Crisi della democrazia e futuro del PD

Come ho motivato in un articolo alquanto amaro pubblicato qui il 21 agosto – “La Sinistra nella ‘selva oscura’” – non ho tanta voglia di parlare di politica perché trovo che la situazione sia molto compromessa, per l’Italia e per la sinistra. D’altra parte la situazione è così grave che il non parlare né fare – se uno senta di avere qualcosa da dire o da fare – potrebbe anche essere una “fuga dalla realtà”, un venir meno a un dovere civico mentre il Paese rischia grosso. Perciò, contraddicendomi, provo a seguitare a ragionare su quel che sembra drammaticamente attuale.

  All’inizio del governo M5S-Lega, Renzi disse che non si era al governo Tambroni del 1960. Era vero, ma nel senso che la situazione d’oggi, al di là della retorica, è molto peggiore. Nel 1960 c’era un monocolore democristiano (il governo Tambroni, durato quattro mesi) che stava in piedi con l’appoggio esterno dei neofascisti (ufficialmente non richiesto, ma determinante). Il governo era contestato da una sinistra comunista e socialista, e ancor più operaia e popolare, fortissima, che con una potente spallata politica di massa mandò in frantumi quell’estremo tentativo di tenere in piedi il centrismo tramite un aiuto dell’estrema destra. Oggi siamo a un mix di governo tra nazionalismo (“sovranismo”) e populismo, che è poi il fascismo del XXI secolo. É il modello Orban (Ungheria) o Putin (Russia) o Erdogan (Turchia), per non dire di Trump e degli altri (per fortuna condizionati, negli Stati Uniti, da una democrazia plurisecolare, basata su una solida divisione e bilanciamento dei poteri). L’estrema destra (“leghismo” ormai nazionalista), in Italia ha posto una pesante ipoteca sul governo, e probabilmente la svolta che caldeggia potrà diventare epocale entro un paio d’anni, dopo nuove elezioni politiche a metà della legislatura, negate ma preparate ogni giorno da Salvini. Per ora questo è il preoccupante antipasto dell’”era nazionalpopulista”. Il rischio che Lega e Forza Italia (alleati storici) e M5S (alleati al governo con la Lega), vadano in ordine sparso alle elezioni politiche – al più tardi tra un paio d’anni credo – per allearsi dopo, comunque esiste. Lo si vedrà già alle decisive elezioni europee della primavera 2019. Comunque già M5S e Lega, da soli, avevano il 49% in questo marzo 2018, e secondo gli ultimi sondaggi avrebbero oggi oltre il 60%. Con i voti attribuiti oggi a Forza Italia avrebbero il 67% (se i tre gruppi si alleassero dopo elezioni che andassero secondo i sondaggi). Quindi potrebbe formarsi una maggioranza “nazionalpopulista” enorme (del 70% circa), su cui non potette contare neanche De Gasperi dopo le elezioni d’aprile del 1948. In questo quadro il M5S, che alle politiche di marzo era quasi il doppio della Lega, rischia di diventare succube dell’alleato “sovranista”. La volontà di potenza di Di Maio e l’incredibile pochezza sua e del suo Movimento, veramente di dilettanti “allo sbando”, potrebbero impedire al M5S di comprendere in tempo il prezzo enorme pagato all’alleanza con la Lega di Salvini, tra l’altro senza ottenere se non briciole per il “reddito di cittadinanza” che ha fatto loro prendere il 32% dei voti a marzo perché, come diceva un ironico serial, “bambole, non c’è una lira” (lo spread cresce e crescerà, e c’è un debito pubblico di 2300 miliardi di euro). Qualcosa faranno, ma per ragioni di politica della spesa sarà così modesta da essere appena una piccola correzione del reddito d’inclusione introdotto dal governo Gentiloni. Sarà presentata come una rivoluzione, ma prestissimo risulterà una bufola, buona a spaventare mercati e Unione Europea senza cavare un ragno dal buco, a Dio spiacente “e alli nemici suoi”. In sostanza se quelli del M5S – ed è molto difficile che seguitando l’egemonia assoluta di Di Maio lo facciano – non si sganceranno presto dalla Lega, la pagheranno cara, al solo vantaggio del centrodestra “unito nella lotta”. Faranno la fine dei pifferi di montagna, andati per suonare e che furono suonati. Già le elezioni europee del maggio 2019 saranno per loro una campana a morto. Sapranno sganciarsi in tempo? – Ne dubito, ma pace all’anima loro.

