Filosofia del Socialismo

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 1) Idealismo “religioso”

pubblicato il 01/05/2020

I

Si sa che i monoteismi si sono basati per millenni sul dualismo (Dio e mondo, anima e corpo, spirito e materia, e così via). Si sa pure che tutta la cultura degli ultimi quattrocento anni – prima nelle scienze naturali e poi in ogni scienza, anche “umana” (filosofica, politica, sociale, giuridica o economica) – ha minato il dualismo, sino a fare della sfera puramente spirituale un inutile doppione di quella materiale, o spazio-temporale, o “concreta”. Infatti la sfera materiale, o spazio-temporale, o “concreta” si spiega e sta in piedi tranquillamente – a quanto pare, o parrebbe – senza “l’altra”.

Ma è pure risultato vero – e su ciò mi sono molto soffermato – che tra la fine del XVIII secolo e il primo trentennio del secolo XIX, l’Idealismo, romantico e mistico, ha provato a ricomporre la frattura tra le due sfere. Esso si è studiato di dimostrare che il pensiero pensante che ci accomuna, l’Io in senso intersoggettivo, lo Spirito non sta affatto – o quantomeno non sta primariamente – in un mondo-altro, al di là di quello visibile ed umano; e neppure è una mera manifestazione del cervello come lo sono i succhi gastrici per lo stomaco. Infatti tutti gli “opposti”, o pretesi opposti, del dualismo religioso tradizionale – Dio e mondo, spirito e materia, pensiero e cervello – per l’idealismo presuppongono appunto il pensiero pensante, l’Io in senso intersoggettivo: stanno, cioè, nel pensiero pensante; sono costruzioni del pensiero pensante, sia esso l’ordinatore razionale, o sintetizzatore, dei dati percepiti, tramite ciò che nel pensiero è a priori (idealismo gnoseologico, conoscitivo, di Kant), o il loro creatore infinito ed interno, la fonte a priori – a nulla e nessuno soggetta – di tutte le sintesi: un’infinità a priori in noi in continua tensione con la nostra finitezza (come in Fichte, Schelling e Hegel). Così sgorga il cosiddetto vero, ogni sintesi a priori[1].

Si è però anche visto che in odio alla Restaurazione clerico-nobiliare residuale impostasi tra 1815 e 1830, e oltre – ma per una minoranza anche in odio al nuovo mondo modermamente capitalistico, borghese, liberista-liberale, in espansione – ogni idealismo – ogni religiosità anche solo immanente – fu respinto totalmente. Del resto dall’Inghilterra dell’ultimo trentennio del XVIII secolo a gran parte del XIX secolo, la rivoluzione industriale si espanse di continuo. La scienza parve potenzialmente senza limiti, e la si ritenne tanto più tale dopo la scoperta dell’evoluzionismo biologico, che applicato estensivamente sembrava spiegare tutto (positivismo); e il materialismo, scientifico e tecnologico, ma anche edonistico, si affermò sempre di più, mentre la sfera spirituale (e morale) divenne sempre di più la Cenerentola della vita socioculturale.

Ma si è visto, soprattutto, che anche il pensiero rivoluzionario (dopo Robespierre) si persuase ben presto della necessità di liquidare il dualismo di cui si è detto e di distruggere il cristianesimo, e soprattutto ogni visione tutta incentrata sulla coscienza infinita, anche immanente (idealistica): visioni infinitizzanti, “religiose”, che a Marx e al marxismo parvero fughe dalla realtà, forme illusorie di consolazione (“oppio dei popoli”), che potevano essere solo una remora, o una subdola credenza, sul cammino della rivoluzione, in vista di una società senza classi, senza sfruttamento e senza autoritarismo, e per ciò in un avvenire non vicinissimo, ma neppure remoto, anche senza Stato.[2]

Ma nel seguito si è visto che la cultura cosiddetta rivoluzionaria, almeno in Europa occidentale, nel corso del XX secolo, fu più o meno sopraffatta sempre da forze politiche d’altro sentire, che non si ispiravano affatto al materialismo – fosse esso intrasisistemico o antisistemico – ma a tendenze neoidealiste, neospiritualiste, vitaliste, o anche cristiane, prevalse nei tempi lunghi della storia; e, soprattutto, si è visto che il materialismo storico e dialettico – marxista, socialista e comunista – lungi dall’avvicinare sempre di più un assetto dominato dai lavoratori a partire dai luoghi di lavoro, si convertiva dovunque in statalismo burocratico. In forma “debole” è accaduto e accade all’ombra di un capitalismo che si voleva e vuole lodevolmente umanizzare, tramite lo Stato liberaldemocratico-burocratico, dappertutto; e nell’area di espansione del comunismo dalla Russia alla Germania Orientale, dal 1917 al 1991 (per non dire della Cina, anche d’oggi), in forma totalitaria; e si è visto che questa “degenerazione burocratica”, pan-statalista, incentrata sugli apparati ed autoritaria, lungi dall’essere “degenerazione burocratica” dello Stato “operaio” – come aveva sperato Trockij pure parecchi anni dopo la sua cacciata dall’URSS[3] – era stata “generazione”, essendo emersa ovunque fosse prevalso il comunismo di Stato; e, soprattutto, che questo genere di potere “socialista” o socialcomunista alla fine è crollato su se stesso, senza colpo ferire – come un gigante infartato, che pure era stato frutto del sacrificio di molte decine di milioni di persone, come mai era accaduto in duemila anni a nessun impero mondiale nella storia – da Vladivostock a Berlino tra il 1989 e il 1991 (in pratica in tutto il cosiddetto mondo dell’uomo bianco).[4] Si è pure visto che anche la versione “debole” e liberale dello statalismo (sempre burocratico), la socialdemocrazia, ora campa, più che vivere (anche se mi dispiace moltissimo e sin dagli anni Ottanta del secolo scorso avevo sperato fosse l’alternativa all’”altro” statalismo di sinistra – burocratico, autoritario e totalitario – e non semplicemente il fratello “maggiore” più legato alle vecchie istituzioni liberali).

