Filosofia del Socialismo

Tracciato d’impostazione per il XXI secolo: 5) La governabilità dello Stato (II)

Pubblicato il 28/08/2020

La democrazia in senso liberale, o semplicemente occidentale – o democrazia tout court – non consiste nell’abolire la differenza tra maggioranza e opposizione in modo che tutti partecipino insieme al potere, ma nella permanente possibilità di un’alternativa democratica, che riconosca alla maggioranza scaturita da libere elezioni il diritto di governare, e alla minoranza quello di vigilare, contestare, organizzarsi e tentare di acquisire in futuro il consenso necessario a diventare maggioranza. Normalmente due partiti o aree, uno moderato e conservatore ed uno riformista e riformatore, si contendono il campo, con ruolo reciprocamente utile, ma differente. Chi comanda ha bisogno di essere controllato e pungolato, e chi si oppone per tal via “impara l’arte” e si prepara a sostituire chi sia al potere. Ciascuno fa così in base alle idee e interessi collettivi che rappresenta. Solo eccezionalmente, o in assoluta emergenza, o perché il sistema non può andare avanti altrimenti, le parti opposte si possono accordare, ma in attesa di dividersi. In caso diverso la democrazia – che non è neanche il caso di chiamare liberale perché non ce n’è un’altra se non per irrisione dei cittadini – decade, e a lungo andare può persino morire.

Nel XX secolo, con la democrazia dei partiti, questo meccanismo si è assai positivamente esteso (dando voce permanente alla base sociale di riferimento che volesse farsi sentire dai suoi stessi “eletti”), ma si è anche complicato, perché il gioco, fuoriuscendo dalle aule parlamentari, è diventato in primo luogo un confronto tra forze per molti versi indipendenti dagli eletti stessi, o comunque in grado di condizionarli pesantemente dall’esterno delle istituzioni elettive. È insomma sorta – più o meno dappertutto dopo la prima guerra mondiale – una democrazia dei partiti: genere di democrazia che ha avuto – lo si è visto – particolare rilievo nella Costituente e Costituzione italiana. E questo è stato un grande progresso, anche ideale-politico[1] e, come si è visto, in Italia ci ha pure portato gli immensi vantaggi di un avanzato Welfare State: assistenziale, pensionistico, scolare e di diritti anche civili per tutti gli individui. Su un piatto della bilancia questo è stato il “di più”, il grande vantaggio sociale e di libertà per tutti; ma sull’altro piatto della bilancia (nel piatto che “va giù”), l’assetto ci ha pure portato ad accumulare più di 2500 miliardi di euro di debito pubblico e un notevole livello di corruzione della vita pubblica. Questo in parte è stato connesso al carattere forte della pressione degli interessi ove domini la forma partito: il che però – dati i vantaggi sociali – è del tutto accettabile; ma a ciò, in Italia, si è aggiunto il fatto che ben presto il potere di governo non ha potuto reggere senza continui compromessi con l’opposizione, politica ed economica, cioè con i partiti “esterni” alla propria maggioranza: soprattutto per la debolezza estrema del potere esecutivo (governativo) nei confronti del potere legislativo (o deliberativo), oltre che per il carattere troppo frastagliato del potere legislativo stesso connesso alla proporzionale pura; e dal 1993 in poi anche nei confronti del potere giudiziario. Così i “desiderata” – giusti e produttivi o anche economicamente assurdi – delle diverse forze sono diventati poco gestibili, perché chi comandava aveva bisogno dell’opposizione, e chi si opponeva aveva lo scopo non tanto di sostituire le forze governanti quanto di ottenere “risultati concreti” per la propria area sociale, e di farsi ammettere, ove possibile, nell’area del potere. Con effetti a posteriori ben chiari tanto sulla spesa pubblica quanto sul livello morale della classe politica, che quando i partiti siano troppo spesso conniventi e troppo spesso “extra legem”, deve abbassarsi.

A mio parere è facilmente provabile che ciò ha avuto ed ha a che fare col fatto che il potere esecutivo, o governativo, sia in sé che per il sistema elettorale (e sistemi elettorali ulteriori), è stato concepito, e poi praticato, come un potere che era ed è troppo debole per poter reggere alla pressione vuoi delle forze opposte che delle forze extraistituzionali. Come poté accadere?

Nel 1947 c’erano già i prodromi, i venti gelidi, della guerra fredda tra sovietici e americani. I democristiani non potevano fidarsi dei comunisti e dei socialisti loro alleati, dichiaratamente stalinisti. Ma neppure comunisti e socialisti potevano fidarsi dei moderati e democristiani, ossia di un’area cattolica che sin dal 1924 aveva, nell’insieme, accettato passivamente, e dalla Conciliazione tra Stato e Chiesa del 1929 entusiasticamente, il fascismo (almeno sino alla caduta di Mussolini del 25 luglio 1943).

