Premier delle mie brame

La riforma costituzionale presentata dal governo ha un obiettivo condiviso, ormai, da un ampio schieramento, politico e intellettuale: il rafforzamento del Presidente del Consiglio. È improbabile che, su questo punto, si possa oggi formare nel paese lo stesso fronte trasversale che impallinò, nell’urna referendaria, il tentativo di Matteo Renzi. Anzi, alcuni sondaggi suggeriscono che, nell’elettorato, l’idea di un capo più forte sia diventata maggioritaria. Al consenso sull’obiettivo non sembra, però, corrispondere un accordo su come raggiungerlo. Da parte dell’opposizione, ma anche all’interno della stessa coalizione in carica.

I commenti di opinionisti e costituzionalisti hanno riguardato molti aspetti del testo che andrà in discussione alle Camere. C’è chi ha notato che, per non intaccare le prerogative formali del capo dello Stato, al nuovo premier verrebbe negata la possibilità di scegliere e licenziare i ministri, che sarebbe stata, invece, una novità importantissima. Al tempo stesso, però, per il Presidente della Repubblica, la nomina del Premier si ridurrebbe a una ratifica notarile. In conclusione, verrebbero scontentati entrambi i vertici istituzionali.

Inoltre, la certezza dell’indicazione preventiva del capo del governo, all’atto pratico, resta illusoria. In un sistema di multipartitismo frammentato e volatile come il nostro, scrivere un nome sulla scheda rischia di essere un autogol. Che succederebbe se, nelle urne, risultasse più forte il partito il cui leader non era stato designato Premier? Alle ultime elezioni ha funzionato l’accordo – informale ma molto efficace – per cui la lista con più voti avrebbe indicato il presidente del Consiglio da sottoporre alla ratifica del Quirinale. Ingessare, invece, prima la scelta potrebbe portare a sorprese che diventerebbero ingestibili.

Non meno perplessi lascia la norma che prevede un solo caso di sfiducia durante tutta la legislatura, per giunta perimetrata alla scelta del nuovo premier dai ranghi della vecchia maggioranza. E senza alcun cambiamento nel programma. In pratica, si tratterebbe di un avvicendamento all’interno della medesima coalizione, sul modello della staffetta all’epoca di Craxi e De Mita. Che portò alla deflagrazione del primo centrosinistra. Qualcuno, memore di quell’esperienza, ha suggerito che possa rivelarsi una tagliola – o trappolone – sul capo del Presidente del Consiglio in carica.

Si potrebbe continuare a elencare i rilievi che sono fioccati, sapendo che, però, il Parlamento ha i poteri e il tempo per cambiare o bocciare il testo in esame. Tuttavia, conoscendo i precedenti e la litigiosità delle forze politiche, è difficile che si riesca a raggiungere una quadra. E c’è il rischio che una riforma mal congegnata finisca nel frullatore referendario. Se passasse, è probabile che l’esito sarebbe un cortocircuito dei poteri. Se, invece, venisse bocciata è difficile che non ci siano conseguenze per l’immagine della Premier. E a questo punto che sorge la domanda: ma siamo certi che a Giorgia Meloni convenga che questo progetto vada in porto?

Come ha scritto Sabino Cassese, «il vero tallone d’Achille dei governi italiani è la durata. Il governo italiano è uno dei più potenti. Diventa debole perché dura poco, non perché sia debole in sé». Negli ultimi trent’anni, l’esecutivo repubblicano ha invertito il trend che lo vedeva cenerentola nel panorama europeo, e lo ha fatto a costituzione invariata. Rafforzando il Presidente del Consiglio non con dei cambiamenti formali, ma nei processi politici reali. A cominciare dalle leve decisionali e legislative concentrate sempre più nel Primo ministro, e grazie alla supremazia conquistata dai leader nei rispettivi partiti, diventando i principali depositari del consenso elettorale. Sono questi i due poteri che Giorgia Meloni deve oggi presidiare e consolidare.

Per riuscire a tenere saldamente sotto il proprio controllo una macchina esecutiva complessa e ramificata è necessaria una conoscenza – e lealtà – di quel deep state che implementa le decisioni di vertice. E, malgrado le sue doti di leadership e comunicatrice, alla Meloni serve ancora tempo per addomesticare questo fronte. Al tempo stesso, i fattori che hanno favorito la sua ascesa mediatica sono, per natura, mutevoli. La forza del Premier in Italia, molto più che sui marchingegni istituzionali, si poggia sulla popolarità. È improbabile che quella della Meloni possa giovarsi di una battaglia costituzionale dall’esito incerto e contrastato.

di Mauro Calise
(“Il Mattino”, 6 novembre 2023)

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