Siccome tali cose sono accadute in un arco di centosettant’anni (dal 1848), salvo periodi d’eccezione di mesi, si è qui ritenuto che la cosa meriti la ridiscussione dei punti stessi di partenza e di arrivo di tutto il processo in questione, a partire dal materialismo stesso: con la sua idea della religione “oppio dei popoli”; con la sua convinzione che il bisogno di una vita “beata” e veramente universale, libera e intersoggettiva, non si risolva “in primo luogo” a livello di coscienza (idealismo o spiritualismo), ma nell’esistenza sociale: rovesciando la prassi, ossia trasmutando i rapporti economici volgendo la proprietà privata in proprietà “pubblica”; e anche con disinvolto e spregiudicato uso dei mezzi per conquistare o mantenere “il potere”, senza vacui scrupoli, perchè tanto siamo (saremmo) solo un mucchietto di atomi; per cui non esistendo nessun “Vero” in noi a monte, tutti i mezzi sono (sarebbero) buoni per conquistare, e mantenere, il potere “socialista”, preteso salvifico; e che “il positivo” viene (verrebbe) non tanto, o non solo, o non primariamente, da un’opera di costruzione di soluzioni valide, ma di distruzione del negativo, ossia di eliminazione o cancellazione dalla scena sociale, del nemico o “agente nocivo”, come quando risaniamo il corpo combattendo la malattia, lì incarnata però dagli avversari sociali e politici che sono persone in carne e ossa e non pedine di una dama, da far fuori fisicamente, o fosse pure solo moralmente, senza problemi; e che l’accettazione di una forma di governo o dell’altra è (sarebbe) qualcosa di relativo, certo molto condizionato dagli interessi economico-sociali degli uni o degli altri; e che – come sa (saprebbe) tutta la gente che se ne intende – per realizzare il potere della propria parte, e anche di se stessi, tutti i mezzi sono (sarebbero) buoni; e che comunque, persino in ambito democratico, si deve (dovrebbe) agire con molto disincanto, e accettare il fatto che la gentucola e gentaglia siano un dato della storia, e che semmai uomini nuovi saranno sempre la risultante di contesti economico sociali nuovi (e non di una nuova coscienza, o “umanità nova”, in cammino, cui non si crede neanche quando c’é). Ma ormai abbiamo conosciuto tutti i profeti di tali modi di pensare – presenti “spesso” dall’ultrasinistra all’ultradestra passando per il centro – dai loro frutti, più o meno marci. L’umanità è certo andata avanti (non sta certo come millenni o secoli fa, e solo i cretini possono negare o svalutare i progressi, rifiutando l’uovo oggi pensando alla gallina di domani); ma quest’umanità, così orientata, senza alcun sommo bene immanente nel profondo della propria mente, ha portato se stessa, e il pianeta, a situazioni di pericolo sempre più gravi, a un mondo “sgovernato” sempre più gravemente segnato da guerre intestine e competizioni economiche selvagge, in cui la catastrofe è possibile[5], con indizi di comune rovina incombente, di cui l’attuale pandemia mondiale potrebbe essere “una” delle manifestazioni che ci attendono.

A questo punto, come dopo la Rivoluzione francese e Napoleone, o alla crisi della Restaurazione, vanno ripensati “i fondamentali”: i punti di partenza, che si sono trascinati sino ai presenti punti d’arrivo.

