La democrazia non competitiva

Bisogna cominciare a abituarsi a un nuovo tipo di democrazia. Poco competitiva e pochissimo partecipata. Che resta nondimeno – Churchill docet – la migliore alternativa possibile. A molti, il dato dell’affluenza bassissima potrà apparire shockante. E sentiremo per qualche giorno accorati appelli al senso civico smarrito dai tre quinti di elettori che non sono andati a votare. Ma il dato era prevedibile. Per la semplicissima ragione che – per la stragrande maggioranza – il risultato era dato per scontato prima che si aprissero le urne. La formula delle alleanze era la stessa delle elezioni nazionali. Un centrodestra coeso, un centrosinistra diviso. E visto che – per fortuna – l’aritmetica non è un’opinione, non poteva che finire così. Da cui vengono due insegnamenti che terranno banco nella politica italiana.

Il primo è che il centrodestra potrà solo farsi male da solo. Fin tanto che il centrosinistra resta in balia della concorrenza interna tra tre poli, a vincere saranno sempre gli altri. Muteranno i rapporti di forza e gli equilibri tra i vari partiti, la leadership toccherà ora ad uno e ora a un altro. Ma l’esito non cambierà. Al governo ci andrà il centrodestra. L’unico vero problema è che l’irrilevanza dell’opposizione farà inevitabilmente lievitare le baruffe nello schieramento vincente. E la spartizione del potere diventerà sempre più farraginosa. E, in qualche situazione, rischiosa. Lo si sta vedendo in questi giorni con l’uscita di Berlusconi contro Zelensky, su un terreno strategico come le alleanze internazionali. Ma anche i contrasti più eclatanti verranno in qualche modo sanati se non ci sono le condizioni – i numeri – per un’alleanza alternativa. E il verdetto di ieri ha ribadito che i numeri sono nettamente per il centrodestra.

Però – è il secondo insegnamento – i numeri, in valori assoluti, sono esigui. Entrambi i governatori oggi al comando di due regioni chiave del paese sanno che possono contare sul favore di un quinto dell’elettorato. Soltanto un cittadino su cinque li ha indicati esplicitamente sulla scheda. Gli altri quattro sono contro o in silenzio. E, quel che è peggio, è difficile dare loro voce. L’afasia del centrosinistra diventa tanto più grave in un contesto con un’astensione così alta. È la conferma di un’incapacità drammatica di intercettare i cambiamenti profondi del tessuto sociale nazionale. E di essere ormai prigioniero della propria autoreferenzialità.

Serve poco, anzi non serve a niente mettersi adesso a fare la conta di chi – per dirla con Damilano – ha perduto più forte. Consolarsi – come sembra fare Letta – che sarebbe fallita l’opa sul Pd. O ribadire che il cosiddetto Terzo Polo è in cammino verso la meta, salvo non saper dire come e quando potrà fingere di intravederla. È più serio cominciare a riflettere sul fatto che il sistema politico sta entrando in una nuova fase, di democrazia non competitiva. Non sappiamo quanto durerà, ma sarebbe bene comprenderne alcuni tratti costitutivi. E il più importante è che si stanno sgretolando le basi del consenso di massa.

Negli stessi giorni in cui Sanremo fa registrare il record storico di ascolti e milioni di spettatori restano ore e ore incollati davanti ai teleschermi, è calato vertiginosamente l’ascolto dei partiti politici. Al punto che la maggioranza ha preferito restarsene a casa in silenzio. Non spendere la mezz’ora necessaria a esprimere la propria indicazione su chi – per i prossimi cinque anni – avrebbe retto le redini dell’esecutivo regionale. Peter Mair, uno dei più noti studiosi del declino dei partiti, intitolò il suo ultimo libro: Governare il vuoto. Resta questa la vera incognita della democrazia senza elettori.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 13 febbraio 2023)

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