Il capitalismo in terra sconosciuta

LA CRISI DEGLI ANNI ’70.

La attuale situazione economica, per essere compresa, necessita lo sforzo di rivisitare la storia economica, a grandi linee, sopratutto dei paesi occidentali, degli ultimi cinquant’anni. Siamo stretti fra due grandi crisi economiche, una avvenuta dodici anni fa, nel 2007 – 2008, che ha incrinato il primato delle economie dei grandi paesi anglosassoni, e quella attuale del 2020, che ha una doppia natura; commerciale; perché è in atto un rallentamento degli scambi di merci internazionale seguito da un primo timido rientro nelle patrie di origine di molti insediamenti produttivi situati all’estero; e una causa sanitaria, derivata dalla forte pandemia del coronavirus.

Proviamo, per capire ciò che ci accade, a descrivere succintamente il clima economico che si crea subito dopo la seconda guerra mondiale. La straordinaria crescita del dopoguerra, anni chiamati i ‘trenta gloriosi’ da parte della pubblicistica francese perché il periodo di cui parliamo si situa fra il ’45 e il ’75 circa del secolo scorso, è caratterizzato da questi elementi che ora in modo scarno elenco:

  • Nell’immediato dopoguerra vi era una grande quantità di lavoro, generalmente maschile, per gran parte poco specializzato e a basso prezzo.
  • Le economie dell’Europa Occidentale erano semi distrutte e si aprivano spazi di crescita materiale e dei consumi, e di conseguenza dei profitti, enorme.
  • Gli Stati Uniti decidono di forzare l’economia in senso opposto rispetto alle scelte inadeguate prese 25 anni prima a Versailles dai grandi attori della pace di allora; ovvero, diversamente che dall’immediata fine della ‘Grande Guerra’, vi fu un rifiuto della politica della deflazione, e si coinvolse, egemonicamente, tutti gli alleati europei in una nuova espansione economica reflattiva.
  • Questa scelta di strategia economica era necessaria politicamente per contrastare l’avanzare delle forze sovietiche e del movimento comunista, che senza grandi atti ‘contro-egemonici’ da parte del mondo liberale, potevano, con il fascino conquistato durante il conflitto per aver sconfitto il nazi – fascismo, espandere la loro influenza nell’Occidente europeo.
  • In ultimo, a favorire una rapida espansione economica vi era il basso costo delle materie prime, ancora controllate dai grandi paesi Occidentali grazie alla eredità dell’epoca coloniale, e la scelta di favorire gli scambi economici e i commerci grazie ad un sistema di cambi fissi che favorì la crescita economica durata circa tre decenni.

Dunque, i ‘trenta gloriosi’ si reggono su alcuni dati fondamentali, di cui il primo era la reflazione favorita dalla spesa militare americana e poi dallo sforzo per la ricostruzione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi. Il secondo elemento era dato dal fatto che la domanda cresce in virtù della crescita degli investimenti pur con salari bassi, anzi, sono proprio questi salari bassi che favoriscono il mantenimento di un alto saggio del profitto e di conseguenza trascinano gli investimenti e di conseguenza la domanda aggregata. Infine, va segnalato come il paese guida dell’Occidente, gli USA, restano fino ai primi anni ’60 creditori rispetto al mondo esterno, consentendo di reinvestire così capitali importanti per l’espansione della domanda mondiale.

IL CAMBIAMENTO NEGLI ANNI  ’60.

