La cessione di sovranità economica «che infiniti lutti addusse» all’Italia.

Atlantia : «Nell’ipotesi di revoca, ci spetta comunque il valore residuo della concessione».

« Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti»

La canzone del Maggio, Fabrizio De Andrè

La tragedia  del crollo del ponte Morandi sopra Genova impone riflessioni  a un tempo di carattere specifico e di carattere generale. Le considerazioni specifiche sono subordinate al rispetto che le vittime ( non ancora certificate nel numero definitivo purtroppo)  e i loro familiari esigono, e alla conseguente momentanea sospensione di giudizio sulle responsabilità che dovranno essere accertate dal lavoro della magistratura in concerto con le competenze  tecniche deputate all’indagine sulle cause del disastro.

Le considerazioni di carattere più  generale presentano comunque davanti ai nostri occhi un’evidenza,  che esula dall’esito futuro dell’accertamento giudiziario delle responsabilità  del disastro, anche sulla base dei purtroppo ripetuti crolli di cavalcavia e viadotti già avvenuti a distanza ravvicinata negli ultimi anni in diverse località lungo la penisola:  le opere di manutenzione, ordinaria o straordinaria, compiute dalla società privata in concessione delle autostrade ( Società  Autostrade per l’Italia controllata da Atlantia) o dalle altre concessionarie(  27 in tutto, tra cui figurano anche gli eredi di Gavio) si sono dimostrate spesso inefficaci, insufficienti o, addirittura in alcuni casi del tutto assenti.

Tralasciamo un ‘attimo questo caso esemplare , ahimè , per la sua gravità,  e che per le sue dinamiche interne di svolgimento (configurazione del viadotto genovese  già giudicata critica dalla sua fase di progettazione e costruzione, opere di manutenzione importanti compiute solo parzialmente oltre 20 anni fa, presunte azioni di monitoraggio compiute dalla concessionaria non giudicate  dagli osservatori esterni, tecnici e ingegneri, adeguate allo stato del manufatto e alla pressione di carico di traffico attuale, 4 volte superiore alla portata stimata all’atto dell’inaugurazione, e infine l’improvvisa accelerazione della gara di bando per  nuove misure di sicurezza messa in campo solo nei mesi scorsi) potrebbe essere equiparato a una sorta di« piccolo Vajont».

La domanda fondamentale di natura  generale, che soggiace a eventi di natura cruda e terribile  quale la tragedia di Genova, è se il ritrarsi dello Stato dalla gestione diretta di arterie vitali della Repubblica quali le infrastrutture dei trasporti ( Autostrade ) o delle telecomunicazioni ( Telecom) o delle fonte energetiche (Eni,  Enel)  o l’agevolazione dell’incremento del settore privato della sanità  a scapito della sanità pubblica, o ancora in altro campo la totale privatizzazione del sistema degli istituti di credito, le banche, in una parola la generale privatizzazione di gran parte del campo dei beni comuni, non sia la manifestazione palese di una deresponsabilizzazione delle istituzioni dello Stato e della politica dalla loro funzione primaria: l’esercizio   della sovranità in nome del popolo, per la sua difesa e per la difesa del suo territorio.

Cosa ha portato a questo stato di cose? Se volessimo rispondere con una formula riassuntiva dovremmo dire: la cessione progressiva della sovranità economica dello Stato ai grandi potentati economici ( dapprima ai  mercati finanziari, poi successivamente alle multinazionali degli assets strategici dei beni comuni- trasporti, telecomunicazioni, fonti energetiche, enti finanziari, fondi pensione, editoria, etc,- ) ha comportato un parallelo progressivo svuotamento dello stato di diritto pubblico o costituzionale. La formula potrebbe essere :  cedimento sui diritti sociali( diritto al lavoro, diritto alla sanità, diritto all’istruzione gratuita, diritto alla casa, diritto a un’informazione pluralista, diritto a infrastrutture efficienti e sicure) , conseguente crollo dello Stato di diritto, tra cui il diritto all’incolumità fisica nell’utilizzo delle infrastrutture non è certo uno degli ultimi o secondari.

Uno Stato, nei suoi organismi fondamentali dell’esecutivo di governo  e del parlamento legislatore, che non può più mettere in campo politiche sociali ed economiche adeguate alle  esigenze dei tempi perché« detronizzato » dal governo della propria moneta ( governo della moneta dapprima ceduto ai mercati finanziari con il divorzio Banca Italia  -Tesoro del 1981, e poi alla costituzione della moneta unica Euro tra gli anni 90 e gli anni 2000, e dunque cessione di sovranità alla Bce e alla Commissione Europea) si è trovato progressivamente assuefatto all’idea e al costume generalizzato di delegare alle grandi società private la gestione in toto dei suoi beni pubblici , autostrade comprese.