   È vero che uno dell’area governativa potrebbe dire che i miei sono processi alle intenzioni. Ma troppe cose si oppongono ad una lettura più ottimistica della mia. Intanto il sovranismo non è altro che un sinonimo, che fa meno paura, del nazionalismo. Ma il nazionalismo (America first, Italiani first, o Germania über alles) è la quintessenza del fascismo. Il nazionalismo autoritario con basi di massa non è altro che il fascismo (non c’è tanto da girarci intorno). Pure il populismo, ossia la volontà di farsi interpreti – pretesi –  della pretesa volontà popolare, contro la democrazia della rappresentanza, è fascismo. Di questo populismo l’Italia ha il copyright internazionale. Lo stesso giornale di Mussolini fondato nel novembre 1914 come “quotidiano socialista”, però interventista e presto dei fasci di combattimento, si chiamava “Il popolo d’Italia” (esprimeva l’idea del dar voce al mitico popolo “italiano” a dispetto delle “degeneri” rappresentanze parlamentari). E un grande politologo italiano, l’elitista Robert Michels, già fautore della democrazia operaia come sindacalista rivoluzionario (poi interventista), era diventato fascista, e amico del Mussolini anche dittatore, sostenendo che la “volontà del popolo” è meglio espressa da un duce o “capo carismatico” interprete della folla riunita nelle piazze che non dall’”ingannevole” parlamento, che tradirebbe sempre il popolo sovrano. L’idea che se questo terzetto tra M5S, Lega e Forza Italia (ma basterebbe l’attuale binomio), ottenuto il 65 o 70% (o meglio, ove dovesse ottenerli), non faccia una repubblica presidenziale peronista, e non ridimensioni fortemente il potere giudiziario come la destra sogna da anni, e non metta le mani a man bassa su TV e mondo dell’informazione, e non limiti le libertà sindacali, e non sterilizzi ulteriormente l’”aula sorda e grigia” del parlamento, è infantile. Pensiamoci bene: tutto ciò è molto concreto. Non è un processo fatale, ma è ben possibile.

   Oltre a tutto al nazionalismo e populismo si aggiunge – nel caso di questo nuovo “semifascismo” in cammino – la xenofobia (“va fuori, straniero”, va fuori immigrato, anzi non entrare affatto): una xenofobia (allora antisemita) che nel fascismo saltò fuori solo tra 1936 e 1939, dopo la “conquista dell’Etiopia” e soprattutto dopo l’alleanza con Hitler, mentre nel “salvinismo” è il punto di partenza (anni fa rivolto contro i “terroni”, da parte dei veri “padani”, e ora contro gli immigrati, in specie islamici e neri, con la foglia di fico dell’aggettivo “irregolari”, che vuol poi dire quasi tutti). Questo mix tra sovranismo, populismo e xenofobia è appunto la forma del fascismo in cammino nel XXI secolo (il nome non c’è, è spesso negato, ma ciò non conta neanche per Casa Pound, che infatti simpatizza apertamente per Salvini, né per Marine Le Pen, che è entusiasta, nella “logica” dell’”Oggi in Italia, domani in Francia”). Questo semifascismo o nazionalismo populista e xenofobo – possiamo chiamarlo come vogliamo – ottiene quel che voleva anche senza picchiare i nemici o “sprangare il parlamento” (basta ridurli a forze che non contano un cavolo, il che è già in corso di realizzazione). E dopo anni e anni di democrazia inceppata e basata su reciproci veti, in cui tutto sembra non funzionare, e a pagarla sono sempre “i soliti noti” (e in specie la grande maggioranza dei giovani), a tanti piace e potrebbe piacere molto (benché il risveglio sarà molto amaro). Del resto persino dopo la tragedia del ponte di Genova, che la Società Autostrade diceva di voler ricostruire gratis e in acciaio in otto mesi, siamo già al “no, tu no, preferisco che lo facciano altri”, alle divisioni su farlo con nuovi privati o come Stato, ai progetti opposti, ai dissensi su competenze e tempi, ai forti condizionamenti giudiziari, eccetera, come se neanche le catastrofi più terribili potessero indurci a “farci furbi” (recuperando un po’ di efficienza e rendendo con ciò – come ogni volta in cui capita – più credibile la nostra cara e preziosa democrazia). In sostanza c’è il rischio che una deriva sudamericano-peronista diventi popolare, tanto più se “lo straniero” venisse tenuto anche poco umanamente fuori dai confini, con metodi “alla Orban” (come troppa gente pare desiderare, a dispetto persino dell’empatia minima verso grandi masse di affamati e rovinati che corrono il rischio molto concreto di affogare pur di entrare in Europa; certo si dice che li si vorrebbe aiutare a casa loro, ma con quali possibilità lo vediamo in Libia, dove le bande politiche contrapposte si massacrano mentre gli europei “fanno voti” perché la smettano, litigando persino tra nazioni “sorelle”, che cercano di “fregarsi” a vicenda, tutte assetate di barili di petrolio).

