Filosofia del Socialismo

Maggi Giovanni—foto Quarto Stato dopo servizio da Milano

Il proletariato secondo Marx: la classe che potrebbe liberarsi solo abolendo la dipendenza umana, e per ciò stesso tutte le classi, a partire da sé stessa, ponendo le basi di un mondo senza classi e senza Stato

Pubblicato 22/01/2020

Sappiamo che si chiama dialettica la visione per cui la realtà in sé e per sé si basa sulla contraddizione, ossia sull’urto degli opposti, sulla lotta dei poli antagonistici. Dagli antichi sofisti a Kant la dialettica era stata sinonimo di urto tra due posizioni incompatibili; ma da Hegel in poi divenne a tre termini: ammettendo, e anzi implicando, oltre la tesi e antitesi, la sintesi degli opposti: con ripresa cosciente, da parte di Hegel, di intuizioni che nel VI secolo a.C. erano già state presenti in indimenticabili aforismi di Eraclito di Efeso. L’essere era stato identificato, da Eraclito, col divenire continuo (“Tutto scorre” e “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”). Il divenire sarebbe stato continuamente formato e riformato da una divina energia creatrice (“fuoco centrale”, che “a tempo debito si accende e si spegne”). La forza dinamica del divenire era stata, per Eraclito, “Pòlemos”, la guerra: appunto l’urto degli opposti nella totalità della Natura (fysis), per non dire della vita umana. Ma Eraclito diceva che “i più” (òi pollòi) – da lui sempre disprezzati – non capiscono come “pur essendo in sé stesso discorde” il divenire sia “in sé stesso concorde”, “armonia dei contrari, come quella dell’arco e della lira”. Diceva perciò che “Ogni animale è portato al pascolo dalla frusta del dio”, ossia che questo continuo divenire, basato sull’urto degli opposti (che un secolo dopo i sofisti diranno “dialettica”), contiene sempre (contro quel che penseranno loro) una recondita armonia[1].

Un 2300 anni dopo Eraclito, Hegel dirà che la realtà in sé e per sé è il Logos (dio come mente umana: infinita capacità di pensare, dio in noi e, anzi, dio-noi); che questa mente assoluta però “si svolge” continuamente tramite la tesi (affermazione), l’antitesi (la negazione) e la sintesi (la negazione della negazione). Per lui in ogni ambito, nella natura e soprattutto nell’uomo: nella logica; nella storia della filosofia; nella storia; nella storia delle arti, eccetera (sempre come Logos che si manifesta come tesi antitesi e sintesi). Questa visione faceva della storia il divenire di dio nella nostra mente, e della nostra mente in dio: tramite l’autocontraddizione e il suo superamento. Questo riproponeva la visione della storia come teodicea (“giustizia di Dio”) di Leibniz, ma immanentizzata (Dio in noi, Dio nell’uomo, dio-uomo) e diluita nel divenire; e in un divenire in cui in certo modo dio procede lottando con sé stesso e in sé stesso: sempre però tramite un “vero” valido per tutti, intersoggettivo (finché resti tale per l’umanità, sempre in cammino, e che per ciò giunge a cambiare le stesse “verità”).[2]