Già nella prima metà degli anni ’60 gli USA non sono più un paese creditore, le posizioni commerciali di Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia e Giappone si rafforzano insidiando il primato produttivo dell’America. A questo dato va sommato l’esplodere della spesa militare americana, ( la guerra del Vietnam), e l’aumento della spesa sociale dovuta sopratutto ai programmi a favore dei ceti medi proposti da Kennedy e da Lindon Johnson. La necessaria espansione monetaria, utile per coprire le necessità di bilancio dello Stato Americano e delle sue molteplici funzioni e impegni internazionali, non possono non causare la crisi del dollaro. Il dollaro, alla fine degli anni sessanta, è una moneta internazionale, misura del valore e strumento di tesorizzazione per mezzo mondo, eppure è anche la banconota di un paese indebitato in termini di bilancia commerciale e dei pagamenti. Per mantenere il primato mondiale nella regolazione dei mercati monetari e sostenere al contempo i propri impegni militari e statuali degni di una grande potenza mondiale, gli Stati Uniti decidono di svalutare la moneta in maniera definitiva nell’agosto del 1971, quando il Presidente Nixon annuncia la non convertibilità del dollaro con l’oro. L’intero sistema monetario mondiale ne viene, nell’arco di pochi anni, sconvolto; il regime di cambi fissi su cui si regolavano gli scambi commerciali mondiali si incrina, e così ogni paese reagisce al nuovo clima imperante negli scambi internazionali tornando ad utilizzare le svalutazioni competitive per difendere il proprio surplus commerciale o per riequilibrare la propria bilancia dei pagamenti. Inoltre, la piena occupazione che alla fine degli anni sessanta alza il livello generale dei salari diminuisce il tasso dei profitti. Inizia la crisi dei beni durevoli che reggeva la produzione fordista negli anni di maggiore espansione del sistema.

Si fa pressante l’esigenza di una ristrutturazione industriale che riduca i costi e spiazzi le richieste sindacali e della forza lavoro. La crisi petrolifera del 1973 – 74 pone un altro ulteriore problema, quello dell’aumento del costo delle materie prime, dovuto al minor controllo da parte dei paesi occidentali delle ex colonie di un tempo. In sostanza accade questo; inflazione e aumento delle spese statali per tamponare la crisi, difficoltà sempre crescente ad innescare i vecchi meccanismi dell’espansione della domanda, primi ‘scioperi’ degli investimenti da parte della classe imprenditoriale. Infine, minore impegno dei prestatori di denaro, data l’inflazione verso il credito per gli investimenti produttivi. Si dà, dunque, inflazione da costi e da eccesso di massa monetaria e stagnazione per scarsezza degli investimenti. Ecco la ‘stagflazione’.

‘LA CHIAVE PER CAPIRE’

Nel 1967 Joan Robinson, grande economista inglese che si laureo in economia a Cambridge e fu collaboratrice di Keynes per molti anni, pubblicò un piccolo volume dal titolo un po’ asettico, ‘ L’economia a una svolta difficile’, pubblicato in Italia dalla Einaudi, nel quale anticipò tutti i temi che stavano generando la crisi che imperverserà negli anni 70’. La Robinson individua già nel rialzo dei salari e dei prezzi relativi e nella minore capacità dei paesi Occidentali di controllare i prezzi delle materie prime nei paesi un tempo colonie, l’inizio delle tensioni inflattive che tendevano già allora ad essere curate con dosi di deflazione e austerità. Il sistema capitalistico si dimostra incapace di gestire a lungo la piena occupazione senza cadere in una fase di calo dei profitti e dunque, di relativo disimpegno dagli investimenti produttivi. La Robinson individua inoltre le contraddizioni del sistema monetario internazionale costruito a Bretton Woods, il quale non può reggere alle tensioni sulle bilance dei pagamenti dei vari paesi, ad un ritorno del mercantilismo e della competizione fra nazioni che non possono portare che ad una guerra di svalutazioni reciproche e ad una generale deflazione delle varie economie. In tale contesto, il passaggio del 1971, quando gli Stati Uniti decisero di por fine alla parità fra dollaro e oro, sanciva il desiderio della massima potenza mondiale di non finanziare più una espansione delle economie degli alleati Occidentali, ma semmai tesero a produrre una svalutazione e un relativo processo inflattivo che ridusse in valore reale i debiti commerciali degli USA, e costrinse le altre economie, ( europee e quella nipponica in primis), a rallentare il proprio sviluppo al fine di pareggiare le bilance dei pagamenti e a frenare il processo inflattivo.