  Su tutto ciò, la prima tappa saranno le elezioni europee, in cui il 4% che oggi separa euroscettici da europeisti sarà travolto. Mentre i federalisti europei sognano da sempre gli Stati Uniti d’Europa, a partire da un ministero degli esteri (con esercito annesso) e delle finanze (con politica economica annessa), comuni, e un presidente e capo del governo eletto a suffragio universale dai cittadini europei (come proponeva anni fa il verde Joska Fischer allora ministro degli esteri della Germania), è invece altissimo il rischio che si vada verso una mera confederazione tra Stati sovrani (che de Gaulle chiamava “Europa delle patrie”), in stile: “tutti amici, ma ciascuno padrone a casa sua”; niente finanza comune, e probabilmente monete di nuovo separate. Sarebbe la fine dell’Unione Europea, ridotta a poco più di un’unione doganale. Naturalmente sbarrata agli stranieri o “migranti”. Per ragioni diverse tanto la Russia di Putin quanto l’America di Trump ci sperano: meno l’Unione Europea esiste come vero mega-stato federale e più contano loro. La libidine di servire sia i russi che gli americani a destra è diventata alta.

  Il nazionalpopulismo non va sottovalutato perché tenta molto i popoli, a partire dal nostro. Il sovranismo (nuovo nazionalismo) è reazionario, come ogni tentativo di far tornare indietro la ruota della storia, in tal caso al tempo in cui lo Stato “nazionale” e “sovrano” era in grado di fare una politica economica non pesantemente condizionata dall’esterno (cosa molto difficile, se sei pieno di debiti, e se dei nell’era della globalizzazione e dell’informatizzazione). Ma siccome le soluzioni concordate tra europei latitano, per l’egoismo degli stati (pressati dalla loro opinione pubblica e dalle élites interne del potere economico), grandi masse di persone preferiscono provare a ricercare il sovranismo perduto piuttosto che affrontare un presente-futuro di tipo oscuro: in specie i più danneggiati dai mutamenti selvaggi che incombono, che perdono il lavoro, lo vedono deprezzato di valore e insopportabilmente precario, mentre alle porte preme gente che fugge dalla fame, che in tempi di crisi i poveri locali osservano con oscuro risentimento. L’alternativa a tutto ciò può essere solo un’unione federale più stretta a livello europeo, che possa fare una politica economica finanziaria e dell’accoglienza rappresentativa di circa cinquecento milioni di europei (Stati Uniti d’Europa), e governi tanto audaci e aperti alla povera gente sul piano sociale quanto di legislatura e democraticamente autorevoli (in Italia).

  Il disegno “concreto” dei “sovranisti” è un po’ più moderato di quello qui schematizzato perché sarebbero soddisfatti se i migranti fossero divisi tra i ventisette stati dell’Unione Europea oppure ben contenti se a chiudere ai migranti lo si facesse tutti insieme come UE (e purtroppo è realistico, anche se è reazionario), e soprattutto sarebbero ben felici se la “bieca” Germania accettasse di socializzare le perdite, ossia di prendersi in carico i debiti altrui (perché “siamo tutti una famigghia”), invece di esigere che chi li ha fatti se li paghi, magari rateizzati. Ma non accadrà: è più probabile che ciascuno – per volontà e vittoria dei sovranisti – torni alla sua moneta nazionale (o a qualcosa del genere che non è ancora chiaro). Non è fatale, ma il rischio è alto (quasi 50 a 50).