Sappiamo che i giovani hegeliani avevano messo da parte il Logos “cristiano”, seppure “immanentizzato” (risolto nell’umano), di Hegel, ma avevano mantenuto la dialettica tesi antitesi sintesi, per loro ruotante attorno alla potenza del negativo, ossia attorno all’antitesi. Sappiamo pure che Marx spostò l’accento, sin dal 1844, dall’essere umano-divino di Hegel (Logos immanente), e dall’essere naturale di Feuerbach (la specie che vive nei singoli), all’essere “sociale”, cioè alla società umana che riproduce se stessa tramite l’urto degli opposti sociali: urto dei contrari polari che sin dal 1844 si svelava a Marx come lotta tra le classi, e in particolare, nella Modernità, come lotta continua tra borghesia e proletariato: tra compratori di energia umana (borghesi) e venditori di forza lavoro (proletari), ossia tra capitale e lavoro salariato. Non solo qui la negazione emerge come il dato centrale della realtà (mondo sociale), ma lo è doppiamente: come negazione (antitesi), e come negazione della negazione (sintesi). Con due particolarità del proletariato: l’essere esso una forza ritenuta mai integrabile nel sistema (“contro” per la sua natura profonda), e in una condizione senza speranza finché duri il capitalismo; e, inoltre, l’essere il proletariato la classe costretta, sempre che voglia liberarsi, a cancellare tutte le differenze economiche tra le classi, cioè a fare via via la società senza classi (e per ciò senza Stato, perché se non c’è nessuna classe da sfruttare non c’è neppure nessuna classe da dominare). Infatti Marx, sin dal saggio Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), parlando dell’emancipazione tedesca, ma facendo un discorso che era ben più vero per Inghilterra e Francia, notava: “Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale e non rivendichi un diritto particolare, poiché non ha subito un torto particolare, bensì l’ingiustizia di per sé, assoluta; una classe che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano; che non si trovi in contrasto unilaterale con le conseguenze, ma in contrasto totale con tutte le premesse del sistema politico tedesco; una sfera, infine, che non possa emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riacquistando completamente l’uomo. Questa decomposizione della società, in quanto classe particolare, è il proletariato.”[3]

In Marx questa era una scoperta recente, di quello stesso anno, tanto che il suo libro di cui questo saggio si proponeva come Introduzione, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927) non parlava affatto di proletariato, ma delineava semplicemente uno Stato basato sull’autogoverno dei cittadini inteso come realizzazione dell’eticità hegeliana non in forma fallace, conservatrice e autoritaria (come in Hegel), ma di democrazia diretta (non tanto diversa dal Contratto sociale di Rousseau)[4]. Ma il 1844 fu l’anno di svolta di Marx, in cui apprese tutte queste belle cose, e in specie che la grande antitesi per decostruire la formazione, o sistema, sociale, e politico, esistente, era il proletariato. Giungeva a tali idee tramite i contatti con gli operai comunisti di Parigi, le grandi letture dei pensatori socialisti e libertari francesi e dell’economia “capitalistica” inglese, ma pure in assiduo dialogo con il suo amico, figlio d’industriali, Friedrich Engels, che di lì a poco, all’inizio del 1845, avrebbe pubblicato un libro antelucano sulla condizione della classe operaia in Inghilterra[5].

Il proletariato – diceva Marx – era la principale forza produttiva delle merci (tanto più in un’epoca connotata dall’operaio “professionale”, ricco di conoscenze pratiche da ex artigiano, conoscenze inimmaginabili in epoche successive di produzione tramite catene di montaggio: per non dire dell’automazione di oggi). Per Marx si poteva dire, sin dai suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844, che il valore di una merce sia il lavoro umano che incorpora (come aveva già insegnato Adam Smith). Per Marx era indubbio che il primo produttore delle merci nel mondo moderno sia il proletario, che valorizza con la sua energia, con la sua forza lavorativa, la materia che modifica. Ma il proletariato, nel moderno capitalismo, sotto la borghesia che comprava la sua forza lavorativa, viveva in una condizione disperata, da Marx ritenuta insuperabile finché durasse il capitalismo, e superabile compiutamente – persino dopo l’auspicato “dominio proletario”, detto dal 1850 “dittatura del proletariato” – solo in una società senza classi e senza Stato. Si viveva (e vivrebbe ancor oggi secondo questo modello) in una situazione in cui la principale forza produttiva del sistema, quella che “fa tutto” (come dirà nel 1847 in Miseria della filosofia, in polemica con Proudhon)[6], il proletariato, non aveva e non poteva mediamente avere nient’altro che il minimo vitale; e poteva liberarsi – sempre secondo Marx – non già passando semplicemente dalla condizione di servo a quella di signore (anche in base a pagine famose della Fenomenologia dello Spirito di Hegel del 1807[7]), ma superando ogni divisione in classi, realizzando un mondo in cui tutto fosse di tutti (comunismo). Infatti se qualcuno fosse tornato a dipendere, come sempre accaduto in passato, sarebbe tornata – dalla finestra, persino se cacciato dalla porta – il lavoro salariato, cioè la servitù dei proletari. Perciò Marx, nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica osservava: “I rapporti di produzione borghesi”, cioè fondati su un’economia privatistica, che ruota tutta attorno alla compra-vendita della forza-lavoro nel “libero” mercato, “sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale”, cioè sono l’ultimo sistema sociale basato su un conflitto tra classi opposte: “antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale”, ovviamente ineliminabile, “ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.”[8]