La vita politica ruotava già, sin dalla Resistenza, sin dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) attorno ai partiti, e soprattutto a quelli che sarebbero stati poi sino al 1993 i tre partiti egemoni (Democrazia Cristiana, Partito Socialista e Partito Comunista). Nella Resistenza erano stati insieme nei governi provvisori antifascisti e antinazisti, tra alterne vicende, ma il 1947 li scindeva (a maggio). L’ala moderata, incentrata sulla DC, temeva che se alle elezioni politiche del 1948 avesse vinto l’altra (il Fronte Democratico Popolare, socialista-comunista), si sarebbe ripetuto lo scenario appena verificatosi a Praga, e che del resto in Europa Occidentale era stato tipico nell’avvento al potere dei fascismi, in cui una forza totalitaria, che per essa allora era il comunismo e socialismo di tipo stalinista (di Togliatti e Nenni), prima prende il potere col voto e alla prima occasione lo trasforma in dittatura di partito. Ma la stessa cosa era assai temuta dalla sinistra socialcomunista, che si ricordava bene che di quei moderati alle isole di confino, in galera o anche in esilio non c’era quasi nessuno; che persino la caduta di Mussolini del 25 luglio 1943 si era prima verificata dentro il Gran Consiglio del Fascismo, e comunque per iniziativa regia; e che l’influentissima chiesa di Pio XII, in un Paese ancora in tanta parte agricolo (e anche per ciò “cattolico”), era segnata da un anticomunismo e antisocialismo di tipo ossessivo, legato anche alla “persecuzione” dei cristiani nel “mondo comunista” (pur tra una conciliazione e l’altra).

A sinistra prevaleva e prevalse sempre tra i comunisti – in ciò un po’ diversi dai socialisti (almeno della corrente di sinistra) – una lettura a tinte fosche del capitalismo, e tanto più del capitalismo italiano. Questa lettura su un piano globale era legata alla teoria di Lenin, però formulata in guerra e nel 1916 (ma dai comunisti presa sempre per oro colato), sull’”imperialismo fase suprema del capitalismo”, fattosi monopolista e oligopolista, finanziario invece che imprenditoriale, marcio e decadente nella classe che l’incarna (la borghesia), e per ciò sempre aggressivo, guerrafondaio e, potendo, liberticida[2]. Così, proprio i compagni del totalitarismo stalinista vedevano come totalitari “gli altri”, che erano democristiani o liberali. Ma in Italia, secondo i nostri comunisti, la cosa sarebbe stata anche più grave perché qui un capitalismo ritenuto legato al latifondismo e alla rendita più che all’imprenditoria e al profitto (ancora nel 1965)[3], sarebbe sempre stato tendenzialmente reazionario e antidemocratico: sicché solo suo malgrado si sarebbe un poco liberalizzato, perché “costretto” dalla sinistra e dal movimento operaio, nel primo ventennio del Novecento, ma così malamente da generare il ventennale fascismo, da cui nel 1947 e anni dopo si era appena usciti[4]. Togliatti credeva certo in tali cose, e Nenni – da lui molto influenzato, anche se in apparenza meno – ci credeva persino di più. Ma un poco – com’era in tutto il suo modo di essere da animale totus politicus – Togliatti ci campava pure: forzava anche tali convinzioni a scopo tattico interno, per persuadere vaste schiere di vertice e di base di suoi compagni dal mitra facile, e sempre sognanti la dittatura “proletaria” “come la Russia” (però allora stalinista) a considerare che ottenere riforme democratiche, tramite vaste fatali alleanze, in un Paese “così arretrato” capitalisticamente e istituzionalmente (poco più che del terzo mondo), era già una mezza rivoluzione sociale (e quindi era meglio che non facessero “fesserie”). In ciò, silenziosamente, Togliatti rettificava pure il venerato Gramsci. Questi, sulla scorta di Salvemini, aveva visto Giovanni Giolitti come il “ministro della malavita”, cui mai e poi mai aveva o avrebbe dato credito. E non aveva mai neanche ipotizzato che liberalismo e socialismo, Giolitti e Turati, potessero allearsi[5]. Ma nel 1950 Togliatti pronunciava il famoso Discorso su Giolitti, dando inizio allo sdoganamento da sinistra dello statista di Dronero, da Nino Valeri a Brunello Vigezzi e oltre. La borghesia italiana – diceva – era sempre stata antidemocratica, segnata da quella che egli lì chiamava una “trama nera”, prima durante e dopo il fascismo. Per le anzidette ragioni. Quindi, se Giolitti aveva dato libertà di lotta ai sindacati e aperto a sinistra, quando lo aveva fatto sarebbe stato da apprezzare[6].

Con ciò giustificava al passato e proiettava sul futuro il suo modello di politica riformatrice (o di via democratica), basato sull’alleanza tra riformatori e moderati (nei limiti di cui si dirà). Questa politica faceva dell’unità tra PCI, PSI e DC nei governi della Resistenza (dal giugno 1944 e poi sino al 13 maggio 1947) un modello, certo da Togliatti sempre rimpianto: modello che più oltre avrebbe chiamato “nuova maggioranza”, contrapponendo all’a[7]lleanza successiva tra DC e PSI (e consorti) ipotizzata da Nenni dal 1956 e realizzata dal dicembre 1963 in poi, non già l’unità della sinistra alternativa al moderatismo, ma la possibile alleanza tra PCI, PSI e DC; e da ciò mai si mosse, se non perché costretto dalle circostanze. Ad esempio la grande competizione tra Fronte Popolare e DC del 1948 era dipesa dal fatto che De Gasperi nella primavera ’47 aveva voluto rompere col PCI, persino prima che glielo chiedessero gli americani. Quella rottura con la DC poteva essere ben accetta o per settarismo o per ingenuità a tanti socialisti di sinistra e comunisti assai stalinisti, da Lelio Basso o persino Pietro Nenni a Luigi Longo e Pietro Secchia, ma per lui era un che di non voluto affatto, anche se all’opposizione sembrava sempre un bolscevico.