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Per contrastare tutto questo in Italia c’è solo il Partito Democratico, che sta come tutti sanno (ahinoi). Le altre formazioni alla sua sinistra hanno ormai perso tutti i treni possibili e immaginabili della storia. Chi le ha sostenute e soprattutto sostiene continua a criticare il PD come se la propria bancarotta assoluta non meritasse neanche un’analisi autocritica e coraggiosa (il che non saprei dire se sia più miope o più “da poveretti”). Queste forze della sinistra più o meno radicale sin dalla nascita del PD, e tanto più dalla sua crisi, avevano verdi praterie davanti a sé, ma sono persino riuscite a perdere il piccolo gruzzolo di consensi del tempo del “bertinottismo”. E non per caso. Hanno incarnato o l’anima perduta del massimalismo vacuo o dell’utopismo sterile, o la nostalgia del comunismo (da Bertinotti a Vendola) oppure il clericalismo degli spretati, il “pensiero debole comunista”, il comunismo senza comunismo, l’odio antico per il riformista socialista “rinnegato” (D’Alema e compagni). Non sono riuscite ad essere neosocialiste, ossia capaci di far convivere in discorde concordia e concorde discordia tutte le diverse famiglie della sinistra e di superare un vetusto statalismo e pansindacalismo da Stato assistenziale dalle mani bucate, e pur volendolo non sono riuscite a coniugare insieme il rosso e il verde. Non sono riuscite e non hanno voluto “stare al gioco”, pur pungolandolo da sinistra, con il maggior partito storicamente determinato della sinistra: specie per sterile spirito fazioso nei confronti del leader votato e rivotato dalla maggioranza dei militanti e da milioni di elettori del PD, persino dopo dure sconfitte (Renzi). Ormai saranno costretti a scegliere tra marginalità assoluta più o meno rancorosa, fuori dalla storia, e ritorno motivato nel PD, a prescindere dalla maggioranza che emergerà in esso, in cui comunque il riformismo renziano  resterà una corrente importante.

  Per me il tutto dimostra matematicamente che ormai a sinistra c’è solo il PD, e che chiunque abbia a cuore la sinistra – avesse pure l’anima del mio antico amico Bertinotti – lo dovrebbe sostenere. Ma il PD sembra in crisi mortale. Perché? E c’è rimedio?

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     La grave crisi del PD ha naturalmente molte ragioni, internazionali e non. C’è una crisi della sinistra in tutto il mondo, assolutamente evidente nei voti: dalla Francia e Germania (dov’è stata sbaragliata), all’America del grande Obama, in cui è emerso, contro di essa, un uomo della destra radicale, cioè un repubblicano di destra come Trump, così sovranista (“America first”) e xenofobo (contro l’immigrazione dal Messico e America Latina), e così nazionalista (vicino a Putin), da aver persino innescato la guerra dei dazi con “l’alleato” europeo.  La grande crisi mondiale della sinistra si capisce. La sinistra sperava di poter conciliare la globalizzazione e il connesso liberismo in materia di circolazione delle merci con la sua classica politica di aiuti sociali spinti tramite lo Stato; invece la globalizzazione e l’automazione, abbassando il prezzo delle merci, e della forza lavoro, a causa della libera circolazione planetaria delle merci, e impoverendo e rarefacendo il lavoro, hanno messo in ginocchio, o comunque in braghe di tela ovunque, il Welfare State. È il capitalismo d’oggi, bellezza; ma siccome questo fa stare molto male grandi masse di persone, tra cui da noi la maggioranza assoluta dei giovani, queste si volgono ora di qua e ora di là cercando invano una soluzione (persino puntando a far tornare indietro la storia, tramite il sovranismo, sia di destra o di sinistra). E questo ha innescato una crudele conflittualità – aggravata dalle differenze di costumi e religiose specie con neri e islamici – tra poveri “nativi” e poveri “immigrati”. Farvi fronte da parte di grandi partiti come il PCI dei “vecchi tempi” sarebbe già stato arduo, ma farlo con un partito leggero e dall’identità incerta –“democratica” – come il PD, era ed è molto molto difficile. Oltre a tutto avendo un debito pubblico di oltre 2300 miliardi di euro e con un meccanismo macchinoso di decisione, pieno di veti locali e di altri poteri (il giudiziario, spesso persino per azione di un singolo procuratore), e di tanti “furbastri” annidati in punti delicati della macchina dello Stato e dell’economia pubblica: meccanismo lentissimo e contraddittorio che è poi il retroterra di immani tragedie come quella del ponte Morandi caduto a Genova, con mancata costruzione della “gronda”, e con ritardi storici nel far fronte a allarmi vecchi di decenni o molto recenti.