Qui c’è il vero tema della “fine della storia” (solitamente imputata a Hegel): nel senso proprio – per Marx – di fine di quella Storia cominciata con le diverse società divise in classi succedutesi dopo la preistoria: il che ci mostra quale fosse l’attesa redentiva della rivoluzione proletaria, anelante a quello che ancora Lenin, in Stato e rivoluzione (1917, ma 1918), avrebbe chiamato – in vista della rivoluzione proletaria mondiale che credeva cominciata – un “salto di qualità nella storia”, ossia “l’inizio” dello sviluppo di una società senza classi e senza Stato (come quella descritta nel suo libro)[9]

Su ciò Marx dava una spiegazione storica e soprattutto teorica (sempre più convinto di parlare come scienziato sociale, specie dal 1848 in poi). In termini storici la condizione proletaria era ovunque così, sull’onda della prima rivoluzione industriale. Le pagine più commoventi dei Miserabili di Victor Hugo, o sulla Londra di Oliver Twist o di David Copperfield di Dickens, ma poi ancora di Germinale di Zola, lo documentano benissimo. E Marx e Engels stessi commentarono, nella Sacra famiglia (1844), I misteri di Parigi di Sue.[10] Ma Marx vedeva la miseria stessa in termini di scienza sociale, in base a tutto un modo di ragionare ricavato da Adam Smith e soprattutto da David Ricardo: un modo di ragionare profondamente liberista, ma che egli volgeva contro il liberismo, contro l’economia politica reale, contro l’economia della borghesia, cioè contro il capitalismo. (Tuttavia il capitalismo, e anche il sapere economico-politico che l’esprime, si baserebbero su categorie che ora diremmo liberiste, da cui per Marx si potrebbe uscire solo superando il capitalismo).

L’impostazione era sempre sistemica, totalizzante. Hegel gli aveva insegnato a non considerare il tutto, la totalità sociale in divenire, come una mera somma di parti, ma come il tutto-tutti che siamo, e che diviene (cui le parti afferiscono). In certo modo Marx sin dalle Tesi su Feuerbach del 1845, sociologizzava Hegel: passava dalla visione totalizzante mentale alla visione totalizzante sociale, ma sempre vedendo il tutto come anteriore alle parti (la visione delle parti discende da quella del tutto, per astrazioni sempre più determinate). Mentre io, nel mio piccolo di persona che prova a ripensare Hegel, e però anche Marx, dopo Kierkegaard e Nietzsche, dopo Sartre e Merleau-Ponty, dopo la psicanalisi da Freud a Jung e Hillman, e soprattutto dopo i fiumi di sangue spesso degli innocenti versati nel XX secolo (e i mari di sangue che temo verranno sparsi nel XXI secolo), parto dal “singolo”; e considero le formazioni collettive – tipo classi o anche nazioni o Stati o altro – come Abelardo considerava quel che non era soggettivo (ossia come una “concettualizzazione”, che “viene dopo” i singoli, che egli considerava, e io considero, come i veri “reali”)[11], Marx “partiva” dall’essere collettivo, dalla “società civile” data, con le entità collettive o classi che la comporrebbero “inequivocabilmente”: società e classi di cui gli individui sarebbero variabili dipendenti (visione che io ribalto). Perciò, guardando alla società umana come sistema delle società umane, in una storia determinata, Marx costruiva un modello unitario, astraendo dalle differenze, come chi definendo l’area del triangolo parla per tutti i triangoli[12]. Anche in ciò c’era molto Hegel, ma senza Logos che circola entro tutti i momenti, come loro recondita armonia: e, soprattutto, sociologizzato, ossia spostato totalmente dal piano mentale o interiore a quello sociale e concernente il vissuto storico. Ciò posto se io immagino un “essere sociale” – una società, un sistema sistema – formato da due poli opposti (come tendenzialmente è), in cui un polo sia – come tendenzialmente è – il capitale (il Denaro già accumulato, investibile) che compera forza lavorativa, ossia compera una merce che sta sul mercato che ha l’incredibile caratteristica di produrre più denaro mentre si consuma, il guadagno – il di più di denaro rispetto ad denaro investito[13] – da dove arriverà? – Evidentemente dalla forza lavoro stessa. Il lavoro non pagato, che è tempo lavorativo forzatamente erogato gratis: è il profitto, che infatti Marx nel Capitale (I, 1867), definiva così: “Il plusvalore, cioè quella parte del valore complessivo della merce in cui è incorporato il sopralavoro o lavoro non pagato dell’operaio, io lo chiamo profitto.”[14]