In sostanza la tendenza centrale della sinistra italiana, togliattiana e nenniana, non era alla democrazia dell’alternativa, ma alla democrazia consociativa. Anche la famosa mossa, resa possibile solo dall’autorità assoluta del capo in casa comunista, del consentire che i Patti Lateranensi tra Chiesa e Mussolini entrassero in Costituzione (articolo 7), al di là dei fervorini per i credenti comunisti sulla garanzia della “pace religiosa” tra italiani, che c’era sempre stata, era un tentativo estremo di salvare o almeno rilanciare “per il futuro” l’accordo tra sinistra e centro, riformatori e moderati, ritenuto il perno della democrazia in Italia.

Tutto ciò si riflesse sulla Costituzione, e di lì in poi su tutta l’Italia repubblicana, almeno sino al 1994 (quando cadde la cosiddetta prima Repubblica: anche se per me la Repubblica del 1946/1948/1993 è sempre viva, anche se da Repubblica dei partiti è diventata una Repubblica dei fantasmi di partito: finché durerà).

Tutta la parte detta “programmatica” della nostra Costituzione, che segna principi e fini della Repubblica, è molto avanzata, e siccome è pur essa vincolante ne fa un che da considerare come sacro da un punto di vista democratico. Ma il tipo di repubblica scelto, e in particolare la struttura istituzionale e il sistema elettorale, e conseguentemente – perché questo è qui l’anello decisivo – l’assetto di governo che ne consegue, sono per me fragili: anche se astrattamente non sono meno giusti della parte “programmatica”, finalistica. Questo fu fatto per accordo tra le due parti allora in lotta.

Era infatti iniziata la guerra fredda. Gli americani erano pronti a prestare in modo conveniente fiumi di dollari (Piano Marshall) a chi però stesse dentro il modello democratico liberale. Ma, soprattutto, in Cecoslovacchia il Fronte Popolare nel 1946 aveva democraticamente vinto, e poi i comunisti avevano trasformato la vittoria in dittatura di partito (22 febbraio 1948)[8]. Una minoranza esigua, ma importante, del Partito Socialista (partito che in Italia si chiamava allora PSIUP, perché era sorto dalla fusione tra PSI di Nenni e Movimento di Unità Proletaria di Lelio Basso), in dissenso con lo stalinismo aveva spezzato lo PSIUP (di lì in poi di nuovo PSI) e aveva formato il piccolo, ma importante, Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat.[9]

De Gasperi ruppe dunque col PCI nel maggio 1947. Tanto le istanze “legge e ordine” quanto la visione privatistica dell’economia, e naturalmente i legami tra socialcomunisti e totalitarismo sovietico, oltre a tutto ateo, erano invisi a lui, al suo partito e soprattutto alla Chiesa, a dispetto di ogni sforzo di moderazione e rassicurazione da parte di Togliatti stesso.

Si creò allora (ma certo già mesi prima del maggio 1947), alla Costituente, una situazione in cui, come scriverà il capo della sinistra democristiana non degasperiana, Giuseppe Dossetti, ciascuna delle due parti temeva il colpo di stato dell’altra. Forse la più spaventata delle due parti era quella moderata, perché il Nord, sempre decisivo in Italia dal 1848 ai giorni nostri, era in maggioranza socialcomunista e lì i partigiani erano ancora pronti a riarmarsi in qualsiasi momento. Ma i socialcomunisti non erano meno preoccupati. Allora si decise di fare del potere governativo (o esecutivo) una specie di sorvegliato speciale del potere legislativo (salvaguardato anche dal potere giudiziario, tramite una forma di “autorizzazione a procedere” che senza maggioranza assoluta proteggeva ogni parlamentare, tanto che tra 1948 e 1993 solo un paio di socialdemocratici finirono “al fresco”). In sostanza si scelse una repubblica fortemente parlamentare. La si volle pure basare, per volontà del centro, su un bicameralismo perfetto, tra Camera e Senato, che rende macchinose le approvazioni delle leggi, di nuovo inceppando il potere esecutivo (mentre la sinistra, a parte il tempo in cui si trattò di respingere le riforme di Renzi nel dicembre 2016, è sempre stata monocameralista). Inoltre fu fatta la scelta della proporzionale pura, per cui chi avesse il potere di eleggere un deputato “pieno” in almeno uno dei 630 collegi, praticamente prendendo ivi cinquantamila voti, entrava in parlamento. Questo da un lato moltiplicava il numero dei partiti (il gioco era trop facile) e dall’altro premiava i partiti più presenti nei singoli territori, che erano poi sempre i tre (DC, PSI e PCI: la DC non tanto per quantità di sezioni quanto di parrocchie, in un contesto da chiesa che ipotecava molto il “partito dei cattolici”, che a sua volta ipotecava gli “alleati”). Già lì c’erano basi molto forti per la partitocrazia: però esasperate dalla frantumazione politica e dalla debolezza del potere esecutivo, di governo, di cui si è detto.

