche, nella società come tra Stati, possono sì darsi, ma solo come extrema ratio. Persino sul piano valoriale, dopo la liberté dovremmo porre la fraternité, circoscrivendo l’égalité alle “regole del gioco”, ossia alla costituzione e al rispetto delle leggi, che ha da essere stringente per tutti.

Ma naturalmente il lavoro ideale e culturale, per quanto a mio parere primario e decisivo anche “per la politica”, è un’impresa polifonica e di lungo periodo, opera di molti e che rinvia ai tempi lunghi della storia. Ci sono pure problemi di linea impellenti.

VI) Il problema di linea “politica” più impellente, per me è sempre la lotta per far prevalere a sinistra una logica inclusiva, che per strane ragioni, che dovremmo investigare a parte, in tale area è sempre stata difficilissima da scegliere e mantenere, mentre non sembra esserlo stato ed esserlo, in specie in questa fase storica, dall’altra parte della barricata. Voglio dire che mentre “al dunque” il centrodestra ha saputo ritrovarsi, al potere, o in vista del potere, sino all’assurdo, sicché pur divisi i partiti che lo compongono si alleano sempre alle elezioni e al governo, a sinistra prevale sempre una “logica” di divisione (da “Vengo anch’io, no tu no”[13]). Tanto che Sandro Pertini, convintissimo fautore dell’unità socialista e della sinistra, prima di diventare presidente della Repubblica per questa sua idea-vocazione appariva alla gran parte del suo partito e della sinistra (sempre divisivi), uno di corta visuale (mentre era vero l’opposto). Non senza stupore per la gran popolarità sua al tempo della sua presidenza della Repubblica, il nostro caro leader operaista e psiuppardo Vittorio Foa, con inarrivabile umorismo ebraico, definiva Pertini “il socialista che è diventato intelligente facendo il Presidente della Repubblica”. Invece la “logica” divisiva – come i semplici lavoratori, al pari di Pertini, hanno sempre intuito, ma inascoltati – ha fatto pagare un prezzo enorme alla sinistra, specie dal 1947 (scissione di Saragat) in poi. Sono pochissimi a sinistra ad aver capito “davvero” quello che già per gli antichi romani era l’A, B, C della politica: che si governa tramite il “Divide et impera” e che più dividi il campo avversario più “imperi”; e, correlativamente, più unisci il tuo campo più puoi “imperare”, e più lo dividi e meno puoi “imperare”. A parole lo si capisce facilmente, ma poi si ricade sempre nel vizietto divisivo antico. Così capitava nel rapporto tra Rifondazione Comunista o i Verdi e due governi di Romano Prodi, ma così è capitato pure in rapporto a Matteo Renzi quando divenne Segretario del PD e Presidente del Consiglio per mille giorni. Divenne il nemico principale (certo anche per errori suoi, ma se il centrodestra avesse fatto così con Berlusconi avrebbe fatto subito trionfare la sinistra). Pur di non accettare il primato di Renzi, Bersani, D’Alema e compagni prima diedero un grande contributo per far fallire le riforme istituzionali proposte da Renzi stesso e dal PD (suo e loro), e poi promossero una scissione del PD, che naturalmente doveva finire in nulla, come io provai a spiegare in dettaglio in un dibattito alla CGIL di Alessandria col mio amico Federico Fornaro. E prima ancora quell’area pretesa “sinistra del PD” emarginò i suoi migliori leader, come Gianni Cuperlo, che era il suo maggiore, più colto e anche credibile esponente, e come l’ottimo e popolare ex sindaco di Milano, già di matrice di Rifondazione Comunista, l’avvocato Giuliano Pisapia: l’uno e l’altro rei – per Bersani e compagni – di aver sostenuto Renzi nel referendum sulle riforme istituzionali. Li sostituirono con l’ex giudice Pietro Grasso, che sino a settant’anni non aveva mai fatto politica, credendo, come nel 1898 ai tempi di Plechanov e poco oltre di Lenin, che il leader nella storia “poco fa” e che fatto un papa se ne fa un altro[14].