Perciò l’infinità intrinseca della coscienza umana, in base a tutta l’analisi che ho proposto in tutta questa serie di articoli andrebbe riconsiderata come un possibile punto di ri-partenza che era stato troppo facilmente abbandonato, più o meno dall’inizio degli anni Quaranta del XIX secolo in poi, non solo dal mondo borghese trionfante, ma anche da quello proletario che l’incalzava e incalza, assetato di giustizia e libertà, ma anch’esso, almeno nelle minoranze dirigenti, senza fede nell’infinito in fondo al cuore, e per ciò suo malgrado convertito al materialismo proprio della borghesia, come avevano già paventato Rousseau e Robespierre[6]. Invece la nozione idealistica di Dio immanente nell’Io, con tutte le argomentazioni annesse e connesse, a mio parere, in una visione ricostruttiva – in questo mondo di macerie, o comunque contro i tratti distruttivi del nostro mondo in tremenda crisi d’identità – andrebbe ripresa. Naturalmente poi al punto di partenza (o ri-partenza) or ora indicato, come già si era fatto rispetto alla sua negazione ateistica e materialistica nel decennio anteriore al 1848, andrà poi connessa la riflessione su tutte le questioni “calde” e “concrete”, relative al rapporto con la natura, ai rapporti sociali, alla concezione dello Stato e del rapporto tra gli Stati (ossia la serie degli altri punti fondamentali di una nuova vision, come lo fu il marxismo, e più in generale il materialismo, tra il 1844 e i giorni nostri, ma ora in altro senso “di base”).

Ma siccome il riproporre il sinolo – la sintesi assoluta – tra idealismo e religiosità a livello di una coscienza che sveli e liberi sé stessa, è certo affermazione molto forte – come si è qui visto in talune discussioni tra noi persino con amici stimati e filosoficamente informati – prima di procedere oltre sarà bene enunciare qualche avvertenza fondamentale.

Prima avvertenza: Idealismo rivoluzionario, ma coscientemente fallibile

Al proposito va detto che l’accettazione sostanziale della premessa idealistica relativa all’universalità dell’Io, o dello Spirito, infinito in noi, non significa affatto che si possa tornare sic et simpliciter all’idealismo romantico, e in particolare a Hegel. Dovremo sì farlo, ma senza cascami del passato ormai improponibili. Dovremo necessariamente tener conto di tutta l’acqua passata sotto i ponti dopo Hegel, cioè di tutte le critiche risultate fondate all’idealismo sviluppate dai materialisti rivoluzionari come Marx e compagni, sino ad oggi; o dall’esistenzialismo, a partire da Kierkegaard; o dagli amici dell’hegelismo come del marxismo, come i filosofi detti della Scuola di Francoforte; oppure dagli storicisti “contemporanei”, più o meno relativisti. Erano e sono critiche quasi tutte condivisibili. Ciò posto naturalmente taluno potrà legittimamente chiedersi perché si debba o voglia ripartire proprio dall’idealismo. Anticipo la risposta notando che tutti i “grandi” critici di Hegel, or ora sommariamente richiamati, sono stati bravissimi nella pars destruens, cioè nella critica dell’idealismo, ma non nella pars construens, “positiva”: e ciò – a mio parere – perché avevano e hanno perduto proprio il primo presupposto “d’essere” (l’Assoluto immanente in noi), che invece l’idealismo “romantico e mistico” aveva molto ben salvaguardato in quanto esso aveva ritrovato Dio, con forti argomentazioni, non già “al di là”, o persino “nella” coscienza umana, ma “come” coscienza umana “autocosciente”, ritenuta infinita – ovviamente in modo implicito e da esplicitare – alla prima radice. Perdendo questo punto chiave dell’idealismo, con le connesse argomentazioni, tutti questi straordinari critici avevano gettato, hanno gettato e gettano via l’acqua sporca dell’idealismo col bambino, cioè con l’infinito latente in noi. Per tal via “lui” c’è, ma è come non ci fosse. Così facendo si sono affidati e, quel che è peggio, si affidano ad una navigazione senza bussola, senza fine, senza “il fine” (télos) e senza freno: fonte perenne di nichilismo: o occulto (magari mascherato da super-scienza), oppure esplicito (pronto a vivere avventurosamente, prendendo “gli altri” come mezzo per un potere o beneficio fine a se stesso). Di ciò sono persuaso. Ma non per questo dobbiamo ignorare le critiche all’idealismo che siano risultate ben fondate.

In base a tali critiche assolutamente fondate, anzi, non è possibile “tornare a Hegel” come altri hanno pensato di poter “tornare a Marx”, o magari a San Tommaso (con il neotomismo), ossia pretendendo di rettificare il pensiero del “maestro” solo su qualche punto laterale, come chi rivernici una casa o magari metta in sicurezza un soffitto, ma senza alterare l’edificio nella sostanza. (Trascuro naturalmente i “ritorni” puri e semplici, come a un Vangelo o Corano, che sono sempre forme di fondamentalismo, filosoficamente irrilevanti).

Molte cose, infatti, nell’antico idealismo, non sembrano più sostenibili. Tra le posizioni non più plausibili naturalmente porrei al primo posto la tendenza hegeliana a considerare “etico” lo Stato, ossia a vederlo come il bene comune per tutti i cittadini, i quali per ciò dovrebbero considerarlo non solo come mezzo, ma come fine della loro esistenza, come ideale per cui vivere ed eventualmente anche morire. Com’è noto ci credeva ancora un pensatore filosoficamente notevole, e però fascista convinto (poi infatti ucciso da partigiani toscani), Giovanni Gentile. Egli intendeva il fascismo come Stato etico, dimostrando quali potessero essere le implicazioni dell’hegelismo politico (anche se c’è stato e c’è pure un hegelismo che si è preteso e pretende liberale: il che è una buna cosa, ma sul piano della storia dell’idealismo non mi persuade)[7].

