Bigger than life

È chiaro che sto parlando del Cinema, quello importante che ci aiuta in certe serate uggiose a sognare, a pensare alto.

L’espressione venne di moda, credo, da parte di certi critici cinematografici americani, e si riferiva principalmente all’opera di Orson Welles.

È evidente che mi riferisco all’opera immortale “Citizen Kane”, che nel 1940/41 scoppiò come una bomba sugli schermi americani: era la falsariga delle vicende umane dell’editore Hearst, uno dei magnati dell’inizio del ventesimo secolo. E ce ne saranno tanti…

Orson Welles costruisce un personaggio di una potenza e di una forza formidabili, il quale durante il corso della sua vita potrà comprare tutto ciò che vuole, avere qualunque cosa, ma alla fine rimarrà solo, in mezzo a tutto l’immenso materiale che ha acquistato, ricordando un piccolo “bocciolo di rosa” della sua infanzia.

È sicuramente un personaggio “bigger than life”, un personaggio per cui la vita diventa una sfida che bisogna vincere ad ogni costo, i rivali vanno abbattuti uno ad uno, e per il suo Sogno rischierà di essere solo, e questo infatti avverrà.

Un altro personaggio formidabile del cinema di Welles è “L’infernale Quinlan”, il terribile, sordido poliziotto che costruisce i suoi casi ad arte, falsifica le prove, compie crimini all’interno del suo distretto, ma, attenzione, alla fine risulta che non sbaglia mai un caso e che tutti i criminali di cui si occupa vengono processati e condannati.  Una sorta di spada che vibra un colpo apparentemente sbagliato, ma infallibile nei risultati.

Ma non è solo Welles che nel cinema mondiale rappresenta questo tipo di character, anche un altro americano (d’origine) come Stanley Kubrick è capace di raggiungere vette olimpiche nella creazione di persone e oggetti smisurati, fuori da ogni ordine umano.

Il perfetto monolito di “2001: Odissea nello Spazio” allude a qualcosa di eterno, di mirabilmente costruito, immutabile nei secoli, forse, perché no, Dio.

Ma come possiamo dimenticare un personaggio come “Spartacus”, così straordinariamente interpretato da Kirk Douglas, in cui lo schiavo Trace, in catene, si trasforma progressivamente in un “leader maximo”, con una sorta di liberazione che lo porta da schiavo a uomo libero e poi, attraverso una lunga riflessione interiore, a martire, di fronte ad una sconfitta che idealmente non lo è.

Riavvolgendo il filo della pellicola della storia del cinema, mi sembra inevitabile parlare di un regista come Fritz Lang, che, specialmente nel suo ciclo tedesco, produce dei personaggi memorabili come il “Doktor Mabuse Der Spieler“, che tornerà più volte nella sua filmografia.

Ma sicuramente il personaggio più memorabile è il piccolo, stravolto Peter Lorre di “M. – il mostro di Düsseldorf”, in cui gruppi di banditi si sostituiscono alla polizia e un coro di madri, un coro quasi greco, scandisce la condanna di un mostro infanticida, che, per autoassolversi, sostiene di possedere dentro di sé una forza che lo spinge ad uccidere.

Sull’altro fronte, c’è il cinema sovietico, un’altra immagine potente che supera la realtà e ci porta verso un mondo di uguaglianza e fratellanza, e cioè il momento in cui la corazzata “Potemkin” passa indenne attraverso la flotta del Mar Nero e i suoi marinai, lanciando i berretti in aria, gridano rivolti a quelli di tutta la flotta: “Fratelli! Fratelli!”.

Una bellezza irraggiungibile.

E il cinema italiano? Anch’esso corrobora questo senso di ampiezza, di grandezza che sembra io vada cercando nel cinema come una guida superiore.

Di quelli che io considero i tre grandi del cinema italiano, partirei con “Ossessione” di Luchino Visconti (1943), in cui il concetto di amore e morte viene portato a livelli elevatissimi, precedendo i temi cari al successivo neorealismo.

Per quanto riguarda Michelangelo Antonioni, trovo che il suo “Blow-up” sia il più bel manifesto europeo sulla “Swinging London” degli anni ’60, nettamente superiore ai film inglesi dell’epoca, e non ho dubbi in merito.

Ma colui che dà veramente il là all’immaginazione irrefrenabile delle sue pellicole è Federico Fellini, che, nella “Dolce Vita” (1960) ed ancor di più in “8 e ½” (1963), crea un mondo circense in cui i vari elementi della sua immaginazione creativa si compongono in un mosaico che non riuscirà mai più a ricostruire con lo stesso effetto.

Cosa significa dunque “bigger than life”? Sfuggire alla realtà statica di tutti i giorni, non lasciarsi catturare dalla ripetizione, dalla noia, talora dalla stupidità di chi non vede oltre il proprio naso e quindi non è capace di dare sfogo alla propria immaginazione ed alla visione di altri mondi possibili.

Il Cinema ci permette tutto questo, e, quando raggiunge certi livelli, ci porta ad una sorta di estasi, che ci conferma come esso sia veramente un’Arte, la più recente e forse la più convincente.

Giorgio Penzo

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