La crisi degli anni ’70 a solo apparentemente cause esogene, ovvero esterne al processo produttivo. La Robinson intuisce il fatto che non si tratta solo di porre un freno al neomercantilismo negli scambi internazionali e di adeguare la crescita dell’offerta alla domanda al fine di non provocare inflazione e mantenere allo stesso tempo la piena occupazione. L’ economista inglese si rende ben conto che la nuova crisi, dentro il più straordinario periodo di opulenza e di sviluppo che il capitalismo abbia mai realizzato, è originato dal fatto che il ‘sistema’ ricerca la piena occuapazione per ragioni economiche e per ricercare stabilità sociale e politica, ma nessuno si pone il problema di cosa si dovrà far fare a tutti gli occupati una volta che li si ponga in attività. Il punto sarà di nuovo espresso da Joan Robinson in un suo breve saggio pubblicato nel ’72, intitolato ‘La seconda crisi della teoria economica’, quando la professoressa di Cambridge svela la crisi del pensiero ‘ibrido’ dei neoclassici keynesiani, i quali erano convinti che lo stato dovesse sostenere la domanda con tutti i mezzi al fine di attivare tutti i fattori produttivi, ma che una volta fatto ciò toccava al mercato scegliere su quali merci dirigere gli investimenti. Il fatto era che le imprese, industriali e bancarie, non coglievano interesse nel produrre beni per la collettività e non accettavano di tenere alti gli investimenti se il tasso di profitto era eroso dalla crescita dei salari. La Robinson riteneva, dunque, utile pensare a cosa dovesse servire la piena occupazione, quali beni si dovessero produrre per porre in sicurezza la società, per soddisfare bisogni sociali di cui il mercato non intendeva occuparsi. Ciò richiedeva di porre la questione di una vasta socializzazione degli investimenti e di dare allo stato il ruolo di ‘occupatore di ultima istanza’. Diversamente, se la decisione di quali merci si dovevano produrre restava in capo al capitale era gioco forza che questo non avrebbe tollerato a lungo la rincorsa prezzi salari, l’inflazione e l’erosione dei profitti, e presto avrebbe preteso una forte ristrutturazione del sistema produttivo a danno del lavoro e una stretta alla spesa sociale e alla piena occupazione. E ciò che puntualmente accadde lungo il corso degli anni settanta e nei primi anni ottanta. Ma questo è già il mondo di oggi di cui occorrerà discorrere in un altro intervento.

LA RIVOLUZIONE LIBERISTA

IL CAPITALISMO ENTRA IN UNA TERRA SCONOSCIUTA.

La crisi degli anni ’70 dà ragione alla previsione di Kalecki che proprio in un suo scritto del 1943[1] affermava come ‘in un regime di permanente pieno impiego il licenziamento non avrebbe più la sua funzione di misura disciplinare. La posizione sociale del padrone verrebbe messa in crisi e aumenterebbe la sicurezza e la coscienza di classe della classe lavoratrice’. Inoltre va aggiunto che la piena occupazione gravava non solo sul controllo politico e sociale della forza lavoro ma costituiva un problema per la gestione dei livelli del profitto. Riccardo Bellofiore nel recente libro su Smith e Marx[2] ci descrive i motivi dell’arretramento e della crisi più specificamente utilizzando per descrivere il processo di degradazione economica il concetto di conflitto. Fra la metà degli anni sessanta e settanta gli elementi di tensione e di conflitto che si pongono a vari livelli nel sistema economico mondiale non sono più contenibili. Vi è il conflitto fra la finanza americana che lotta per la libertà dei capitali e gli stati che cercano di mantenere una gestione sociale e ordinata dell’economia; il conflitto fra capitalismi occidentali, ovvero fra gli USA e il Giappone e la Germania dall’altra; la tensione crescente fra paesi produttori di materie prime e paesi avanzati consumatori di ultima istanza di queste. Infine ci ricorda Bellofiore ‘ per l’importanza centrale che ha il lavoro l’antagonismo sociale: non soltanto sul terreno distribuzione, dunque del salario, ma anche su quello della produzione, e quindi dell’organizzazione del lavoro e della prestazione lavorativa’. Bellofiore cita nel suo saggio altre spiegazioni della crisi, ‘Perché quel sistema va in crisi. Quello che crediamo di sapere, quello che ci viene detto, è che va in crisi per la saturazione del mercato dei beni di consumo di massa, per l’aumento dei prezzi delle materie prime, perché lo sviluppo diviene una strada sbarrata per il limite ambientale. C’è del vero evidentemente in tutto ciò: come c’è però, spesso, del vero anche nelle interpretazioni sbagliate’ [3]. Infatti, il nostro autore propende per il concetto di conflitto, nella accezione pluriversa sopra descritta, per dare una spiegazione della crisi, avente dunque, una causa prima e determinante che innesca l’intero processo di blocco dello sviluppo economico. Altri autori hanno descritto la dinamica di crisi resa manifesta negli anni settanta e ne parleremo fra poco. Credo che la chiave di lettura vada ricercata nell’eccesso di investimento che si crea lungo gli anni sessanta nella produzione materiale, e che, per limiti sociali, ( le lotte operaie intense degli anni sessanta), e per limiti ambientali e produttivi, ( i limiti alla espansione economica determinata dalla crisi ambientale e la saturazione dei mercati dei beni durevoli), non garantiscono più i sovraprofitti che erano usuali ottenere nei decenni precedenti.