Com’è noto la critica marxista della concezione idealistico hegeliana dello Stato ha colpito soprattutto la sommaria identificazione tra lo Stato razionale-ideale e lo Stato reale (lo statalismo “reale”)[8], ma il suo aspetto più profondo, maturato dopo la marxiana Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, soprattutto dalle Tesi su Feuerbach (1845, ma 1886) e dall’Ideologia tedesca (con Engels, 1846, ma 1932) in poi[9], è l’idea che il fondamento della vita collettiva non sia quello normativo (lo Stato), ma quel che Hegel sin dal 1821 aveva chiamato “società civile”: il mondo dell’economia, il mondo del lavoro, da cui quello del cittadino collettivo (dello Stato) per Marx sempre “dipenderebbe”. È la misura della libertà del producteur tipico di un sistema a darci la misura della libertà del citoyen, e non l’opposto, per Marx. Qui non m’interessa tanto la conseguente, o molto facilmente deducibile, dipendenza della politica dall’economia, che pure in Marx era un punto fortissimo (e in me no), quanto il primato della società civile, ossia della vita di tutti i giorni, tra persone che lavorano, producono, dialogano, si amano o detestano, e così via. Il punto chiave, e che oggi condivido più che mai, per me è che Marx, dal 1845 in poi, superava lo Stato etico e poneva la società civile al centro. Per me uno Stato piccolo – liberale, sociale, ecologico e con solida governabilità – è sempre necessario; ma per la gran parte ritengo – in tal caso come Marx – che sarebbe bene che i produttori e cittadini se la vedessero tra loro, competendo o accordandosi, senza alcuno Stato sovraordinato che pretenda di fare il papà-mamma dei suoi figliolini dalla culla alla tomba. Se lo tengano il Regno assoluto di “Papà” a vita. Marx comunque voleva il primato assoluto della “società civile”, e aveva in ciò ragione. Su tale base “lui” mirava persino a raggiungere di tappa in tappa, ma non nel giorno di San Mai Più, ma in poche generazioni, l’anarchia comunista spontaneamente organizzata (la vera intersoggettività senza vincoli), mentre poi il comunismo della storia ha fatto l’opposto. Ma aveva cominciato con forza a identificare socialismo e statalismo già la socialdemocrazia tedesca, nel 1875 con forte dissenso di Marx (verso Lassalle) nella Critica del programma di Gotha: socialdemocrazia statalista però in parte sostenuta da Engels dal 1890 in poi[10]. Si potrebbe anche vedere nel comunismo di stato sovietico, ma anche cinese, una forma di Stato etico. Del resto anche la visione stalinista, ma più in generale marxista-leninista, per cui “il partito ha sempre ragione”, era “da partito etico”, che al potere comportava che chi si ribellasse al potere del partito-stato – fosse pure la classe operaia – fosse ritenuto un reazionario, da stroncare con pugno di ferro. La società civile – che per Marx, e sino al 1918, 1919 e forse 1920 pure per Lenin[11] – avrebbe dovuto incorporare a passi da gigante lo Stato, era invece incorporata a passi da gigante dallo Stato. L’ideale marxiano di un mondo governato dai lavoratori stessi era del tutto assorbito da uno Stato autocratico effettivo, burocratico autoritario, che pretendeva di operare in nome, per conto e al posto dei lavoratori, come se ne fosse l’incarnazione carismatica a livello di apparato burocratico: processo in URSS irreversibile dal 1928 in poi, e in seguito diventato “norma” e “normale” in ogni comunismo del mondo. Lo schiacciamento dell’ideale sul reale aveva dunque cattive conseguenze in campi opposti. Generava la forma vuoi collettivista (socialista autoritaria, politicamente comunista) e vuoi capitalistica (fascista) dello Stato etico: facce certo socialmente opposte, ma come i poli della calamita, dello stesso totalitarismo “en marche”.

Pure molto interessante – nel confronto con l’antico idealismo – è la liquidazione di una visione a tappe del reale, propria dello storicismo vuoi hegeliano e vuoi marxista, ossia della visione per cui in base alla universalità, infinità, o immanente razionalità, dello spirito, o anche della “Storia sociale”, si procederebbe per tappe necessarie: per Hegel nella Storia, nella storia della Filosofia e nella stessa storia religiosa dell’intersoggettività o umanità in cammino, verso una sempre più vasta, profonda e condivisa e condivisibile autocoscienza; per Marx e Engels da un sistema sociale all’altro: sicché dopo il comunismo primordiale ci sarebbe stato il dispotismo asiatico, poi lo schiavismo antico, poi il feudalesimo, poi il capitalismo e alla fine, tramite il potere “diretto” dei lavoratori, la società senza classi e senza Stato, cioè l’anarchia comunista al più alto livello di sviluppo (alla fine della “storia”, detta “fine della preistoria” dell’umanità)[12].