Questo meccanismo, spinto a tali livelli di servitù del potere esecutivo (governativo) nei confronti del potere legislativo (parlamentare), succube del primo dal suo inizio alla sua rapida fine, nel 1947 fu adottato per la grande paura per la vittoria dei socialcomunisti; ma più oltre fece moltissimo il loro gioco, anche se da un certo punto in poi, quando dopo la caduta del comunismo poterono avviarsi a diventare partito di governo, il problema ci fu pure per loro. Dapprincipio, nell’aprile 1948, la paura dei “rossi” e delle loro violenze o colpi di stato in caso di loro vittoria furono tali che la DC ebbe quasi la maggioranza assoluta[10], ma ben presto si comprese che la DC, per quanto forte – tanto che l’assetto di più partiti “moderati” al governo si chiamò “centrismo” perché ruotava attorno al partito del centro, la DC – era esposta a ogni vento, dall’esterno e persino dall’interno. I governi divennero subito fragili e di breve durata (mediamente ne abbiamo cambiati circa uno all’anno dal 1946, battendo in instabilità di governo quasi tutti i paesi del mondo)[11].

De Gasperi era un grande politico trentino, non un tipico esponente della partitocrazia (come poi Fanfani, o Rumor, e tutti gli altri dopo, compreso Moro): era un democratico liberale cattolico, come su un piano laico lo era il liberale Luigi Einaudi, grande economista poi presidente della Repubblica. De Gasperi comprese ben presto che si poteva sfuggire al ricatto dei partiti alleati o avversari (che tra i suoi alleati, e persino amici di partito, avevano sempre qualche “amico”), e si poteva sfuggire alla pressione dei vari sindacati o corporazioni, solo ponendo l’esecutivo un poco au dessus de la melée: stabilizzandolo, andando verso una sorta di premierato. Allora, senza uscire dalla democrazia parlamentare, tramite Mario Scelba il 31 marzo 1953 De Gasperi fece approvare una legge elettorale maggioritaria, che il grande giornalista Pietro Nenni battezzò subito, con slogan poi di uso comune, “legge truffa”. Se un partito o esplicita coalizione di partiti avesse raggiunto il 50% più uno dei voti, avrebbe ottenuto il 65% dei seggi. In tal modo avrebbe avuto una maggioranza che certo sarebbe stata di legislatura, al riparo dai colpi di mano di amici e nemici in parlamento, e anche di un parlamento facitore di leggine a getto continuo, con strane alleanze, tramite cui probabilmente si è a poco a poco dissestato il bilancio dello Stato. Siccome la riforma era importantissima, si convenne che il voto alle politiche di quell’anno (il 1953) sarebbe valso non solo come via per ottenere col 50% più uno il 65% dei seggi, ma anche come conferma della legge, sanzionata dal voto diretto della maggioranza assoluta degli italiani (che allora votavano pressoché tutti). S’innescò una campagna furibonda. Io avevo dodici anni, ma ne ho un piccolo ricordo. Abitavo a Rovigo, dove come in tante piazze del Veneto c’è una colonna di San Marco, residuo dell’antica Repubblica di Venezia. Nottetempo – siamo ancora nell’Italia di don Camillo e Peppone – i rossi avevano issato, lungo tutta la colonna, uno stendardo in cui campeggiava una forchetta nera con scritto sopra “DC” (si diceva che la DC fosse “il partito dei forchettoni”, cioè della gente che si arricchiva tramite loschi traffici nello Stato); nella notte successiva i democristiani, credo per iniziativa di Tony Bisaglia, allora loro giovane “campione”, issarono sulla forchetta un cartello a colori fatto da un vero pittore caricaturista, in cui si vedano Togliatti e Nenni coi sederi nudi infilzati nella forchetta. La legge truffa fu però respinta, ma per soli settantamila voti. Fu allora che Saragat, che la sosteneva, parlò di un “destino cinico e baro”. La mancata approvazione segnò anche il declino di De Gasperi, che l’anno dopo, il 10 agosto 1954, morì. Iniziava, poco oltre, lo statalismo economico italiano, dall’acciaio agli idrocarburi (ma c’era pure una fabbrica di gelati di stato), di Fanfani, e anche un qualche dialogo con la sinistra esterna.

De Gasperi aveva voluto la legge maggioritaria per ragioni che emergono bene nel bellissimo libro scritto su di lui da sua figlia Romana, con cui pochi anni fa di ciò mi complimentai personalmente in Alessandria[12], e che anche il suo solo vero biografo “storico di razza”, Pietro Craveri, conferma, seppure in modo meno netto (era stato allievo di Scoppola[13]), per sbarrare la porta del governo alle due “estreme” opposte. De Gasperi era un vero centrista cattolico, lontano anni luce, anche a costo di contraddire il potentissimo Pio XII, come nel 1951-1952, da ogni apertura all’estrema destra neofascista[14]; ma al tempo stesso era contrario pure ad ogni alleanza con i comunisti, pur memore del loro apporto alla Resistenza e, in essa, di un governo insieme. Solo tramite una forte maggioranza “blindata”, legata al maggioritario, si poteva garantire l’autosufficienza della maggioranza centrista, sia in un senso che nell’altro. Credo che sia stato bene non votare “quella” legge maggioritaria del 1953, perché le ossa della democrazia nel 1953 erano, dopo solo otto anni dalla Liberazione, molto fragili, e tutti quelli che avevano anche solo trent’anni, per non dire dei quarantenni o di quelli ancora più vecchi, si erano formati sotto il fascismo. La democrazia non era ancora un vero bene comune “irrinunciabile” per le parti in lotta. Ma il problema che quella legge poneva era reale, e il suo scacco avrebbe avuto conseguenze importanti, allora e sino ai giorni nostri.

