Renzi dopo il renzismo

Mauro Calise

La risposta di Renzi alla sconfitta – piaccia o meno – ha avuto il merito della chiarezza. Come già nelle due passate occasioni in cui era stato battuto sul campo – nella prima sfida con Bersani e al referendum costituzionale – il leader Pd ha accettato di fare un passo indietro. Ma solo per cercare di farne – prima o poi – un altro avanti. Le dimissioni che tutti si aspettavano sono arrivate. Ma a tempo indeterminato. Diventeranno effettive solo dopo le trattative per l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, e aspetteranno anche la formazione – se e quando ci sarà – del governo. In questa lunga – delicatissima – fase, sarà Renzi a tenere in mano il boccino. A dettare la linea del Pd, in pubblico e nelle consultazioni. Una linea di netta intransigenza. Niente inciuci con gli estremisti, vale a dire né con la Lega né coi Cinquestelle. Il Pd resterà all’opposizione. Se l’uno o l’altro dei due partiti – che Renzi ha sprezzantemente etichettato, anche ieri, come anti-sistema – vorrà formare una maggioranza, non potrà contare sulla stampella dei democratici.

Almeno, non con l’avallo del suo segretario. Perché il punto che ora resta da chiarire è se ci sono – e quanto numerosi – tra i deputati e i senatori Pd quelli che, invece, erano disponibili ad offrire un aiutino. E magari lo sono ancora. Le voci girate in giornata di una minoranza Pd già pronta a saltare il fosso e appoggiare – all’inizio dall’esterno – un esecutivo cinquestelle, sono certo all’origine dei toni molto bruschi che il segretario ha usato contro le ipotesi alternative sulla sua uscita di scena. Niente caminetti e, soprattutto, niente reggenti per la segreteria. Vale a dire, nessuna soluzione concordata dietro le quinte dai capicorrente e dai ministri più influenti. E – molto probabilmente – avallata dal capo dello Stato. Che questo fosse il tranello che Renzi ha cercato di evitare lo si è capito dalla reazione contrariata e immediata di un franceschiniano di peso come Zanda. E da quella stizzita di Di Battista, che lascia trapelare il disappunto di una leadership cinquestelle che pensava di potersi aprire un varco numerico tra i parlamentari in subbuglio del Pd.

Lo scontro interno è aggravato dal fatto che Renzi, nel suo discorso, non ha fatto sconti a nessuno. Né ai suoi nemici, cui ha rinfacciato i toni aggressivi e infamanti con cui hanno condotto la loro campagna. Né al governo Gentiloni, che non ha mai nominato se non per rimarcare la sconfitta di uno dei suoi ministri più autorevoli, battuto da un candidato cinquestelle dichiarato – dallo stesso Di Maio – impresentabile. Né Renzi ha risparmiato una critica – forse la più rilevante – a Mattarella, chiamato indirettamente in causa per non aver consentito si votasse qualche mese fa, in una delle due finestre europee, insieme ai francesi o ai tedeschi. Non permettendo al Pd di schierarsi – in un momento di grande visibilità internazionale – saldamente a difesa dell’Europa prendendo meglio di petto i partiti – Lega e Cinquestelle – che, invece, sull’antieuropeismo hanno continuato a marciare.

E’ inutile nasconderselo. Rispetto alle due sconfitte precedenti, la rinascita di Renzi dalle ceneri, stavolta, appare molto più difficile. Però, per quanti già si affrettano a celebrare la sua caduta e l’ascesa dei nuovi capi populisti, proprio la vicenda di Renzi dovrebbe suggerire cautela. In due anni, il segretario Pd ha dilapidato un patrimonio straordinario di popolarità. Con una lista di errori imperdonabili. Ma anche dovendo lottare contro il vento contrario della Storia, che ha ridotto – nello stesso lasso di tempo – i socialisti francesi e tedeschi perfino peggio del Pd italiano. Che la ricetta contro questa crisi epocale dei nostri regimi democratici possano avercela i sovranisti alla Salvini o gli ex-vaffa e neobuonisti alla Di Maio resta tutto da dimostrare. Quello che Renzi ha rivendicato – a ragione – è il diritto alla coerenza. Tra i vizi – tanti – che ha dimostrato di avere, non c’è quello di cambiare bandiera. In cinque anni ha portato avanti un progetto istituzionale e di governo che ha prodotto grandi cambiamenti, e qualche illusione di troppo. Nel referendum e nelle elezioni di domenica, è stato sconfitto nelle urne. Che sia stato definitivamente sepolto, è presto per poterlo dire. Renzi, nel messaggio di ieri, ha ribadito che ci crede ancora.

               (“Il Mattino”, 6 marzo 2018)