Questo, nell’hegelismo come nel marxismo, era legato all’idea ottocentesca del progresso “fatale”. Ma tutta l’antropologia culturale contemporanea ha negato il mito ottocentesco del progresso, che a diversi livelli di sofisticazione – come si è or ora accennato – si trova in Hegel, ma anche nel marxismo, e pure nel liberalismo democratico o nel darwinismo sociale. Oggi sappiamo che ci sono solo sapiens che si organizzano variamente a seconda degli ambienti di vita, senza alcun cammino predeterminato verso il meglio; e soprattutto che noi non siamo più intelligenti o più buoni degli uomini delle culture arcaiche, che hanno vissuto o vivono come hanno potuto o possono (anzi, molte volte è vero proprio l’opposto). Loro non erano né la barbarie né i buoni selvaggi, e noi non siamo né i cattivi né i buoni venuti dopo. Siamo solo sapiens variamente organizzati nel variare degli ambienti di vita, che comunque modifichiamo sempre creativamente col pensiero-volontà, che è sempre quello dall’origine dei sapiens, bene o malamente applicato[13].

Ritengo pure feconde molte critiche all’idealismo da parte dell’esistenzialismo, ma pure del connesso ontologismo, da Kierkegaard e pure Nietzsche a Heidegger.

Kierkegaard diceva, contro l’idealismo, che l’Essere non può Divenire: se è Assoluto non cambia, e se cambia non è l’Assoluto. Il divenire c’è perché l’uomo è un essere finito, anche se – siccome è un animale così intelligente che è giunto a farsi un cruccio del proprio limite – potrebbe trovare un po’ di felicità solo al di là della finitezza (in Dio, nell’aldilà, ma un poco già nell’aldiquà, credendo in Lui o nel Cristo come Dio trascendente venuto tra noi in carne e ossa). La vita umana, comunque, in quanto niente affatto intersoggettiva o universale per essenza, ma esistenza d’individui singoli, sarebbe non già dominata dalla necessità comune che ci sovrasta, ma dal confronto tra individui singoli. Perciò non sarebbe necessità, ma possibilità. Al più potremmo mettere a confronto diverse forme paradigmatiche (o stadi) di esistenza (diversi modelli “possibili” di vita) Vivremmo dunque nella contingenza del mondo, da cui solo Dio ci potrebbe salvare.[14]

Nietzsche condivideva l’idea della contingenza radicale del mondo e della vita (essendo Dio “morto” nella coscienza umana), negando persino che ci fosse una vera storia (oltre all’ovvio mutamento esteriore). Perciò i Greci antichi potrebbero essere più paradigmatici – per noi più esemplari, più idealmente ed empaticamente “contemporanei” – dei nostri decadenti contemporanei (o anche no, come intese dal 1878 in poi, comprendendo tardivamente che il Moderno non è tutto spazzatura). In ogni caso dovremmo reimparare, come gli animali, ad accettare la contingenza del mondo, che sarà tale e quale eternamente, nel variare delle forme mentre tutto resta come prima (non a caso gli piaceva molto Empedocle, su cui intorno al 1870 avrebbe voluto scrivere un dramma), senza alcuna possibile redenzione né distinzione, se non convenzionale e strumentale, tra bene e male.[15]

Heidegger nel 1927, in Essere e tempo, confermerà l’assoluto contingentismo in cui siamo immersi, dicendo che se interroghiamo il nostro umano stare al mondo (“esserci”) sull’”essere”, cioè sulla vera realtà, scopriamo che siamo semplicemente dei “mortali” (l’essere per la morte), che scappano da tale tragica consapevolezza del vivere (il “vivere per la morte”, che pure sarebbe una forma di disincanto, e la sola “vita autentica”) prendendosi per il bottom da soli vivendo in un mare di banalità e chiacchiere[16].

Ma poi ciascuno, scoperto il trucco (il fatto che potremmo essere “truccati per natura”, dirà Sartre[17]), cercava ovviamente un’uscita di sicurezza da questa “contingenza del mondo”.

Marx la cercava nel futuro (una “vita beata” inter nos, il “sogno di una cosa”, la società senza classi e senza Stato); e i suoi epigoni, cioè pure noi, hanno seguitato a farlo, dal 1848, per più di centosettant’anni, ora in forma di pensiero-prassi di tipo “forte” (rivoluzionario, comunista) e ora di tipo “debole” (riformista, socialdemocratico). Il risultato a fine ciclo è un capitalismo più forte che mai a livello planetario, con vantaggi non piccoli per la maggioranza dell’umanità, ma con tale devastazione del pianeta e rischi di guerra atomica da consolare ben poco. In ogni caso la via dei “futuribili” è fallita, prescindendo dal “futuribile” liberaldemocratico, “che si accontenta”: quel banco è saltato. Possiamo elevare innumerevoli volte i nostri tragici “ahimè!”, come nella tragedia antica, quando ci pensiamo, ma così stanno le cose. E affiggere nella nostra vetrina un cartello – relativo alla società senza sfruttamento né dipendenza che “vendiamo” – in cui ci sia scritto sempre “Oggi non si fa credito, domani sì”, dopo centosettant’anni sarebbe un’irrisione veramente vana (e antimarxista). Con ciò credo che non dovremmo “accontentarci” di qualche sfilatino di liberalismo sociale, pur senza sputarvi sopra (dovremmo prenderlo come “morale provvisoria”). Per me il capitalismo resta una civiltà inaccettabile, la cui molla è il massimo guadagno il più presto possibile e a qualunque costo, che ha certo anche portato più consumi di ogni altro sistema (Marx e Engels lo sapevano già nel 1848[18]), ma in mezzo agli stermini e alla rovina della terra ben noti. Dovremo cercare un’altra strada per uscirne. La mia attuale elaborazione fa parte di questa ricerca.

