Il caso Jorit, o del perché alla sinistra italiana piace l’artista “di Stato”

La sinistra politica italiana ha avuto tanti pregi nei bei tempi passati, soprattutto la capacità tramite le sue organizzazioni di massa, sociali e politiche, di forgiare in modo indelebile la democrazia italiana, e la stessa Repubblica, con la partecipazione delle masse popolari nella vita pubblica, ma assai meno brillante è stata, spesso e volentieri, nella comprensione del fatto artistico dove la sinistra ha sempre preferito di gran lunga il conformismo e l’organicità al potere. I capi dei partiti – e soprattutto del principale partito quello comunista – volevano intellettuali e artisti sostanzialmente che suonassero il piffero per il potere, il malinteso togliattiano dell’intellettuale organico al partito. All’inizio l’intellettuale organico era però di livello alto perché, sempre nei bei tempi andati, la cultura era comunque tenuta come una cosa seria, vista giustamente come elemento di emancipazione individuale e collettiva.

Con il declino e la sostanziale scomparsa della politica organizzata stiamo scavando il fondo. Oggi che non ci sono più veri partiti (e scarseggiano anche i veri artisti) quello che una volta i “capi” pretendevano come esponenti di partito oggi cercano di ottenerlo tramite le istituzioni, che occupano come “cosa loro” dimenticandosi che una volta eletti dovrebbero rappresentare tutti e non visioni di parte.

Facciamo l’esempio del cinema: a un certo punto della storia, per una “inattesa piega degli eventi” dal 1945 (con “Roma città aperta” di Rossellini) e per 30-40 anni, abbiamo avuto il più importante cinema del mondo, che era un cinema di sinistra, fatto da registi e autori di sinistra e anche da registi che pur essendo democristiani facevano però un cinema di sinistra (come Pupi Avati o Alberto Sordi) perché quello era il clima dell’epoca, di una costante voglia di progresso e di contestazione dello status quo. Ma questo risultato non è stato ottenuto dai partiti della sinistra, ma dal capitalismo famigliare italiano. Fino a quando c’erano i grandi produttori, che non a caso erano dei capitalisti rudi che pensavano agli incassi e non certo all’arte ma che erano capaci di confrontarsi dialetticamente con gli autori più importanti, alternando il cinema di cassetta con quello d’autore in un equilibrio miracoloso; finché questo sistema ha funzionato (in sostanza finché c’erano i padri e poi sono arrivati figli mediocri e senza meriti propri) l’Italia ha prodotto i principali capolavori del cinema mondiale, che spesso e volentieri erano anche film di grande successo popolare. Finita quella stagione epica e leggendaria è arrivata la stagione del cinema e del teatro come ammortizzatori sociali, che distribuiscono tanti posti di lavoro nella stagnazione economica infinita del post-capitalismo (pagati dalla mano pubblica dello stato e nelle sue varie articolazioni locali) e che producono opere quasi sempre retoriche, politicamente corrette all’inverosimile, sostanzialmente inguardabili (le tipiche fiction moraleggianti e conformiste della RAI) con poche eccezioni.

Cioè vere e proprie opere di regime, poco importa che questo sia un regime democratico: se sei sostenuto dallo stato e non dall’entusiasmo degli spettatori, del pubblico fedele che paga il biglietto, starai bene attento a non disturbare questo potentato e quel notabile e la tua attività artistica sarà ridotta esattamente a quello che piaceva a Togliatti e che però da capo del PCI non riusciva lontanamente a ottenere all’epoca, litigando con Vittorini e con tutti: dei perfetti pifferai del potere politico e non artisti liberi di dire e di provocare il cuore e l’intelligenza del pubblico. Rendendo con ciò un servizio netto alla libertà e alla democrazia come effettivamente avveniva, in un ciclo di progresso ininterrotto (finché non si è interrotto). Ebbene questi artisti di sinistra, che credevano nel socialismo e nella rivoluzione ottenevano il loro giusto tornaconto e la loro fama confrontandosi col mercato e non dovendo dipendere dalla politica e dalle commesse dei vari assessorati.

Chi scrive è un fiero avversario del neoliberismo e per una forte partecipazione dello stato, del potere pubblico, nell’economia, cioè un’economia mista e pianificata in modo democratico e partecipativo, quella che ci ha reso a un certo punto nel dopoguerra una grande potenza industriale e culturale, mentre oggi dopo la “cura neoliberale” siamo quasi arrivati sull’orlo del sottosviluppo. Ma questo non vale però per l’arte. Chi intraprende questa carriera non ha altra strada che essere motivato a rischiare, il vero artista di fatto è uno sciamano, ha questo rapporto dialettico col resto della società, in parte ammirato e in parte respinto, pensiamo a Pasolini e al suo rapporto col PCI (espulso perché omosessuale ma poi costantemente rincorso dai dirigenti come per riparare una colpa) – se vuole essere autenticamente tale e non dipendere dal potente di turno, che sia l’assessore della Toscana o l’autocrate moscovita. Il vero artista deve rischiare e deve affrontare il mercato: l’editoria, le gallerie d’arte, il teatro, il botteghino cinematografico ecc. Non c’è altra strada. Pasolini e Fellini hanno fatto letteralmente la fame prima del grande successo.