Dopo di che molti marxisti, e forse Marx stesso (nel III libro del Capitale[15]), si sono scervellati per ridurre i valori ai prezzi specifici, ma è già molto affermarlo come legge tendenziale del sistema. Sembra paradossale perché il profitto sembra venire dal mercato, e non dalla produzione in sè. E Marx lo ammette. Ma spesso – aggiunge – le leggi della scienza sono controfattuali (urtano contro il senso comune, contro “i fatti” nella loro falsa evidenza). Marx notava infatti, in Salario, prezzo e profitto: “Quindi, per spiegare la natura generale dei profitti, dovete partire dal principio che le merci in media sono vendute ai loro valori reali, e che i profitti provengono dal fatto che le merci si vendono ai loro valori, cioè proporzionalmente alla quantità di lavoro che in esse è incorporata. Se non potete spiegarvi il profitto su questa base, non potete spiegarlo affatto. Ciò sembra un paradosso e in contraddizione con l’esperienza quotidiana. È anche un paradosso che la terra gira attorno al sole e che l’acqua è costituita da due gas molto infiammabili. Le verità scientifiche sono sempre paradossi quando vengono misurate alla stregua dell’esperienza quotidiana, la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose.”[16]

Ciò premesso si hanno due conseguenze. La prima, più paradossale, è che solo apparentemente il guadagno, il profitto, viene dalla commercializzazione delle merci (come ad esempio aveva pensato il comunista utopista Charles Fourier, che vedeva il capitalismo incarnato non dai padroni, ma da coloro che vendono le merci, i commercianti[17]): il profitto deve venire dalla produzione, perciò da tempo lavoro non pagato, cioè plusvalore. Le merci, anzi, in base ad una razionalità liberista che Marx ritiene propria del capitalismo (libero mercato), sono scambiate “al loro valore”, perché la libera concorrenza, che è la quintessenza dell’economia di mercato, abbassa i prezzi a un livello molto vicino ai costi di produzione. Ma questo vale pure per quella merce speciale, che in realtà dà una continua spremitura di soldi supplementari rispetto a quelli investiti per comperarla pagando salari, che è il lavoro umano. Anche questo costa quanto costa produrlo, pur con fluttuazioni, che però non rovesciano la tendenza di fondo. Questo voleva dire che la forza lavoro costa quanto costa produrla, ossia è pagata in modo tale che produca bene, sino a quando non la si possa rimpiazzare.