In sostanza io resto assolutamente convinto del fatto che o in uno stesso partito neosocialista e disciplinatamente pluralista (sarebbe “il meglio”), o in una confederazione di partiti (cosa quasi altrettanto buona), o almeno in un nuovo Ulivo più maturo (con un programma comune “vincolante” per tutti i gruppi che vi aderiscano), tutte queste posizioni debbano riconoscersi come parti fondamentali di una stessa orchestra politica; e che chiunque non l’abbia riconosciuto nel proprio operare e pensare politicamente lo abbia fatto e faccia a danno della sinistra e anche a danno proprio, nell’Italia repubblicana dal 1947 ai giorni nostri.

Sono particolarmente fiero di aver ottenuto l’impegno per una sinistra inclusiva già negli atti fondativi della nostra Città Futura di diciotto anni fa, ancora in vigore, e ritengo che chi si sia scostato o scosti da tale linea operi con lo stesso esito “lesionistico” e autolesionistico della sinistra di cui ho detto or ora. Vale verso chi pretenda di farlo “da sinistra”, ma anche, eventualmente, in senso inverso, Anche se quest’ispirazione, per quel che mi riguarda, in me – almeno dalla metà, e tanto più dalla fine, degli anni Settanta del secolo scorso – è sempre stata fermissima.

VII) Sarebbe necessario che la sinistra riprendesse in grande stile la battaglia per riforme istituzionali garanti di governi di legislatura. Sono convinto che la politica riformatrice del XXI secolo si giochi su tre terreni: riformismo, o politica riformatrice, di tipo ecologico (di cui si è detto); continentalizzazione della Forma-Stato, anche a piccoli passi, ma andando sempre avanti, in specie sull’Unione Europea come “Stato di Stati” da fare (di cui pure si è detto); riforma della governabilità dello Stato, tale da garantire una corretta divisione e bilanciamento dei poteri, ma anche governi normati per costituzione in modo tale da durare tra una legislatura e l’altra. In tempi di globalizzazione economica e rivoluzione informatica – in cui il Welfare State “in un solo paese”, tanto più se non sia grande come un continente (più o meno) – i governicchi sempre sul punto di cadere sono un lusso “assurdo”, per usare un aggettivo garbato. Ma voglio dirlo anche in modo “sgarbato”: sono idiozia politica. Ci sono naturalmente più vie per garantire ciò, dal semipresidenzialismo a un forte premierato, ovviamente sempre basati su sistemi elettorali di tipo maggioritario (a due turni). Ma i diversi meccanismi in proposito sono sempre stati respinti, sino a quello previsto nel referendum del 2016. Tuttavia l’obiettivo è imprescindibile e qualunque sinistra prevalga dovrà necessariamente riprenderlo, non piegandosi al verdetto delle urne, ma tornando a riproporlo, in forma migliorata, sino a persuadere gli elettori. Ad esempio dopo la bocciatura del referendum del dicembre 2016, il PD avrebbe dovuto assumere il 40% conquistato come punto di ripartenza per arrivare al 51% e oltre, superando con una sua proposta le aporie, le manchevolezze, del progetto temporaneamente respinto dal popolo sovrano e su alcuni punti poi anche dalla Corte Costituzionale: prevedendo non già, come si era fatto, un ridimensionamento del Senato, che non avrebbe più dato il voto ai governi, ma la sua pura e semplice abolizione, e precisando la soglia minima per poter competere al secondo turno per ottenere il 55% dei seggi, o un livello ben preciso di premio per poter arrivare al 55% (ad esempio un premio del 15% al primo partito al secondo turno). Si è scelta altra strada.

Ora, col referendum di questo settembre 2020, si è diminuito il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200, senza ridefinire né i collegi né la legge elettorale né un nuovo ruolo del Senato. Ma se si tornerà alla proporzionale della prima Repubblica, anche con la foglia di fico dello sbarramento al 5%, invece di ripristinare almeno un maggioritario al 75% come fu dal 1994 al 2006 la legge Mattarella (da migliorare tramite un maggioritario a due turni, e di collegio), il “tacòn” – come dicono in Veneto – sarà stato “peso del buso”. Tornare alla repubblica dei partiti (figlia della proporzionale pura dappertutto) senza partiti, sarebbe la vera autostrada per la “democratura”. Dopo di che, “chi è colpa del suo mal”, piangerà “sé stesso”.