  Il PD, che ha governato in modi vari dal 2013 al 2018, per me ha fatto bene (da Renzi a Gentiloni), con gli ovvi errori: senza scandali penalmente rilevati (“eccezionale veramente” per questo Paese); tenendo i conti in regola; portando vantaggi quali gli 80 euro mensili ai più poveri e un inizio di reddito di inclusione, e nuovi diritti civili. Ma la pesante zavorra del debito pubblico e i condizionamenti internazionali da parte di un’Europa che pure ci ha tenuto a galla acquistando titoli di stato, hanno impedito la cura radicale che ci sarebbe voluta, ma che se attuata sarebbe risultata odiosa alle masse. (Un giorno arriverà – segnatevelo – per via semidittatoriale, con un Salvini capo del governo “del popolo”, e molti accetteranno perché gli italiani saranno allora “troppo” in crisi, per cui applaudiranno il pompiere che spegne l’incendi della casa in parte andata in fumo). Comunque dal dicembre 2016 al marzo 2018 la gran massa di disoccupati e sottoccupati – ormai non solo presente tra i lavoratori tradizionali, ma tra i ceti medi – ha punito la sola istituzione che in teoria avrebbe potuto aiutarla di più e salvarla, e l’unica a disposizione del suo castigo: il governo uscente, e tanto più il suo “Grande Capo”, Matteo Renzi.

  Questi, il Matteo Renzi, per anni, è parso – anzi è stato – un forte vento di rinnovamento, sia emergendo come il leader forte, furbo, sufficientemente preparato ed autorevole, che dopo Berlinguer la sinistra non aveva mai più avuto (lo stesso carisma di Veltroni, per altro durato poco alla testa del PD, era stato un carisma più ideale che politico), e sia, e soprattutto, emergendo come riformatore dello Stato. Anche il fatto che diventato segretario avesse fatto subito entrare il PD nel Partito Socialista Europeo, mentre “quelli di prima” se n’erano scordati per sette anni, prometteva bene. E anche l’emulare Blair – non certo l’interventista in Irak – poteva andare: collocarsi nel socialismo europeo, sia pure dalla porta della destra socialista, come già Craxi (ma tra gente ben più a posto di quella che aveva seguito il vecchio leader).

  Su ciò vorrei fare una considerazione di carattere generale, ma non troppo. Sono convinto che la sinistra in Italia debba affrontare simultaneamente tre questioni, tutte fondamentali e interdipendenti.

  La prima questione è quella sociale, che vuol dire lotta alla disoccupazione e sottoccupazione, e per distribuire bene gli immigrati tra paesi europei, e far loro guadagnare col lavoro quel che come Italia o Europa spendiamo: finché siano tra noi. La seconda questione è quella ecologica (aree verdi, facilitazioni alle auto elettriche, parchi naturali, lotta spietata agli incendiari, contrasto implacabile dell’abusivismo edilizio, eccetera). La terza è quella della governabilità democratica dello Stato, volta a ottenere come minimo governi di legislatura e sanzionati in qualunque modo dal voto popolare: questione diventata decisiva perché – se non la si risolve – ogni politica negli altri due campi, certo più urgenti in sé, or ora indicata, diventa troppo precaria e persino velleitaria.