Anche quelli che abbiamo detto esistenzialisti o post-esistenzialisti, nella misura in cui fossero scommettitori sul futuro per riscattare il passato, ossia “speranzosi” nel senso di Ernst Bloch[19], sono rifluiti in ambiti compromessi con lo Stato etico, o col totalitarismo. Così ha fatto, ad esempio, Sartre, col comunismo, dal 1945 in poi, con forti oscillazioni tra la tendenza stalinista e quella libertaria di sinistra, che però ha sempre finito di giocare un ruolo ancillare, e spesso tragicamente tale, finito invariabilmente nel comunismo burocratico autoritario, in tutto il Novecento. In pratica l’esistenzialismo politicamente impegnato, impregnato di ineliminabile contingentismo, sin troppo persuaso della nauseante[20] condizione umana, se non può, non sa o non vuole evadere verso l’alto come Kierkegaard, come Marcel, come lo stesso ultimo Merleau-Ponty e come l’ultimo Heidegger (cioè riscoprire la fede in qualche dio sconosciuto, tradizionale o meno), lo fa cercando una contingenza “buona”, che così risulta essere un nichilismo che vorrebbe essere gaio, ma che non può mai superare il “mal essere” di fondo. Lo fa, insomma, tramite un impegno radicale che poi risulterà ingannevole, anche se volendo lo si sarebbe potuto capire già “da prima”. (E sotto sotto lo si sapeva da prima).[21]

Anche quelli che da lidi esistenzialisti o ontologico-esistenziali sono approdati al nazionalsocialismo, come Heidegger, lo hanno fatto cercando di riscattare le aporie del passato scommettendo sul futuro[22]. Naturalmente confondere la rivoluzione con la “rivoluzione contro la rivoluzione” era molto grave, e infatti l’illusione vera e propria durò poco, pur restando “il professore” all’ombra dello Stato.

Ma alla fine dei conti il risultato di tutti “i futuribili” è stato così misero da avvalorare tutto quello che avevano detto quegli altri “esistenzialisti” più aperti al Sacro già citati in proposito: che l’Essere non può Divenire; che cambiano le forme e i livelli tecnologici e pure di privato consumo, ma gli uomini sono sempre gli stessi, sia ciò vero perché essi sono dei miserabili come Caino (o homo homini lupus, come diceva Hobbes[23]), oppure perché cercano tutti di campare in un’invincibile contingenza del mondo in cui tutto cambia (non viviamo certo in miseria come millenni fa), ma tutto resta come prima (sfruttatori e sfruttati, dominatori e dominati, e, soprattutto, in modo sempre più palmare da mezzo secolo, anche inquinatori e inquinati, persino facendo morire di continuo innumerevoli specie animali e vegetali, con rischio per la specie umana stessa). Se non riscopriamo il deus se non in nobis, almeno come nos, potremo mai uscirne?

di Franco Livorsi

(Segue)