In ogni caso il riformismo in materia istituzionale è un terreno fondamentale per una tendenza riformatrice al passo con i problemi del XXI secolo.

di Franco Livorsi

  1. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1958.
  2. Ce lo dice, ad esempio, il notevole studioso del fascismo Emilio GENTILE in: Chi è fascista, Roma-Bari, Laterza, 2019.
  3. A. GRAMSCi, Quaderni del carcere (1929/1935, ma postumo 1948/1952), Edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi: si veda su ciò il Quaderno 10 del 1932-1935, pp. 1249-1250.
  4. L’idea, ripresa direttamente da F. Engels, è uno dei punti chiave di: LENIN, Che fare? (1902), a cura di V. Strada, Einaudi, Torino, 1971.
  5. Questo è uno dei punti chiave di K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1972.

  6. Si veda la preziosa auto-antologia: J. HILLMAN, Fuochi blu (1989), Adelphi, Milano, 1996; J. HILLMAN – M. VENTURA, 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio (1992), Garzanti, 1993; J. HILLMAN, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino (1996), Adelphi, 1996. Ma si veda pure: F. LIVORSI, Archetipi e storia in Hillman, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, a. XVII, n. 1, dicembre 2004, pp. 5-48. Il punto chiave che interessa qui è l’idea di Hillman che il “fare anima”, nel senso dell’esperienza trasformativa e autorealizzativa dell’identità inconscia, si realizza anche, e anzi in primo luogo, nel sociale, nelle esperienze profonde di comunione e di liberazione ecologica.

  7. Pochi sanno che Lelio Basso, oltre ad essere laureato in legge e avvocato, nel 1931-1932 si laureò pure in Filosofia con una tesi su Rudolf Otto, il famoso studioso di mistica occidentale e orientale, autore di Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale (1917), opera tradotta da Ernesto Buonaiuti per Zanichelli, Bologna, 1926. Di lì il forte interesse di Lelio BASSO per la questione religiosa e anche per il dialogo tra socialisti e cattolici, in ottica però volta a indurli a un’opzione anche religiosa aconfessionale, come emerge nel suo libro Socialisti e cattolici al bivio, Lacaita, Manduria, 1961. Basso assistette personalmente anche a momenti importanti del Concilio Vaticano II.
  8. Aldo Capitini fu uno dei protagonisti del liberalsocialismo, tra i fondatori del Partito d’Azione, filosofo neo-religioso e gandhiano. Influì pure, in termini etico-politici, su Norberto Bobbio, che scrisse su di lui importanti saggi. Opere decisive di A. CAPITINI sono: Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937; Religione aperta, Guanda, Parma, 1955, e poi, con Prefazione di G. Fofi e Introduzione di M. Martini, Laterza, 2011. Su di lui si veda in particolare: A. DE SANCTIS, Il socialismo morale di Aldo Capitini. 1918-1948, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2005.
  9. E. MOUNIER, Cristianesimo e rivoluzione, a cura di M. Tannini, La Nuova Italia, Firenze, 1981; Il personalismo (1949), Comunità, 1949; Che cos’è il personalismo? (1948), Einaudi, Torino, 1948 e infine 1975, Si confronti col cap. “La coscienza personalista. Maritain e Mounier”, del mio Coscienza e politica nella storia, cit., pp. 345-388. E inoltre: J. C. SCANNONE, La teologia della liberazione, in “Problemi e prospettive di teologia dogmatica”, a cura di K. H. Neufeld, Brescia, 1983, pp. 393-424; L. BOFF, Ecologia: grito da terra, grito das pobres, Editora Atica, San Paulo, 1995: J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione (1985), Queriniana, Brescia, 1986; FRANCESCO Papa (J. M. BERGOGLIO, Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano),, 2015. Sarebbe pure necessario discutere a fondo: C. PETRINI, Terrafutura. Dialoghi con papa Francesco sull’ecologia integrale, Giunti e Slow Food, Firenze, 2020.
  10. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, 1948 e poi, con Introduzione di B. Bongiovanni, 1998.
  11. E. MORIN – A. B. KERN, Terra-Patria (1994), Cortina, Milano, 1995.
  12. Ho già avuto modo di argomentare ampiamente questo punto, per cui il riferimento centrale va comunque al Poscritto di Marx alla seconda edizione del primo libro del Capitale del 1873 (la prima era stata del 1867), a cura di D. Cantimori, con Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962.
  13. Riferimento alla nota canzone (e album) di Enzo JANNACCI Vengo anch’io no tu no, del 1968.
  14. G. PLECHANOV, La funzione della personalità nella storia (1899), Rinascita, Roma, 1956.

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