Se uno guarda la storia politica dopo lo scacco della legge truffa, dal 1954 al 1963 (anche se dal luglio 1960 quel che arrivò a fine ’63 visto a posteriori è ovvio, o meglio “pare” ovvio), può vedere che in quel decennio (o “seiennio” se poniamo il ’60 come termine “ad quem”), si confrontano due linee: una che avrebbe voluto trasformare il centrismo in un vero centrodestra, sino all’alleanza tra DC e Movimento Sociale Italiano; e l’altra in un vero centrosinistra, sino all’alleanza con il PSI di Nenni ove questo si fosse staccato dai comunisti, in attesa che anche questi si decidessero a “diventare democratici” (il che allora per i democristiani voleva dire “a ripudiare l’URSS” in modo totale, come aveva pur fatto Tito in Jugoslavia).

L’apporto della parte che prima del 1963 avrebbe voluto unire il centro alla destra (o la destra al centro) è stato dimenticato, anche per i limiti culturali di quell’area, che in genere non ha neanche lo spessore culturale di valorizzare i suoi penati, al di là del propagandismo da piazzisti, spesso “da spiaggia”. L’ala meno rozza, o pensante, di quella destra – oltre a furibonde, e datate, polemiche astiose e ridicole contro socialisti e comunisti – intanto cercava un’alternativa al futuro incontro con i socialisti di Nenni (Pio XII e la sua potente chiesa); poi aprì al gollismo già tramite il repubblicano Randolfo Pacciardi, mazziniano messo in minoranza da Ugo La Malfa; poi, portò tante argomentazioni non d’accatto contro l’istituzione delle Regioni; e, soprattutto, polemizzò contro lo statalismo crescente in economia (specie sul “Borghese” di Leo Longanesi), e mise in campo personaggi che si chiamavano Luigi Sturzo (non già solo succube del papa perché prete, ma contrario allo statalismo economico). C’era pure Giovannino Guareschi, con tanti altri. Con ciò non intendo minimamente valorizzare l’area, travolta dalla “Storia” per ottime ragioni, ma solo sottolineare che descriverla come un gruppo di scimuniti reazionari ormai è superficiale. Per fortuna della democrazia avanzata e del Welfare State quell’area fu sconfitta, probabilmente anche a causa della morte del papa reazionario Pio XII, che in sostanza ne era parte (o “il campione”), e dell’avvento al soglio pontificio di Giovanni XXIII.

Politicamente e culturalmente più rilevante fu, comunque, la tendenza opposta, volta ad unire il centro alla sinistra. A sinistra tale linea ebbe una variante molto importante, che voleva aprire il centrosinistra sino ai comunisti. Anzi, dapprima l’iniziativa socialista di apertura alla DC andò in tal senso, ad esempio al congresso socialista di Torino del 1955, ancora con piena convergenza tra Nenni e il suo straordinario vicesegretario, ideologo e organizzatore politico, socialista leninista, Rodolfo Morandi[15]. Si ipotizzava persino uno PSI al governo con la DC senza il PCI, ma sempre con aperta politica di unità d’azione con esso, che avrebbe subito dovuto vedere il PCI nella maggioranza.

Queste posizioni furono molto dilatate per quel che capitò nel mondo e in Italia tra il 1953 e il 1960. Nel 1953 Stalin morì, pianto come una specie di redentore dal comunismo e dai lavoratori di sinistra del mondo[16]. Ma tre anni dopo il nuovo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Kruscev, nel tentativo di porre fine agli eccessi illegalisti e stragisti del totalitarismo (cui pure in Ucraina aveva ben contribuito) e forse soprattutto di liquidare gli uomini della vecchia guardia più vicini a Stalin (tra cui Molotov, già direttore della “Pravda” nel 1917 e poi potente ministro degli esteri), denunciò “i crimini di Stalin”. Subito i paesi vicini occupati dall’URSS presero ad agitarsi a livello di massa, in Polonia e Ungheria. L’Ungheria pensò di potersi dichiarare neutrale rispetto all’URSS, ma la sua ribellione fu spietatamente repressa dall’Armata Rossa con decine di migliaia di morti. Credo che solo il pericolo di guerra nucleare abbia allora evitato una terza guerra mondiale. Il PCI si schierò unanimemente con i repressori, considerando i rivoltosi come controrivoluzionari. Nenni, che certo cercava l’occasione per portare il PSI al governo con la DC anche senza il PCI, decise di dissentire con la massima forza dall’URSS, consegnando persino indietro il Premio Stalin che aveva ricevuto e iniziando il lavorio dell’”Autonomia socialista” al congresso di Venezia del 1956. Ci vollero molti anni a realizzare il disegno, sia perché il legame con i comunisti e i loro miti era fortissimo anche nel PSI, e sia, e soprattutto, perché anche le resistenze in casa DC furono immani, tanto più che il papa Pio XII (morto nel 1958) era ostile ad aprire al partito di Nenni, da lui non meno detestato di quello comunista di Togliatti. Anzi, è dubbio che con un papa diverso da Giovanni XXIII, nominato nel 1958, e senza il successivo Concilio Vaticano II conclusosi nel 1963, il centrosinistra avrebbe potuto nascere. L’ultima spallata fu data in occasione dell’ultimo rigurgito del centrismo: il governo Tambroni del 1960, che accettava i voti – ufficialmente “non richiesti”, ma determinanti per il governo per stare in piedi – dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano. Quando il MSI convocò il congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, insorsero le piazze (luglio 1960), certo con molti tratti di spontaneità di massa, ma pure di volontà comunista di abbattere l’ultimo muro fradicio della reazione. Ma solo a fine 1963, dopo che il P.S.I. per entrare al governo, ebbe accettato la “delimitazione della maggioranza”, ossia la rottura con i comunisti, considerati non democratici dai moderati e inaffidabili per gli americani, anche negli enti locali – rottura seguita dalla scissione da sinistra (generatrice del piccolo ma combattivo PSIUP) – si giunse al governo trentennale imperniato sull’alleanza tra DC e PSI. Anche per l’occasione il PCI propose non già l’unità della sinistra contro la DC, ma una “nuova maggioranza” basata sull’accordo tra DC, PSI e PCI.