Questo aveva la conseguenza di far costare la forza lavorativa a un prezzo bastevole solo per il minimo vitale. Non solo: Marx era assolutamente persuaso del fatto che nell’insieme la forza lavoro salariata o salariabile – il proletariato – costasse sempre meno (“legge” della “miseria crescente del proletariato”). Le lotte stesse sarebbero servite da un lato, con le loro pur transitorie conquiste, come temporanei antidolorifici sociali; dall’altro come scaramucce in vista dello scontro finale tra lavoro e capitale, proletariato e borghesia. Infatti – sempre in base alla logica liberista del suo ragionamento – una merce costa tanto più quanto più è richiesta sul mercato, e tanto meno quanto più abbonda sul mercato. Ma siccome a quel tempo, in cui tutti facevano tanti figli, e folle infinite di gente di campagna s’inurbavano, c’erano sempre più salariabili, i salari reali si deprezzavano. (Oggi accade con la globalizzazione: non ultimo tra i problemi “nuovi” del XXI secolo). Tanto più che quasi sino al nostro tempo, sino alla rivoluzione elettronica (che cambia molte carte in tavola), i lavoratori svolgevano o mansioni manuali apprese sin da piccoli, come “operai professionali” (come nel XVIII e XIX secolo), oppure facili e ripetitive (nelle grandi fabbriche, e in specie in quelle delle catene di montaggio, per cui rinvio al capolavoro Tempi moderni di Chaplin, del 1936).

Ciò posto il proletariato poteva solo liberarsi abbattendo il capitalismo, e innanzitutto abolendo il lavoro salariato, trasformando le imprese, una ad una e nel loro insieme, in libere associazioni tra produttori. Su ciò, infatti, nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx e Engels dicevano: “Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria, il proletariato è il suo prodotto più specifico. (…) I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento”, cioè abolendo la compra-vendita della forza lavorativa, ossia abolendo il lavoro salariato, “e per ciò stesso l’intero sistema di appropriazione che c’è stato finora”, ossia ogni forma di proprietà privata. “I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata”, tutti i diritti di proprietà, “e tutte le assicurazioni private”, tutte le forme di salvaguardia della proprietà privata, “che c’erano state sin qui. Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell’interesse di minoranze”, ossia movimenti di minoranze sociali in lotta per il potere. “Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza nell’interesse della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l’intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.”[18]

Tutto ciò implica una tale centralità della classe antagonistica da aver dato luogo a diverse correnti teoriche e politiche “operaistiche”, dal sindacalismo rivoluzionario del primo Novecento alla teoria della spontaneità rivoluzionaria dei movimenti di massa proletari in ore decisive della storia, di Rosa Luxemburg, all’operaismo marxista d’Italia, di Vittorio Foa, Raniero Panzieri, Mario Tronti e anche Antonio Negri. Tronti nel 1966 diceva che era tale il ruolo dell’antitesi operaia nel capitalismo che sarebbe stato possibile sostenere – sviluppando il ragionamento implicito in Marx – che il capitalismo è “il sistema di riproduzione della classe operaia”, in quanto essa è l’antitesi che lo muove, lo incalza, lo costringe a calci a rinnovarsi, lo disloca sempre più avanti, e infine lo supererà[19]. Io stesso, nel mio piccolo, già cinquant’anni fa spiegando Marx alle mie allieve dell’Istituto Magistrale di Alessandria dicevo che si sarebbe potuto dire che il marxismo è “quella teoria per cui la classe operaia c’è”: ossia in cui il proletariato è la chiave di volta del divenire collettivo del mondo contemporaneo, in vista di una società senza sfruttamento e senza autoritarismo.

Tuttavia la Prospettiva di Marx richiedeva, con evidenza, un lungo percorso storico, come l’affermazione di ogni classe nella storia. Sarebbe stato necessario lottare non solo sul terreno economico (che noi diremmo sindacale), lì primario, ma sul terreno politico e della conquista del potere politico, tramite il movimento politico dei proletari anticapitalisti (il socialcomunismo).