Allora abbiamo questo curioso Jorit (Ciro Cerullo) che fa esattamente quello che non dovrebbe fare un vero artista, mettersi in posa con Nardella o De Magistris (e naturalmente con Putin) anziché trovare un modo originale per essere sostenuto solo e soltanto dal suo pubblico. Tutto legittimo, per carità, ma poco produttivo. Così è andato a Sochi, sicuramente per convinzione ideologica, a questa improbabile “giornata mondiale della gioventù” dove convergono entusiasti tutti questi giovani “multipolaristi” che vanno ad abbracciare l’autocrate del Cremlino come se fosse Gesù. Uno scenario orwelliano ma spontaneamente generato dalla confusione mentale all’insegna del più bieco: “basta che qualcuno sia contro gli USA, il male assoluto, per essere amico nostro”.

Puoi essere critico quanto vuoi con il cosiddetto “occidente”. Nessuno però li ha avvisati che non esiste più l’Unione Sovietica e che al posto di Marx e del Socialismo hanno messo l’Eurasia reazionaria di Dugin, hanno letteralmente le fette di salame sugli occhi. Niente li ferma, nemmeno il fatto che lo stesso Putin non è più quello di dieci anni fa, è diventato più fascista e paranoico, con ormai evidenti responsabilità nell’eliminazione staliniana degli avversari politici, per il semplice fatto che ormai questo individuo sta da troppo tempo al potere. E non è la criticabile liberal-democrazia di Biden a dirlo, ma un principio di democrazia universale comune a tutti i popoli, “la democrazia degli altri”, il riconoscimento dell’ingiustizia e la lotta contro i prepotenti.

Comunque sia. La reazione a “sinistra” per lo scivolone di Jorit, o meglio nel variegato “campo progressista e pacifista” ovviamente è stata di reticenza e imbarazzo per le grottesche dichiarazioni dello street artist che si fa una foto con un dittatore conclamato con lo scopo di dimostrare l’umanità del popolo russo e contrastare così la bieca propaganda occidentale. Si segnala che per ottenere lo scopo sarebbe stato magari meglio abbracciare un operaio russo o un reduce, o un mutilato di guerra, o una massaia (la massaia di Lenin?) che lotta e stringe i denti per mettere in tavola qualcosa da mangiare.

Si sono sentite le obiezioni più ridicole: che dire allora degli ipocriti governanti occidentali che non si fanno scrupolo infatti di stringere le mani ai Bin Salman, ai Netanyahu e agli Erdogan e agli emiri con le mani sporche di sangue e di combustibili fossili, mentre se le prendono con un coraggioso artista che voleva solo dimostrare l’umanità dell’avversario. Ed è vero, ma lo fanno perché noi li paghiamo per farlo, per ragioni diplomatiche e di stato. Siamo noi che stringiamo le mani a Bin Salman (come le abbiamo strette in passato allo stesso Putin) per il tramite dei nostri politici eletti che in quanto tali svolgono una funzione “sacra”: cioè se lo fanno nell’ambito del loro mandato, e bene intenzionati, rimangono “candidi” anche mentre stringono le mani a Bin Salman perché questo esige la politica estera e le ragioni di stato. Diverso è il caso quando qualcuno approfittando del suo ruolo istituzionale si mette a stringere le mani di questi personaggi discutibili (“i dittatori di cui abbiamo bisogno” come ebbe a dire Draghi) per fare aumentare il proprio conto in banca, mi è giunta voce che addirittura qualche volta succede questa disdicevole pratica.

E tutto per dire sciocchezze sull’umanità di Putin (bella forza, anche Hitler era umano, troppo umano, per non parlare di Mussolini, che gran compagnone era il sanguigno romagnolo Mussolini! Che divertimento passare una serata in compagnia del Duce! Salvo che poi ti mandava i manganelli e l’olio di ricino a sistemare i conti in sospeso).

Di fatto un capo di stato, di governo, un ministro degli esteri, può stringere le mani di Bin Salman rimanendo perfettamente immune dalla “contaminazione” di tale gesto perché ha con sé lo scudo “sacro” della legittimazione popolare. Si può e si deve trattare con la Russia di Putin (sperando che comunque Putin se ne vada presto per i motivi evidenziati, chi sta più di 20 anni al potere puzza) per mettere fine alla guerra in Ucraina così come trattiamo con Hamas e Netanyahu per lo stesso motivo in Palestina.

Ma è ovvio che invece l’arte, per essere tale e rimanere libera, deve stare ben distante dalle lusinghe del potere e stare alla larga dai potenti di qualsiasi latitudine. Che sia Putin o Nardella a sponsorizzarti come dicevo non fa poi tutta sta grande differenza. Quindi sia libero Jorit di pensare che “l’antimperialismo multipolarista” sia la soluzione, ma stando perlomeno alla larga dai potenti di qualunque colore.