Come si vede la linea della sinistra italiana mirava sempre all’alleanza con i moderati, che del resto aveva antecedenti in tutta la storia pregressa: il connubio di “centrosinistro” concordato dall’alessandrino Rattazzi e Cavour nel 1848; l’evoluzione del mazziniano Garibaldi nel ruolo – come ha detto lo storico Mario Isnenghi – di “rivoluzionario disciplinato” (sincronizzato con Vittorio Emanuele II) e dell’ex capo dei garibaldini in Sicilia, e già assai repubblicano e persino già federalista, Francesco Crispi, nel ruolo di “uomo forte” in senso reazionario di Umberto I; il rapporto complesso tra riformismo socialista e liberale di cui si è detto (Giolitti e Turati, eccetera); il CLN e i governi della Resistenza.[17]

Perciò le tendenze che sperarono in una democrazia dell’alternativa – come Salvemini in età giolittiana, o Lelio Basso e ancor più Vittorio Foa in età repubblicana (giù giù sino all’Ingrao degli anni Sessanta-Ottanta o ai dissidenti radiati dal PCI del “Manifesto” nel 1969), furono sempre “contro vento”: nel senso che la linea di gran lunga prevalente nella sinistra italiana non mirava affatto a scalzare i moderati dal potere, ma a includersi come alleata decisiva nel loro gioco. Gli esponenti in oggetto (dell’alternativa di sinistra), con particolare riferimento al PSIUP (da Vecchietti a Foa), avanguardia dell’ulteriore contestazione sboccata nel Sessantotto[18], avrebbero voluto integrare democrazia parlamentare e democrazia operaia, o persino sostituire la prima con la seconda in una lotta di lunga durata, ma la scelta di fondo di gran parte della sinistra era quella di entrare nella cittadella del potere moderato per “impossessarsene”: cittadella in cui però tutti quelli che erano e sono entrati dal tempo di Garibaldi in poi si erano e sono sempre “accasati”, senza uscirne più, se non “cacciati” all’opposizione.

Rispetto al vecchio “gioco” della sinistra che sceglieva la compartecipazione rispetto a conservatori o moderati, per così dire da Garibaldi a Saragat e Nenni, le novità del disegno togliattiano[19] erano tre (ma la prima era una remora). Intanto Togliatti e il PCI sino al 1982 giocarono nel campo comunista mondiale (da cui il vecchio leader non voleva, o non osava, o non poteva staccarsi, perché per i comunisti la chiesa era quella: fosse o non fosse d’accordo il “Capo”, Togliatti stesso, che pure era soprannominato dai suoi compagni “il Migliore”: il che per me più che un “nomen” era una constatazione). In secondo luogo Togliatti teneva moltissimo al cosiddetto centralismo democratico, cioè a un meccanismo elitista, che rendeva dominus l’apparato interno, e pressoché unanimi le decisioni, e che egli diceva “leninista”[20]: così da evitare – io credo che questo fosse il vero motivo – la sorte dei tanti elementi assorbiti dall’alleato “borghese” come forze di complemento. Infine era convinto che ci fosse pur sempre, gramscianamente, un’alternativa tra due blocchi storici (uno conservatore-moderato e uno preteso riformatore-rivoluzionario): nel senso che l’alleanza tra DC, PSI e PCI avrebbe costretto i moderati, i cattolici, considerati espressione di contadini e ceti medi “produttivi” nella parte “migliore”, a scindersi, rendendo così possibile una grande sinistra, come “blocco storico” riformatore opposto e alternativo a quello conservatore, moderato e reazionario. Quanto di convinto e quanto di strumentale ci fosse nella visuale or ora richiamata, è difficile a dirsi.

