Tre guerre

Si stanno combattendo tre guerre. Quella mediatica Putin l’ha persa subito, quella economica sta devastando il suo popolo. È pensabile che si rassegni a perdere anche quella militare, l’unica nella quale – al momento – ha uno schiacciante vantaggio? Il rebus della tragedia ucraina è nell’intreccio tra questi tre fronti. Se c’è una tenue speranza di uscire dal cul de sac in cui siamo tutti finiti, è provando ad affrontarli insieme. Ma c’è qualcuno in Occidente che lo vuole? La risposta che sta prevalendo è inchiodare lo Zar alla disfatta mediatica e socioeconomica, lasciandogli le macerie dell’Ucraina e il calvario di una guerriglia partigiana armata dagli americani per logorarlo nel corpo a corpo. Facendo nascere un nuovo Vietnam a un passo dai nostri confini. Come siamo arrivati nel giro di pochi giorni a questo baratro?

Si è fatta una comprensibile ironia sull’ideologia ottocentesca panslava con cui Putin ha provato a giustificare l’invasione e annessione dell’Ucraina. Ma l’errore più clamoroso non era nel messaggio, ma nel modo e nei canali con cui era formulato. Non era certo migliore e più plausibile il paravento dietro cui Bush jr ha scagliato il bombardamento a tappeto dell’Iraq, innescando vent’anni di stragi. O quello con cui è stata imbastita l’occupazione dell’Afghanistan, con i costi e l’esito che oggi ben conosciamo. Ma in quelle guerre – come in molte altre combattute in questo secolo – la comunicazione era unilaterale e unidirezionale. A parlare erano solo gli invasori. E le immagini dominanti erano quelle di chi sganciava le bombe, con buona pace di chi ci capitava sotto. Al contrario, nella sua blitzkrieg Putin si è subito scontrato con un poderoso sbarramento mediatico. A fronte delle sue impacciate e rade apparizioni televisive, un furioso contrattacco alzo zero su tutti i social e tutte le emittenti che veicolavano in milioni di immagini la medesima ribellione al suo attacco. Da come lo Zar ha reagito, è evidente che non se lo aspettava. E una guerra che era cominciata anche per riscattare un’immagine che molti russi sentono umiliata, si è trasformata in una gogna mediatica da cui nessuno sa come e quando la Russia si potrà riprendere.

È probabile che Putin sia stato preso in contropiede anche dalla rapidità e compattezza delle sanzioni. Qui la sorpresa è più sorprendente. Erano mesi che gli inviati di Biden battevano le cancellerie europee per spingerle ad armare gli ucraini e a reagire con la tagliola finanziaria. Non c’è dubbio che la reazione mediatica ha funzionato da acceleratore delle scelte dei governi Nato. DI fronte a un’opinione pubblica così immediatamente schierata le elite di governo hanno messo subito da parte ogni cautela. Potevano fare altrimenti? Saranno gli storici a dirlo. Certo, è la prima guerra in cui l’impatto della comunicazione bottom-up è così dirompente e onnipotente. La prima guerra veramente social, con i media tradizionali che al più possono andare a rimorchio. Questa saldatura è stata agevolata e rafforzata dal silenzio del fronte opposto. A parte le manifestazioni dissidenti in qualche piazza metropolitana, sappiamo poco di quanto le sanzioni stiano mordendo nel corpo vivo del paese. E poco, in verità, sembra importare ai nostri opinion maker. L’attenzione si concentra sulle ville pignorate degli oligarchi, sperando in una rivolta dei boiardi. Ma una posta in gioco ben più tragica riguarda il destino di milioni di russi già in condizioni precarie e che pagheranno un prezzo altissimo al tonfo della loro economia. L’unico – terribile – segnale di questo prezzo è nella frase di Putin che «le sanzioni economiche sono una dichiarazione di guerra». Cosa significhi questa affermazione, e dove porti, è l’interrogativo da sciogliere. Al più presto.

Qui si fronteggiano due strategie. L’America ha già scelto da tempo. Quando ha cominciato a equipaggiare l’Ucraina con armamenti leggeri, ha messo in conto che era impossibile contenere lo sfondamento iniziale. Molto meglio puntare su una lunga guerriglia di logoramento. Vista da Washington, l’Ucraina resta una lontana provincia dell’Impero. Per l’Europa, invece, è dentro casa. A cominciare dai profughi in arrivo a milioni nelle nostre città. Accolti oggi con generosità. Ma chi può prevedere le tensioni che in poco tempo si innescheranno, quanto a lungo resteranno compiacenti quei partiti che sull’immigrazione non più tardi di due anni fa ammucchiavano consensi e odio? Dentro casa è anche il riarmo in cui tutti ci stiamo avventurando, ribaltando il caposaldo ideale col quale e per il quale sono cresciuti vent’anni i nostri giovani. Già, che ne sarà della generazione Greta, degli orizzonti verso i quali sembrava – appena qualche settimana fa – che fossimo tutti incamminati?

E dentro casa nostra è la Russia. Ieri il New York Times ricordava che l’Europa ha impiegato trent’anni per creare uno stabile legame commerciale, industriale e culturale coi russi, e sette giorni per disintegrarlo. La Russia è tornata ad essere il Nemico. Un nemico con le spalle al muro, mediaticamente ed economicamente. Ma con una potenza militare intatta. E un interrogativo che incrocia il nostro destino. Quanto potrà durare la pretesa occidentale che costringere alla fame la seconda potenza nucleare del globo non riguardi anche quell’arsenale?

di Mauro Calise.

“Il Mattino”, 7 marzo 2022.

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