C’era una volta la sinistra

Non aiuta molto il recente libro di Antonio Padellaro e Silvia Truzzi (C’era una volta la sinistra. Errori, rimpianti e speranze nel racconto di Occhetto, Bertinotti, D’Alema e Bersani, PaperFIRST by il Fatto Quotidiano) a capire come stanno davvero le cose a sinistra. Le interviste ai quattro protagonisti si tengono –salvo rari momenti- sulla superficie degli avvenimenti. Si tratta di un libro dispersivo, solo con lampi di analisi, rapsodico, spesso banale, che dà troppo peso a molte leggende metropolitane. Prevale il taglio cronachistico in modo marcato, e i retroscena, i rapporti personali non poche volte fanno da scudo alla emersione della oggettività dei fatti e alla portata storica di ciò che è avvenuto.

Più a suo agio con questa impostazione appare Achille Occhetto. Il liquidatore del Pci rimane convinto tuttora che la sconfitta delle sue scelte politiche e del suo progetto sia dovuta non tanto ad errori strategici e culturali di fondo, a una lettura della fase storica sbagliata, ma a complotti e manovre tutti interni al gioco della politica. Ritiene addirittura che proprio ciò che è accaduto successivamente gli abbia dato ampiamente ragione. Occhetto non tiene conto della fragilità culturale della sua operazione politica, dell’assenza in essa di una indicazione su come tenere insieme le radici del passato col nuovo orizzonte, del fatto che la sua alleanza col movimento referendario di Segni cancellava il ruolo del partito. Restio ad ogni valutazione critica , arriva perfino a condividere la credenza che il duello televisivo con Berlusconi gli sia andato male per via del vestito sbagliato che indossava. Concorda, però, con gli altri tre suoi compagni intervistati nel ritenere che la crisi della sinistra in Italia e in Europa sia dovuta alla subalternità al neoliberismo, ma, come gli altri tre, lo dice come se questa sia una specie di fatalità e non il risultato di concrete scelte sbagliate.

Bertinotti cambia completamente registro. Tanto Occhetto insiste sul valore della rottura e della discontinuità da lui praticate, tanto Bertinotti cerca di addossare proprio a queste la responsabilità della crisi della sinistra. Spiega la sua scelta impopolare di staccare la spina al governo Prodi come un atto di coerenza con i suoi principi, sorvolando sulle conseguenze politiche disastrose per il Paese di quella scelta. Non spiega perché In nome di una coerenza astratta e antistorica non esita a consegnare l’Italia a Berlusconi e cosa davvero vuol dire la sua astrusa distinzione fra <<sinistra di alternativa>> e <<sinistra di governo>>.

D’Alema appare anche qui politico di spessore. Il ragionamento sulla crisi del modello socialdemocratico è convincente. Ma crea un qualche disappunto il suo tentativo di far iniziare la crisi della sinistra con la fase più recente della parola d’ordine dell’“autosufficienza” e della “vocazione maggioritaria”. C’è una evidente sottovalutazione della portata delle conseguenze di molte scelte compiute anche da lui , dalla sua elezione a segretario del Pds in poi. Per esempio: accettando la presidenza della bicamerale trascura l’opera fondamentale di rafforzamento del partito; con la cultura dello staff, adottata da presidente del Consiglio, asseconda la concezione leaderistica e antipartitica; con la pratica del “riformismo dall’alto”, del “riformismo senza popolo” indebolisce la “connessione sentimentale” con la gente di sinistra; con l’adesione acritica alla “terza via” di Tony Blair contribuisce a lesionare i capisaldi della cultura di sinistra. D’Alema compila un catalogo sostanzialmente corretto delle ragioni della crisi della sinistra, ma il suo limite appare quello di considerare ognuna di queste momenti isolati di un cammino comunque capace di riprendere la strada maestra.

Bersani ha più che ragione quando dice che <<bisogna avere il coraggio di tirare una riga su questi anni e fare qualcosa di nuovo>>. Ma non è in grado di dirci in che cosa deve consistere questo ‘nuovo’. Anche in questa intervista viene fuori il suo carattere di persona poco determinata. Ragiona sulla base di un apprezzabile buon senso che però nella situazione data non può bastare. Conferma il suo limite di fondo: quello di non riuscire a tenere insieme realtà e progetto. Prigioniero di un malinteso senso di responsabilità, finisce sempre col subordinare la nobiltà astratta dell’idea alla poco attraente concretezza del suo partito. Bersani è una figura che viene sistematicamente investita da eventi che non riesce a governare e che lo inducono quasi sempre a compiere scelte sbagliate.

Al di là delle differenze di analisi, vi è pero tra i quattro intervistati la comune convergenza su un paio di “illusioni”: quella di poter separare le due forze dell’attuale governo gialloverde –perché ritenute tra loro troppo diverse e incompatibili- e quella di una qualche vicinanza del movimento grillino ai valori della sinistra. Si tratta, appunto, solo di due illusioni che, in quanto tali, prescindono dalla considerazione dei fatti concreti che documentano la distanza siderale esistente fra la cultura politica pentastellata e quella della sinistra e la stretta prossimità, invece, fra populismo grillino e populismo leghista.

Siamo ancora di fronte a errori analitici di fondo che non fanno ben sperare per il futuro.

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