Il calo del saggio del profitto libera capitali che non si reimpiegano più nella produzione materiale e industriale, ma richiedono viceversa disponibilità speculative sui mercati privati dei titoli a livello mondiale e nuove occasioni di speculazione anche verso i titoli del debito pubblico. Da queste esigenze impellenti del reimpiego fruttuoso dei capitali in eccesso si determinano la necessità di conquistare libertà di movimenti dei capitali a livello mondiale e cadono le strette relazioni intercorrenti fra le banche nazionali e le esigenze di finanziamento dei debiti nazionali.

Inoltre, si deve tenere conto della crisi monetaria determinata dalla fine degli accordi di Bretton Woods. Il deprezzamento del dollaro non consente più a molti paesi occidentali di regolare con efficacia gli squilibri della bilancia dei pagamenti, determinando così politiche deflazioniste per curare i mali dei regolamenti monetari internazionali e le perdite di valuta pregiata, e inoltre, si favorisce quella creazione di massa monetaria sganciata dai dati reali della economia che faciliterà l’espansione della speculazione finanziaria sopra descritta.

Dunque, sovrainvestimento e crescita della forza sindacale, crisi dei rapporti con i paesi produttori e relative spinte inflazioniste, crisi monetaria del dollaro provocano un rallentamento dei meccanismi classici dello sviluppo capitalistico, quando non un blocco degli investimenti privati pur in presenza di frequenti tentativi da parte delle politiche pubbliche di intervenire con la spesa statale per tamponare gli effetti negativi della congiuntura e preparare la ripresa. Oltre all’aumento dei salari, alla scarsa capacità di ‘governare la fabbrica’ da parte delle imprese, è un risorgente mercantilismo[4] che impedisce al sistema di ritrovare la via della espansione della domanda interna in ogni paese.

Tuttavia, la nuova forma della crisi non significa affatto un ritorno puro e semplice alle politiche liberiste dell’ottocento o alla adesione pura al modello neo – liberista di Hajeck o di Friedman[5].

Il sistema capitalistico ha ormai introiettato il tema strategico del sostegno alla domanda aggregata in modo da non trascinare il sistema verso crisi distruttive e laceranti. Semmai, ciò che è in gioco, è il modo in cui si alimenta la domanda[6], anche per via pubblica, ovvero, che gli investimenti decisi dallo stato, l’espansione dell’intervento pubblico, banca centrale compresa nella sua funzione politica di regolazione dei tassi d’interesse e delle masse monetarie, siano sempre strumenti attuati nell’interesse dell’espansione dei mercati in cui agiscono i grandi oligopoli privati e sui i quali ottengono crescenti profitti. E’ il modo di alimentare la domanda che cambia nel passaggio della crisi di stagnazione – inflazione che domina il periodo anni ’70- ’80, e non la soppressione del controllo di questa da parte dei poteri pubblici e del grande capitale finanziario. In sostanza si modifica il rapporto che vi è fra mercato e stato, piuttosto che un protagonismo assoluto del mercato che soppianta lo stato. Infatti, il mercato resta regolato da poteri pubblici, che diversamente dalla fase precedente, sono concentrati non più nel governo parlamentare e dei partiti, ma si coagula attorno alla forza della Banca Centrale, al crescente potere delle autority, nel dominio della funzione governativa e ministeriale rispetto alle assemblee elettive rispetto a materie sensibili come il mercato del lavoro ad esempio. Inoltre, il sistema economico politico occidentale passa dalla centralità del tema della piena occupazione, tipico del periodo anni ’50 e ’70, al tema del controllo dei prezzi e al rilancio dei profitti tipico della cultura liberale degli ultimi anni settanta.