Ancora vale la pena di rispondere a quelli che difendono l’amenità di Jorit di guardare ai veri artisti liberi e indipendenti, come Roger Waters (un socialista dichiarato seguace di Bertrand Russell) che prende posizioni che possono piacere o meno, che dividono anzi, invitando per esempio da anni a boicottare Israele, ma lo fa da uomo totalmente libero, coi suoi soldi, che si è guadagnato con la sua arte e la sua libertà creativa, che gli deriva dal dipendere esclusivamente dal giudizio del pubblico.

E infatti in un tempo ancora recente gli street artist criticavano il potere, sbeffeggiavano Honecker che veniva sbaciucchiato da Breznev commentando in cirillico “dio mio salvami da questo bacio della mortementre oggi si nota il ritorno di questa stucchevole tendenza da “realismo socialista”. Anche nelle sue opere (nessuno le tocchi per carità! Qui si critica senza acrimonia e con rispetto per il più assoluto pluralismo) Jorit esalta questo terzomondismo un po’ fuori tempo massimo, mescolando assurdamente Maradona e Gramsci (ma si può sapere che senso ha? solo la più bieca demagogia può mettere insieme Gramsci e Maradona) cioè aderendo più o meno consapevolmente a una certa visione “sovietica” che viene ancora utilizzata con un certo successo dalla efficacissima propaganda di Putin per mascherare le magagne interne, assumendo le forme di questo presunto “campo antimperialista e multipolare”, come se passare dal dominio imperiale di Washington al “club dei sette imperi” che si fanno equilibrio col terrore nucleare cambiasse qualcosa all’uomo della strada (anzi c’è il rischio che si realizzi proprio l’incubo di 1984” di George Orwell dove tre potenze geopolitiche si fanno la guerra per finta fra di loro per mantenere delle élite sanguinarie al potere). Quello che serve è semmai un mondo né unipolare né multipolare ma un mondo realmente plurale e democratico, cioè un mondo dove l’abitante oggi marginale di Haiti, di Tonga, del Bangladesh o del Congo conti esattamente quanto quello del Giappone, degli USA o del Regno Unito. Un mondo delle Nazioni Unite riformate, che funzionino veramente, fondato sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo finalmente applicata.

Diciamo allora la verità: la sinistra, lo vediamo anche a livello locale da sempre, preferisce e ha sempre preferito artisti conformisti spesso e volentieri indotti non a farsi le ossa confrontandosi col sacrosanto mercato, con le vendite dei biglietti e l’apprezzamento del pubblico ma artisti controllabili e che fossero poi disposti a cantare le lodi e a suonare il piffero dell’amministratore di turno. Dispensare piccole prebende, poco più che simboliche, ai vari “artistoidi” locali per collezionare preferenze alle elezioni comunali anziché pensare a cose più serie, anzitutto recuperare la partecipazione di quel 50% che ormai, totalmente rassegnato, non va più nemmeno a votare. Ogni tanto poi nasce una piccola star e si crea il culto del grande artista internazionale (pressoché inesistente o molto inflazionato)

E’ dai tempi di Mozart che non andava più di moda per gli artisti fare i “maestri di cappella” sostenuti dal sovrano o dal signore di turno ma vivere del proprio ingegno e poter essere così artisticamente liberi. << I compositori si emanciparono, sia economicamente che socialmente; né Mozart, né Beethoven, svolsero mai tale incarico, ma furono tra i primi musicisti ‘liberi professionisti’, ossia non vincolati al servizio musicale di un signore per sopravvivere. >> (Wikipedia)

Pare che in questo strano ritorno di feudalesimo (un “tecno-feudalesimo” post-capitalista secondo qualcuno) le cose stiano tornando preoccupantemente indietro.

Oh dimenticavo. Mi si dirà che critico la sinistra e che la destra è molto peggio. Vero. Ma non si può sempre fare del benaltrismo e i panni sporchi non si lavano in famiglia, e del resto se la variegata e sbrindellata area progressista vuole saldare i conti con questa destra impresentabile deve prepararsi un minimo seriamente e cominciare a emendare le sue colpe riprendendosi da questa orripilante e inguardabile decadenza. Critichiamo le nostre democrazie occidentali, gli USA e la Nato quanto vogliamo ma sulla base di argomenti solidi (oltretutto se vogliamo trovare alternative e non limitarci all’eterno mugugno) e non da scappati di casa, con la malcelata simpatia (o come nel caso del disorientato scugnizzo napoletano una simpatia aperta e dichiarata) per autocrati sanguinari e imbarazzanti nel nome del bieco “il nemico del mio nemico è amico mio”.

Quindi Jorit invece di inseguire questo populismo terzomondista tirato via alla buona, che poi fa solo il gioco del potere, legga Vittorini: «E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali dai nostri compagni politici, è perché vedo la tendenza dei nostri compagni politici a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura in cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi di crisi.» (*)

E “vade retro!” all’equivoco imbarazzante del “campismo antimperialista-multipolarista”.

Filippo Boatti

10 marzo 2024

(*) Politica e cultura. Lettera a Togliatti, in Il Politecnico, n. 35, gennaio-marzo 1947

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