  Per me la prima questione è però quella della governabilità, tale da dare carattere di legislatura e autorevole al potere esecutivo, che sarebbe meglio rendere elettivo e con sistema elettorale a doppio turno come in Francia, o almeno con premierato come in Gran Bretagna, in cui la regina nomina primo ministro il capo del partito che ha preso più voti alle elezioni, il quale governa sino all’elezione successiva, e addirittura può lui sciogliere la Camera dei deputati quando vuole, per cui i deputati sanno che è meglio non farlo cadere. Qui Renzi propose un sistema non privo di confusioni, ma abbastanza equilibrato, in cui solo la Camera dava la fiducia al governo, c’era un doppio turno elettorale che al secondo turno faceva emergere un chiaro vincitore (spingendo i molti a essere due soli in competizione), dando al vincitore una congrua maggioranza. Ma gli italiani l’hanno bocciato 60 a 40. Certo hanno pesato antiche paure del “Capo”, nel Paese di Mussolini. Ha pesato moltissimo la volontà di trovare nel governo un capro espiatorio per il disagio sociale. Ma ha pure pesato una tremenda manovra a tenaglia esterna e interna, veramente da irresponsabili, almeno da parte di chi non fosse di destra (ma forse pure da parte della destra, cui il bene della famosa “patria” avrebbe dovuto stare a cuore; ma ormai siamo nell’era dei faziosi e dei quaquaraquà, che sanno solo fare il loro interesse immediato e di parte, in culo alla storia persino “nazionale”). Tutte le sere alla TV era un tiro al bersaglio, da parte di giornalisti e “grandi” intellettuali, specie di sinistra, contro il preteso duce “in pectore” che proponeva “un pasticcio”, era “confusionario” o “arrogante” o pericoloso: tiro al bersaglio alimentato molto dalla pretesa sinistra interna, dei Bersani e D’Alema, che erano in grado non di vincere loro (come si è ben visto), ma di togliere credibilità al “Capo” e, quel che era infinitamente peggio, alle sue riforme, che per questo Paese erano decisive. La scusa era un argomento assolutamente ridicolo e risibile: il fatto che non ci sarebbe disciplina in materia costituzionale. Ciò confondeva quello che era stato l’accordo di capi illuminati sul consentire una manciata di astensioni in materia etica o religiosa alla Costituente – una Costituente fatta di partiti politici ben definiti eletti nel 1946 – con il “tutti liberi”, di cui alla Costituente non c’era stato neanche l’odore. Ma ormai l’ignoranza e pochezza in giro erano così grandi che nessuno rintuzzò tali scemenze, difese con forte piglio da Bersani come quasi ovvie (“eh, per piacere ragazzi!”: per piacere un cavolo).

  Era molto facile prevedere (volendo) che crollato il muro maestro, il bastione Renzi, anzi “il PD di Renzi” (il PD che c’era insomma), se ne sarebbe avvantaggiata moltissimo la destra, in cui già Salvini era in grado di lottare per la premiership. E ora trovo ridicoli quei giornalisti democratici, quei miei ex colleghi costituzionalisti o politologi noti, e quei “sinistri” antirenziani che piangono sul PD “assente”, e lo ridicolizzano, dopo aver dato un contributo fondamentale alla sua caduta. Come se la vittoria dell’estrema destra venisse dalla luna. Sono convinto che la sconfitta al referendum del dicembre 2016 sia stata una sciagura nazionale. Ma quelli che l’hanno determinata ne risponderanno davanti alla storia (è la mia previsione), perché hanno fatto cadere il muro maestro della seconda repubblica determinando la nascita della terza, che sarà quella del “lepenismo” o “orbanismo” o semifascismo al potere. Roba da 1922 anche senza manganelli o partito unico. Tanti auguri.

  Come si vede, ancora una volta, il mio apprezzamento per Renzi e Gentiloni è forte. Essendo però un “battitore libero” debbo dire che dopo il dicembre 2016 Renzi e il PD hanno reagito male alla sconfitta, un tantino da pugili suonati purtroppo, commettendo troppi errori. Anche se gente migliore in campo “per ora” non ne vedo.