  1. Rinvio ai seguenti miei articoli qui su “Città Futura on-line”: Io e Dio da Cartesio a Kant. Note sui prodromi dell’idealismo (5 aprile 2020); Dio nell’Io e Io in Dio. Note su idealismo e religiosità in Fichte e in Schelling (14 aprile 20320); Dio nell’Uomo: l’Assoluto come Logos nell’idealismo di Hegel (22 aprile 2020).
  2. Rinvio qui ai seguenti miei articoli su “Città Futura on-line”: Karl Marx e la religione come “oppio dei popoli” (28 dicembre 2019); L’idea del “paradiso in terra” nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844 di Karl Marx (9 gennaio 2020); I misteri della dialettica in Marx: dal sogno religioso idealistico della “vita beata” all’idea materialistica della rivoluzione per la società senza classi e senza Stato (15 gennaio 2020); Il proletariato secondo Marx: la classe che potrebbe liberarsi solo abolendo la dipendenza umana, e per ciò stesso le classi, a partire da sé stessa, ponendo le basi di un mondo senza classi e senza Stato (22 gennaio 2020); La transizione dal capitalismo al comunismo: note sul proletariato e lo Stato in Marx (31 gennaio 2020); La transizione dal capitalismo al comunismo: note su società civile e Stato in Marx (8 febbraio 2020).
  3. L. TROCKIJ, La rivoluzione tradita (1936), Samonà e Savelli, Roma, 1968.
  4. Rinvio qui ai seguenti miei articoli su “Città Futura on-line”: Idealismo e Materialismo nella Storia contemporanea (22 febbraio 2020, 1 marzo 2020, 8 marzo 2020, 15 marzo 2020).
  5. Su ciò rinvio al mio romanzo distopico Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2014.
  6. Chi legga senza pregiudizi anche solo Le confessioni (1782/1789), Garzanti, Milano, 1976, di Jean-Jacques ROUSSEAU nota subito un forte orientamento improntato ad una religiosità legata alla natura e alla morale altruistica, in cui comunque l’idea di Dio non viene mai meno, e che lo oppone da un lato al fideismo tradizionale cattolico e protestante, ma dall’altro, e ancor più, alla tendenza ateistica dell’illuminismo. Il fuoco di fila nei suoi confronti, da entrambi i versanti, ingenera addirittura, in lui, una sorta di complesso di persecuzione, che per altro accresce il fascino dell’opera. Quanto al “rousseauiano” Robespierre, egli voleva dare alla sua idea della virtù repubblicana un fondamento neo-religioso, sostenendo che l’ateismo era proprio dei ceti privilegiati, come emerge bene in: H. GUILLEMIN, Robespierre politico e mistico (1987), Garzanti, 1989.
  7. Per la teoria più classica dello Stato etico è da vedere: G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, 1987. Per un’interpretazione nazionalista o fascista dello Stato etico, si veda: G. GENTILE, I fondamenti della filosofia del diritto, Mariotti, Pisa, 1916; Origini e dottrina del fascismo, Libreria del Littorio, Roma, 1929; Genesi e struttura della società (1944, ma 1946, postumo), Sansoni, Firenze, 1946. Per le interpretazioni in chiave progressista dell’hegelismo, si veda il notevole: D. LOSURDO, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma, 1992. Tuttavia Losurdo era pure un critico del liberalismo. Insiste, ma criticamente, sul carattere illiberale del pensiero di Hegel, in quanto opposto a ogni forte valorizzazione dell’individuo come tale, G. BEDESCHI in: Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Roma-Bari, 1993. Per le interpretazioni di Hegel in senso liberale, si vedano: P. BECCHI, Le filosofie del diritto di Hegel, Angeli, 1990; F. SCIACCA, Imago libertatis. Diritto e Stato nella filosofia dello Spirito di Hegel, Giappichelli, Torino, 1998. Ma più ancora si veda, nell’ambiente di Croce: G. DE RUGGIERO, La filosofia di Hegel, Laterza, 1947, e soprattutto: Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari, 1925. Mi sono occupato ampiamente del pensiero su storia e politica in Hegel nel mio: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 70-106.
  8. K. MARX in Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927), in: “Opere filosofiche giovanili” a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963, p. 122, dice che non è errato cercare l’eticità nello Stato, ossia in un fine a tutti comune, come fa Hegel, ma spacciare “per idea reale dell’eticità lo Stato che ha come suo presupposto una cosiffatta morale”, ossia l’interesse privato.
  9. Si veda soprattutto: K. MARX, Manoscritti economico-filosofici (1844 ma 1927), in “Opere filosofiche giovanili”, cit., p. 227. Dello stesso è da vedete soprattutto, su ciò, come prima formulazione definitiva: Tesi su Feuerbach (1845, ma 1886, in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886), Rinascita, Roma, 1950, pp. 77-80. Per l’approfondimento “definitivo”: K. MARX, Prefazione a: Per la critica dell’economia politica (1859), in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 745-749.
  10. K. MARX, Critica del programma di Gotha (1875), in “Opere scelte”, cit., pp. 953-975. F. ENGELS, sia pure tra più di una riserva, avallò la linea della socialdemocrazia tedesca, teorizzando sin dal 1890 (Marx era morto nel 1883), la via parlamentare al potere socialista, purché autonomo, nell’Introduzione a: K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1963.