Ma il potere stesso avrebbe dovuto essere “del proletariato” e di nessun altro, così da non far rientrare il lavoro servile, cacciato dalla porta, dalla finestra. Con ciò il discorso si spostava su tre terreni, che dovremo ulteriormente considerare: I) La visione marxiana della transizione dal capitalismo al comunismo, cioè dalla società divisa in classi alla società senza classi (e senza Stato); II) La considerazione della stessa transizione nella storia del XX secolo, con passi sul XXI, per capire che cosa non abbia funzionato, e soprattutto perché non abbia funzionato; III) e, last, but not least, che cosa se ne debba evincere vuoi sul terreno filosofico che delle idee politico-sociali necessarie ad affrontare drammi e tragedie incombenti del XXI secolo. (Tutte le analisi di questo genere che vengo svolgendo hanno questo terzo punto come stella polare).

  1. ERACLITO, Testimonianze e frammenti, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze, 1972.
  2. Wilhelm Leibniz sosteneva che Dio aveva creato “il migliore dei mondi possibili”: ecco la teodicea, una visione sommamente provvidenzialista, oltre che di forte e ottimistica sottolineatura della razionalità del reale. Emerge nelle sue opere: Nuovi saggi sull’intelletto umano (1705) e Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male (1710). Voltaire, sia pure con poca comprensione della profondità della filosofia di Leibniz, costruirà su ciò il suo immortale e divertentissimo romanzo satirico Candido (1759), a cura di R. Bacchelli, Mondadori, Milano, 1953, in cui Leibniz è il filosofo Pangloss.
  3. K. MARX, Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), in: Annali franco-tedeschi, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pp. 125-142, ma qui p. 141.
  4. K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927), in: “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963.
  5. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in: “Opere filosofiche giovanili”. cit. pp. 242-243. Ma si veda: F. ENGELS, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), con Introduzione di E. Hobsbawm, Editori Riuniti, 1969. Engels era tuttavia un pensatore modesto, un buon divulgatore o al più un ideologo, oltre che un grande amico, di Marx. Il riferimento a A. SMITH va alla sua classica opera Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), e a cura di A. Roncaglia, Isedi, Roma, 1995. Ma l’economista classico che influirà su Marx, sul piano economico, quanto Hegel su quello filosofico (anche lui previo “rovesciamento” rivoluzionario), fu poi: D. RICARDO, Principi dell’economia politica e della tassazione (1821), da vedere in: “Opere” di David Ricardo, a cura di P. L. Porta, UTET, Torino, 1986.
  6. K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della miseria del signor Proudhon (1847), a cura di F. Rodano, Editori Riuniti, Roma, 1971. Replicava a: J. PROUDHON, Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère, Paris, 1846.
  7. G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito (1807), a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1933, due volumi. La “coppia” servo-signore, dapprima schiavo e padrone di schiavi, lì è una delle figurazioni essenziali, in cui il servo o schiavo contrapponendosi al signore acquista, col lavoro, la coscienza di essere lui pure totalmente umano, ponendo così le basi dell’idea dell’universalità umana, o umano-divinità, di ogni uomo: poi tipicamente cristiana.
  8. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), con Introduzione e cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino, 1964, al cap. “Borghesi e proletari”, p. 115.
  9. LENIN, Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917, ma 1918), in “Opere complete”, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. XXV, pp. 361-477.
  10. Si vedano: V. HUGO, I miserabili (1862), Oscar Classici Mondadori, Milano, 2004; C. DICKENS, Le avventure di Oliver Twist (1837/1839), Mursia, Milano, 1966; David Copperfield (1849/1850), Oscar Classici Mondadori, 1976; E. ZOLA, Germinale (1885), Einaudi, Torino, 2005; E. SUE, I misteri di Parigi (1842/1843), e, con Prefazione di U. Eco, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2002. Si vedano le molte pagine dedicate al romanzo di Sue in: K. MARX – F. ENGELS, La sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, Editori Riuniti, 1969.