L’idea precostituita  per cui«non ci sono i soldi » per gestire direttamente gli assets strategici dei beni comuni a causa dell’accumulo di debito pubblico ingenerato da quegli stessi mercati finanziari, ergo potentati economici,  a cui vengono svenduti i beni dello Stato, da cui la deduzione logica«lo Stato deve fare cassa», associata all’altra idea– «il pubblico è corrotto, degradato, inefficiente, mentre il privato è efficiente in quanto motivato a questa” cura dei servizi al cittadino “ dalla ricerca del profitto e dallo stimolo degli altri competitori» –  ha portato a delegare in maniera sempre più generalizzata la gestione di tali assets alle grandi holding private. Se torniamo per un attimo all’affaire  delle autostrade italiane,  vediamo che questi due mantra del«privato è bello» vengono smentiti dall’analisi dei pochi seguenti dati:   il fatturato annuo complessivo di Autostrade  per l’Italia per il 2017   ammonta a oltre 4 miliardi di euro, con un utile ( profitto) superiore ai 2 miliardi, di cui solo 280 milioni reinvestiti in opere di manutenzione ordinaria o straordinaria.

Ci dobbiamo stupire che accadano cedimenti e   crolli, fino alla tragedia del 14 agosto scorso? Eppure quel fatturato e quegli utili, ingenerati tra l’altro dall’incasso dei più alti pedaggi autostradali d’Europa, avrebbero doverosamente essere stati dirottati in maniera più generosa sulle opere necessarie di manutenzione ordinaria e straordinaria( leggi demolizione e ricostruzione,  se necessario, dei ponti pericolanti) di viadotti, gallerie, cavalcavia e affini. Tra le giustificazioni che vengono addotte per questa ridotta politica di reinvestimenti vi è anche la seguente: «gli utili devono essere redistribuiti tra tutti gli azionisti, grandi e piccoli, essendo Autostrade  per l’Italia una società per azioni quotata in borsa ».  E’ una giustificazione accettabile? Lo diventa forse solo  nella temperie culturale dell’epoca del trionfo neoliberale delle privatizzazioni, in cui   tutto sembra che debba essere concesso ai grandi gruppi privati e solo le briciole allo Stato e al pubblico, cioè a noi.

Solo questa temperie può spiegare gli incredibili termini con cui 3.000 Km di autostrade italiane (quasi  metà della rete nazionale) sono stati affidati , secondo i dati incompleti a nostra disposizione della scrittura del  contratto di concessione di gestione , alla società Autostrade  per l’Italia ( controllata dalla multinazionale  Atlantia di proprietà  dei Benetton) per trent’anni ( 2008-2038) dal ministero dei trasporti, allora diretto da Antonio di Pietro, con incredibili clausole capestro per lo Stato e laute compensazioni  economiche per Atlantia in caso di rescissione del contratto da parte del ministero. A Di Pietro,  che si è affrettato a difendere quella convenzione in dibattiti sui media nei giorni scorsi, bisognerebbe chiedere conto dei termini di quel contratto. Così come bisognerebbe chiedere conto al suo successore al dicastero, al ministro dei trasporti Del Rio, del fatto che abbia inserito in automatico una proroga di quel contratto all’interno del cosiddetto decreto Sblocca Italia, fino al 2045, senza neanche porsi la questione della rimessa in gara della concessione.

A coloro invece che nel mainstream mediatico si sono scagliati contro le dichiarazioni ufficiali del governo in carica che annunciavano la volontà di ritirare quella concessione ad Atlantia, e adducevano a sostegno delle loro critiche  l’inopportunità di quel passo e l’impossibilità di aggirare quella clausole capestro del contratto in essere, invitiamo a fare due generi di considerazione: 1) l’indignazione per un’ evidente gravissima inadempienza  nella gestione di beni vitali per la collettività, che ha portato a conseguenze così tragiche, non può essere sottaciuto o sottovalutato in nome di considerazioni di carattere leguleio; 2) il diritto privato o societario non necessariamente deve prevalere rispetto ad articoli del codice penale e del codice civile che chiamano in causa  per responsabilità di tale gravità.

Il contenzioso o la causa legale  che si aprisse tra lo Stato e la Società autostrade , potrebbe infine  dare torto a quest’ultima. Se le sue responsabilità dovessero essere accertate  dalla indagine processuale, una tale sentenza, oltre che rispondere alla sete di giustizia per le vittime , per i loro familiari, per tutti noi cittadini potenzialmente offesi da quella triste vicenda, potrebbe anche  assurgere a simbolo di un evento spartiacque, di un inversione di tendenza nell’epoca del neoliberismo trionfante. A volte accadono anche questi« doppiaggi di promontori» nel corso delle vicende storiche, anche se spesso purtroppo in seguito a fatti  di lacrime e sangue.

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