In termini di “critica del gusto” possiamo avere diverse preferenze. Io preferisco la democrazia dell’alternativa (tra partito conservatore o moderato di massa, e partito riformatore; o almeno tra area di un genere o dell’altro): perché sono convinto che il potere sia corruttore e corruttivo di per sé; che chi va con lo zoppo impari a zoppicare; che se opposizione e governo si mescolano diventano compari; che il trasformismo sia la pandemia della democrazia. Ma in termini di realismo politico, che guarda al fatto che un’opzione funzioni o non funzioni per far avanzare o trionfare l’area politica sociale e culturale d’appartenenza (e tanto più in sede “scientifica”), tendo a giustificare l’opzione per la democrazia consociativa di Togliatti e Nenni, come di tutti gli “anteriori” citati (sino a Garibaldi): ma solo sino a quando l’Italia, nelle sue aree forti “padane” e “nordiste” sempre egemoni, è stata decisamente diversa dall’Europa occidentale neocapitalista e liberaldemocratica. In un Paese arretrato e dopo decenni di dittatura carismatica mussoliniana, puntare alla democrazia consociativa si poteva, e anzi si doveva, fare. Corrispondeva persino a quella che il politologo olandese Arend Lijphart ha chiamato “democrazia di pacificazione”, che seda contraddizioni terribili e conflitti troppo prossimi alla guerra civile attraverso l’accordo quanto più possibile ampio tra le parti.[21] Ma dopo? Era ancora così dopo il 1960? Dovremo essere un Paese a “sovranità limitata” per sempre, in cui la democrazia dell’alternanza è impossibile?