  11. La discussione della grande filosofia scolastica del Basso Medioevo sugli “universali” verteva sulla corrispondenza o meno delle idee “razionali” della nostra mente alla realtà cui si riferiscano (a partire da “Dio”). Si misuravano i “realisti” (come Anselmo d’Aosta, ma anche Tommaso d’Aquino), per i quali c’era corrispondenza tra idee razionali e realtà investigata (Dio e anima spirituale compresi), e i “nominalisti”, per cui ciò che diciamo reale è solo “nomen”, cioè un che di soggettivo. C’era pure una posizione intermedia, ma più vicina al nominalismo, detta “concettualismo”, che chiamava “concetti” quelle idee puramente umane, soggettive, umanamente, o persino antropologicamente persuasive, ma non “universalmente” dimostrabili. La posizione concettualista era propria di Abelardo (1079/1142). Molti nominalisti, specie di matrice francescana, volevano così affermare il primato della fede su una ragione che sui massimi problemi metafisici appariva loro naturalmente zoppa, e persino fuorviante. Ma il nominalismo, proprio in quanto separava quel che viene dall’esperienza umana dalle pretese della metafisica, aprì la strada al ragionare scientifico. Come si vede in Wilhelm di Ockham (1290/1300 – 1348/1349).
  12. Infatti al cap. 6 di Salario, prezzo e profitto (1865), a cura di V. Vitiello, Editori Riuniti, 1970, Marx scriveva: “Quando confrontiamo l’una con l’altra le aree di triangoli di forme e dimensioni le più diverse, oppure quando confrontiamo triangoli con rettangoli o con qualsiasi altra figura lineare, come procediamo? Riduciamo l’area di un triangolo qualunque ad una espressione che è completamente diversa dalla sua forma visibile. Poiché, secondo la natura del triangolo, sappiamo che la sua area è uguale alla metà del prodotto della sua base per la sua altezza, possiamo allora confrontare fra di loro i diversi valori di ogni sorta di triangoli e di tutte le figure lineari, poiché esse possono ridursi tutte a un certo numero di triangoli. Lo stesso procedimento deve essere seguito per quanto riguarda i valori delle merci. Dobbiamo essere in condizione di ridurli tutti ad una espressione comune, non distinguendoli più che pel rapporto secondo il quale essi contengono questa misura comune.”
  13. La formula delle economia tradizionali, per il K. MARX del Capitale (I, 1867), cit., era stata MDM, Merce-Denaro-Merce, nel senso che l’equivalente in denaro viene da una stessa produzione di beni, come una specie di rendita per una proprietà che si perpetui. Ma la formula esplicativa del capitalismo sarebbe: DMD’, in cui investendo denaro si ottiene “più denaro”, ovviamente espandendo illimitatamente le merci. Quello che oggi chiamiamo “sviluppo illimitato” non sarebbe una degenerazione del capitalismo, ma la sua quintessenza.
  14. K. MARX, Il capitale (1867, I), Editori Riuniti, 1963, libro I, sezione IV, cap. 10.
  15. Il secondo e terzo volume del Capitale di Marx uscirono postumi, a cura di F. Engels, nel 1885 e nel 1894.
  16. K. MARX, Salario, prezzo e profitto, cit., cap. 6.
  17. Si veda soprattutto: C. FOURIER (1772-1837), Teoria dei quattro movimenti e altri scritti, a cura di M. Larizza, UTET, Torino, 1972.
  18. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), cit., pp. 113-115 (al cap. “Borghesi e proletari”).
  19. Per l’operaismo in generale si veda: A. NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P- Pozzi e R. Tommasini, Multhipla, Milano, 1979; V. FOA, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980; Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita, Einaudi, 1991; R. PANZIERI, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra. 1956-1959, a cura di S. Merli, Marsilio, Venezia, 1982; Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei Quaderni rossi, a cura di S. Merli, BFS, Pisa. 1974, e, per il riferimento specifico si veda l’ultimo vasto saggio di M. TRONTI in Operai e capitale, Einaudi, 1966 (da confrontare con: Soggetti, crisi, potere, dello stesso, a cura di A. Piazzi e A. De Martone, Cappelli, Bologna, 1980).

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