Per spiegarmi meglio utilizzo ancora un passo di Riccardo Bellofiore, ‘Le due gambe su cui si mosse la reazione del capitale alle lotte operaie e alla crisi degli anni Settanta furono la frantumazione del lavoro e la finanziarizzazione. L’una e l’altra ebbero caratteri nuovi. La frantumazione del lavoro infatti, fu in modo significativo l’altra faccia di una inedita ‘centralizzazione senza concentrazione’. La finanziarizzazione, a sua volta in una autentica ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito’: una inclusione delle famiglie e dei consumatori – all’interno dell’universo finanziario. La sussunzione reale del lavoro alla finanza finiva con l’approfondire la centralizzazione senza concentrazione, e più in generale un ulteriore giro di vite nello sfruttamento del lavoro.’[7] Ma sempre Bellofiore spiega come l’aggressione al mondo del lavoro e al livello generale dei salari abbia frenato l’inflazione senza per questo determinare una crisi capitalistica per assenza di domanda aggregata e dunque provocando un mancato realizzo capitalistico. Ma proseguiamo con Bellofiore; ‘ Risparmiatore maniacale e consumatore indebitato[8] spiegano però pure come in un mondo di bassi salari si sia avuta una dinamica capitalistica accelerata che non ha incontrato difficoltà dal lato della domanda effettiva. La crescita del prezzo delle azioni negli anni Novanta, determinava un ‘effetto ricchezza’, per cui la domanda di consumo ( e allora anche la domanda di investimento) crescevano significativamente, favorendo la realizzazione del plusvalore. L’indebitamento crescente è innanzitutto tutto privato, non pubblico: negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, il debito pubblico tende addirittura a contrarsi. Il debito privato, peraltro, tende ad essere sempre più il debito dei consumatori ( e delle imprese finanziarie): non come nella versione tradizionale di Minsky, il debito delle imprese non finanziarie. Dunque, la crescita negli Stati Uniti ( ma di rimbalzo nel mondo) non è stata trainata dalla spesa pubblica, né tanto meno dalle esportazioni, e ancor meno ovviamente dal consumo salariale. Solo in parte vi hanno contribuito gli investimenti privati, nella new come nella old economy. Lo sviluppo di quegli anni lo si deve soprattutto al consumo a debito delle famiglie americane.’[9]

Queste strutture organizzative, che includono anche il ruolo manifatturiero che ha svolto la Cina e l’Asia in genere nel mantenere bassi i prezzi di molte merci e di varie materie prime, su cui la nuova fase liberale si è retta dagli ultimi settanta per circa trent’anni, si sfaldano di fronte al crollo dei mercati finanziari del 2007 – 2008. Così siamo giunti alle problematiche dell’oggi che però vanno affrontate in un capitolo a parte.

Filippo Orlando

  1. M. Kalecki , ‘Aspetti politici del pieno impiego’, 1943.
  2. Riccardo Bellofiore, ‘ Smith Ricardo Marx Sraffa’, ‘Il lavoro nella riflessione economico-politica’, Rosenberg&Sellier, 2020, pagine introduzione 21 e seguenti.
  3. Riccardo Bellofiore ‘Smith Ricardo Marx Sraffa’ 2020, cit.
  4. Joan Robinson, L’economia a una svolta difficile?, Einaudi 1967 – 1973, in particolare il capitolo ‘Il nuovo mercantilismo’.
  5. Confrontare su questo Riccardo Bellofiore, ‘La crisi capitalistica, la barbarie che avanza’, Asterios 2012
  6. Su questo si veda il famoso saggio di James O’Connor ‘La crisi fiscale dello stato’, Einaudi 1977
  7. Riccardo Bellofiore, ‘La crisi capitalistica, la barbarie che avanza’, Asterios 2012, pag. 48 – 49
  8. Si riferisce alla nota espressio di Alan Greenspan, governatore della Banca Centrale USA, il quale nel 95 disse che la piena occupazione non porta inflazione, e , quindi necessità di alzare i tassi di interesse per raffreddare l’economia, perché i lavoratori sono ‘traumatizzati’ e costretti ad accettare salari bassi, e la domanda effettiva è spinta verso l’alto grazie al consumatore indebitato e al risparmiatore ossessivo, ovvero il piccolo risparmiatore che investe in titoli finanziari. Queste tre figure sono i pilastri su cui il così detto neoliberismo.
  9. Cit., Bellofiore, ‘La crisi capitalistica, la barbarie che avanza’, Asterios 2012, pag. 63 – 64

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