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. Su ciò il riferimento fondamentale resta: P. SCOPPOLA, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico, Il Mulino, Bologna, 1991 e infine 1997.
  2. LENIN, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916, ma 1917), in “Opere complete”, Editori Riuniti, Roma, 1966, vol. 22, pp. 187-303.
  3. Nel 1965 su “Critica marxista” ci fu una curiosa polemica tra Luigi Longo, allora Segretario del PCI, e Lucio Libertini, della Direzione del PSIUP, sulla possibilità di un “capitalismo senza monopoli”, sostenuta da Longo, che considerava il monopolismo uno stravolgimento del capitalismo “reazionario”.
  4. P. TOGLIATTI, Lezioni sul fascismo (1935), a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1970.
  5. G. SALVEMINI, Il ministro della malavita [1910] e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di L. Apib, Feltrinelli, Milano, 1962. Ma si confronti con TUTTI i riferimenti a Giovanni Giolitti, sempre negativi, prima su tale scia e poi per “leninismo”, contenuti in: A. GRAMSCI, Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino, 1958; Sotto la mole, 1916-1920, ivi, 1975; “L’Ordine Nuovo”, 1919-1920, a cura di P. Spriano, ivi, 1963; Socialismo e fascismo. L’ordine nuovo 1921-1922, ivi, 1970; La costruzione del partito comunista 1923-1926, ivi, 1971; Quaderni del carcere, Edizione dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, ivi, 1975.
  6. P. TOGLIATTI, Discorso su Giolitti, Rinascita, 1950. Si confronti con: N. VALERI, Da Giolitti a Mussolini, Parenti, Firenze, 1956 (Parenti era allora editore comunista); Giolitti, UTET, Torino, 1971; B. VIGEZZI, Giolitti e Turati. Un incontro mancato, Ricciardi, Napoli, 1976, due volumi. Ma rinvio pure a: F. TURATI, Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, Introduzione e cura di F. Livorsi, che rimane certo la più vasta e commentata raccolta di scritti del fondatore del socialismo italiano; F. LIVORSI, Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia, Rizzoli, Milano, 1984.
  7. In un piccolo convegno su Togliatti da me organizzato a Valtournanche nel 1974 e concluso dal maggior studioso, e curatore delle opere, di Togliatti stesso, che era il grande storico fiorentino Ernesto Ragionieri, questi, che sapeva che stavo lavorando a una biografia politica su Bordiga, una volta a cena mi chiese che cosa Bordiga, e soprattutto Gramsci, dicessero su Togliatti. Io gli ricordai un articolo del 1944 dell’ormai poco conosciuto Bordiga, che parlava del 1921/1926, in cui Bordiga diceva che Gramsci aveva definito Togliatti “un destro che riesce sempre a farsi passare per sinistro”. La cosa divertì molto Ragionieri, il quale disse che era vero, ma che proprio in questo consisteva la grandezza politica di Togliatti (che evidentemente sapeva trascinare pure una sinistra a ciò riluttante, a vocazione antagonistica e di alternativa, su posizioni che essa tendeva a considerare riformiste o di collaborazione con partiti “borghesi”).
  8. In Cecoslovacchia il Fronte Popolare socialcomunista vinse le elezioni nel 1946 e il 22 febbraio 1948 trasformò il governo in dittatura del Partito Comunista.
  9. Su ciò si veda: G. GALLI, Storia del socialismo italiano, Laterza, Roma-Bari, 1980, completa storia politica; A. BENZONI, Il partito socialista dalla Resistenza a oggi, Marsilio, 1980, storia critica interessante dal punto di vista della sinistra socialista. Ma si veda pure: Il socialismo italiano, Da Filippo Turati a Pietro Nenni (1892-1972), a cura di F. LIVORSI, Paravia, Torino, 1981. Su Saragat è da vedere il solo libro importante: F. FORNARO, Giuseppe Saragat, Marsilio, Venezia, 2003, che risente della forte identificazione tra l’autore, di formazione saragattiana, e il suo personaggio, però condotta con equilibrio e finezza critica.
  10. La DC nelle elezioni politiche dell’aprile 1948 ottenne il 48,11% dei voti, corrispondente a 10.899.640 voti, mentre il Fronte Democratico Popolare, socialcomunista, ottenne il 30,76%.
  11. Dal 1946 a oggi ci sono stati sessantasette governi.
  12. M. R. DE GASPERI, De Gasperi, uomo solo, Mondadori, Milano, 1964, riproposto col titolo: De Gasperi. Ritratto di uno statista, Oscar Storia Mondadori, 2004. Dissi all’autrice, tra l’altro incredibilmente somigliante al padre, che era stata la sola figlia o figlio di un protagonista della Repubblica a scrivere un libro importante sul proprio padre. E lo penso. Il titolo dell’edizione del 2004 mi sembra meno felice di quello del 1964, che stava a significare che mettendo al primo posto lo Stato democratico Alcide De Gasperi non aveva voluto piegarsi a logiche di partito né di destra né di sinistra. Ma ideologicamente per me si spiega pure in riferimento al suo essere veramente uomo di centro.
  13. Su ciò si veda: P. SCOPPOLA, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, 1977. Ne promossi io stesso, allora come assessore alla cultura, la presentazione in Alessandria, alla Casa della Cultura, da parte del professor Maurilio Guasco. Scoppola vedeva De Gasperi come fautore di un centrismo che guardava a sinistra, anticipando Moro, mentre io, pur apprezzando molto l’apporto di questo notevole storico cattolico democratico, su De Gasperi concordo con la tesi che si evince dal libro di Maria Romana De Gasperi.
  14. Vi furono segreti, ma forti dissensi, tra papa Pio XII e De Gasperi tra il 1951 e il 1952, specie in riferimento all’operazione detta Sturzo relativa alle elezioni comunali a Roma del 1952 in cui il papa avrebbe voluto – contro una possibile vittoria delle sinistre “in Campidoglio” – un’alleanza a destra sino al M.S.I., respinta da De Gasperi. Su ciò è soprattutto da vedere: A. RICCIARDI, Pio XII e Alcide De Gasperi, Laterza, Roma-Bari, 2003. È evidente che un’operazione del genere avrebbe fatto rientrare il M.S.I. nell’arco democratico costituzionale. Il papa voleva fare la stessa operazione fatta a destra, sempre per il Campidoglio, nel 1993, da Berlusconi leader di Forza Italia con Gianfranco Fini segretario del MSI: solo che nel 1952 dal 1945 erano passati solo sette anni.La sola opera biografica compiuta sul grande statista trentino è: P. CRAVERI, De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 2006.Dello stesso è da vedere: L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana, Marsilio, Venezia, 2016.
  15. A. AGOSTI, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza, Bari, 1971. Si confronti pure con: F. LIVORSI, Morandi oggi, “Mondo nuovo”, XIII, n. 44, 14 novembre 1971.
  16. Su ciò racconta cose interessantissime, da storico e da testimone: P. SPRIANO, Le passioni di un decennio. 1946-1956, Garzanti, Milano, 1986.
  17. F. LIVORSI, Urbano Rattazzi, in: AA.VV., Il Parlamento italiano. I. L’unificazione italiana, CEI, Milano, 1988, pp, 323-341, ma si veda poi soprattutto: C. MALANDRINO, Lineamenti del pensiero politico di Urbano Rattazzi, Giuffré, Milano, 2011; M. ISNENGHI, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Donzelli, Roma, 2007; C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, 2000, e i testi già citati di e su Giolitti e Turati.
  18. Si vedano in particolare: L. BASSO, Neocapitalismo e sinistra europea, Laterza, 1969; Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1980, che inquadrano compiutamente l’idea di alternativa democratica e di sinistra come via al socialismo; V. FOA, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, 1991, che in forma di riflessione tra amici illustra in realtà tutta una concezione profonda, socialista e libertaria, in progress, del nostro divenire sociale, dando un contributo straordinario non solo come testimone, ma per ricchezza di intuizioni geniali di pensiero politico; A. AGOSTI, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, 2013; F. LIVORSI, Dialogo sull’Italia repubblicana e sul Psiup, “Città Futura on-line”, 13 e 19 settembre 2015 e Una storia del Psiup, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2014, pp. 72-79.
  19. E. RAGIONIERI, Palmiro Togliatti. Per una biografia politica e intellettuale, Editori Riuniti, 1976, fondamentale per comprendere la dinamica profonda del pensiero-prassi di questo leader; A. AGOSTI, Togliatti, UTET, Torino, 1995, la vera biografia rigorosamente scientifica, da me discusso in: Togliatti nella storia, “Il pensiero politico”, n. 1, gennaio-aprile 1997, pp. 90-94.
  20. Nel piccolo convegno su Togliatti del 1974 già richiamato, nei dialoghi di quei giorni chiesi al compianto grande storico fiorentino che concluse i lavori, Ernesto Ragionieri, che cosa pensasse veramente Togliatti della prospettiva di un grande partito socialista che unificasse la sinistra. Ragionieri mi disse che Togliatti la considerava necessaria e inevitabile, purché però la vita interna del partito restasse regolata in base al centralismo democratico.
  21. A. LIJPHART, Le democrazie contemporanee, Il Mulino, 2014.

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