  11. LENIN, Stato e rivoluzione (1917, ma 1918), in “Opere complete”, Editori Riuniti, 1967, vol, 25, pp. 361-462. Ma sono da vedere tutti i discorsi di Lenin, di straordinario interesse, appunto del 1919-1920, in: A. AGOSTI, La Terza Internazionale: storia documentaria, con Prefazione di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1974. Su ciò rinvio pure a: F. LIVORSI, L’idea della comunità senza classi e senza Stato nella storia del marxismo. Note e riflessioni sul passato e sul presente, in: “Comunità individuo e globalizzazione”, a cura di Giovanna Cavallari, Carocci, Roma, 2001, pp. 95-124.
  12. G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia (1822/1831, ma 1917/1920), in Germania a cura di G. Lasson, 1917/1920, e in it. a cura di G. Calogero – C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze, 1941/1963, quattro voll., da confrontare con il filologicamente più accurato: Filosofia della storia universale, Secondo il corso tenuto nel semestre invernale 1822-23, a cura di K. H. Ilting, K. Brehmer e H. N. Seelmann, e in it. a cura e con Introduzione di S. Dellavalle, Einaudi, 2001; Lezioni sulla storia della filosofia (1825/1826, ma 1986/1996 a cura di P. Garniron e W. Jaeschke, e in it. a cura di R. Bordoli, Laterza, 2009; Lezioni sulla filosofia della religione, tenute dal 1821 al 1831, in Germania a cura di G. Lasson, 1925/1929, a cura di E. Oberti – G. Borruso, Laterza, Bari, 1974, tre voll.; ma io ho tenuto presente soprattutto la più recente, e filologicamente aggiornato: Lezioni di filosofia della religione, a cura di W. Jaeschke e in it. a cura di R. Garaventa e S. Achella, Napoli, Guida, 2008.Per la visione della storia per tappe progressive con successione di sistemi, o “formazioni economico-sociali”, in Marx e Engels, si vedano soprattutto: K. MARX, Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), cit.; F. ENGELS, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), Edizioni Rinascita, Roma, 1956.
  13. Si veda in proposito soprattutto: C. LÉVI-STRAUSS, Antropologia strutturale (1958), Il Saggiatore, Milano, 1966; Il pensiero selvaggio (1962), Il Saggiatore, 1964; Tristi Tropici (1955), Il Saggiatore, 1960.
  14. Traggo molti spunti per questi cenni da: S. KIERKEGAARD, Timore e tremore (1943), con Prefazione di J. Wahl, Comunità, Milano, 1948. Inoltre è fondamentale il suo Aut Aut (1843, due voll.), a cura di A, Cortese, Adelphi, Milano, 1976/1989, Piccola Biblioteca Adelphi, cinque volumi. Ma si veda sempre, nell’edizione aggiornata: Le grandi opere filosofiche e teologiche, a cura di C. Fabro, Prefazione di G. Reale, Bompiani, Milano, 2013.
  15. Il tema della “morte di Dio” è proposto in modo indimenticabile in: F. NIETZSCHE, La gaia scienza e scelta di frammenti postumi 1881-1882, nell’”Opera omnia” a c. di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, 1965 (al libro III, par. 125-126). Il tema dei Greci dell’età classica come modello perenne è in: La nascita della tragedia (1872), Adelphi, 1971. Una parziale rivalutazione del Moderno, lì in chiave di individualismo liberale, si ha in: Umano troppo umano (1878), Adelphi, 1965. I temi dell’oltreuomo e dell’eterno ritorno, connessi alla morte di Dio, sono in: Così parlò Zarathustra (1883/1886 e 1892), a cura di L. scalero, Longanesi, 1956 (ne “Il meglio”) e ivi, in vol. autonomo, 1979.
  16. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Bocca, Roma-Milano, 1953.
  17. Si veda: J.-P. SARTRE, Santo Genet, commediate e martire (1952), Il saggiatore, 2017.
  18. K, MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, 1962. Spiegavano chiaramente che dal punto di vista della forza produttiva la “borghesia” capitalistica è stata la più grande della storia, anche se il proletariato sarebbe stato il suo becchino. Commenti straordinariamente illuminanti su ciò furono proposti da Antonio LABRIOLA in: In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), ora in: La concezione materialistica della storia, Introduzione e cura di E. Garin. Laterza, 1965.
  19. E. BLOCH, Il principio speranza (1949/1962), Mimesis, Milano, 2019, tre voll.
  20. Naturalmente mi riferisco al libro di J.-P. SARTRE, che per altro ritengo bellissimo, La nausea (1938), Einaudi, 1948.
  21. Sull’ambiguità come posizione persistente dell’uomo di Sartre, in cui “la bastardaggine” è sempre in agguato, è da vedere: F. JEANSON, Sartre, Mondadori, Milano, 1961. Si veda pure: P. CHIODI, Sartre e il marxismo, Feltrinelli, Milano, 1965.
  22. Per la vicenda biografico politica, ma pure filosofico politica di Heidegger, si vedano: R. SAFRANSKI, Heidegger e il suo tempo, Longanesi, 1996; V. FARIAS, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, 1988; D. DI CESARE, Heidegger e gli ebrei: i Quaderni neri, ivi, 2014. Gli ultimi due ritengono filosofico, e non solo biografico episodico, il legame col nazismo. La Di Cesare si basa sulla pubblicazione dei frammenti postumi del filosofo, i cosiddetti Quaderni neri. Il tema è molto discusso. Si veda pure: F. LIVORSI, La ricerca dell’essere all’ombra del Terzo Reich: i “Quaderni neri 1931-1938” di Heidegger, “Il Ponte”, a. LXXII, n. 4, aprile 2016, pp. 118-128.
  23. T. HOBBES, Elementi di filosofia. Il corpo – L’uomo (1640), a cura di A. Negri, UTET, Torino, 1972. La formula compare lì, e non nel suo più famoso: Leviatano (1651), a cura di G. Miceli, La Nuova Italia, 1976.

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