  In primo luogo hanno fatto una legge elettorale assolutamente sbagliata (come il Rosatellum), che ci ha riportato alla proporzionale pura, invece di limitarsi a recepire alcune modifiche imposte dalla Corte Costituzionale alla legge elettorale dell’Italicum: mantenendo cioè i due turni, ma precisando la soglia minima che il primo partito vincitore avrebbe dovuto ottenere per accedere al secondo turno, e soprattutto quella minima al secondo (almeno il 40%) da prendere come lista (o fosse pure Coalizione purché fatta già al primo turno) per poter accedere al premio che portava la prima lista al 55%. Si è concessa una giravolta tra partiti (dicendo la materia parlamentare e non del governo), come se sin dal 1997, dal fallimento della Bicamerale di D’Alema, non fosse vero che tutte le riforme costituzionali anche minime, o elettorali, sono state proposte – contro i veti reciproci – dal governo in carica. Il calcolo era quello di diminuire la forza d’urto del M5S e di consentire poi l’alleanza tra PD e Forza Italia (secondo i critici). Ma il tutto tradiva la paurosa mancanza di senso dello Stato di questo tempo di decadenza della democrazia italiana (e forse d’Europa), perché leggi del genere debbono guardare ai decenni e non agli interessi di bottega dell’anno dopo. Tant’è: ormai qui ciascuno segue o sembra seguire solo il suo “particulare” come nei “Ricordi” di Guicciardini, e non il bene dello Stato come nel suo amico Machiavelli, persino nel “Principe”.

   In secondo luogo si è rinunciato a ogni politica delle alleanze, immaginando che M5S e Lega si sarebbero sfasciati presto da soli. Ma in politica, come in guerra, l’avversario non va mai sottovalutato, ma semmai sopravvalutato. Le buffonate con gravissime conseguenze possibili del M5S di governo possono a posteriori giustificare tutto ciò. Ma sedersi attorno a un tavolo, magari per rompere poi su questo o quel tema decisivo, avrebbe reso molto difficile addivenire a questo governo M5S-Lega (semmai ci sarebbe stato o un governo Fico o Casellati, cioè “istituzionale”), Ma a parte ciò sembra che si tardi a comprendere l’antichissimo ABC del “divide et impera”, sui problemi. Ad esempio perché non sostenere, sulla ricostruzione del ponte Morandi, Toti contro il M5S, per fare un esempio, oppure perché non lavorare per rinforzare e valorizzare l’area di Fico, sostenendone apertamente le idee, contro quella di Di Maio?

  Il problema di fondo è che in una democrazia, tanto più se proporzionale, nessun partito può “stare solo”, ma almeno di volta in volta deve cercare “compagnia”. Se no emerge come “fuori gioco” (e poi lo diventa presto davvero): sono cose che i comunisti una volta imparavano sin da piccoli.

  In terzo luogo è stato un errore di portata storica rinviare il congresso del PD. Martina è un politico modesto, ma appare modestissimo perché è come quei supplenti destinati a stare in classe pochi mesi e che nessuno in classe sta ad ascoltare per quanto lui si sgoli. Invece ci vuole, nel tempo della democrazia del leader, e in un’Italia e mondo in continua tempesta, un segretario forte come era stato Renzi sino al dicembre 2016, legittimato da congresso e connesse primarie. Andava fatto entro un mese o due dalle elezioni (insomma, prima delle ferie estive). Solo Roberto Giachetti l’aveva capito e detto subito, e in questo trovo che nonostante la sconfitta come sindaco di Roma da parte di una signora di un M5S col vento in poppa, e nonostante un modo di fare politica talora sopra le righe (però per me ammirevole), Giachetti sia uno dei migliori. A me piacerebbe moltissimo come segretario, mentre non mi convincono né Zingaretti né Richetti.

  Come uscirne?

  La situazione di un PD più o meno sempre al 18% non è affatto disperata. Salvini ha preso una Lega al 4 e l’ha portata, a marzo, al 17, e a quel che pare ora al 32. Ma ci vogliono alcune cose, che sintetizzerei così.

  In primo luogo ci vuole un leader “sarto” e non sfasciacarrozze. L’ho scritto qui il 27 giugno nell’articolo “Riusciranno i nostri amici della sinistra a ritrovare l’anima “scomparsa” nelle “urne” tra il dicembre 2016 e il giugno 2018?” Ci vuole il sarto nel senso che bisogna ricucire tutti gli strappi interni e via via degli ultimi anni (e dialogare solo con chi li vuole ricucire, ma proprio tutti). Questo significa che il nuovo segretario non può essere l’Anti-Renzi. Già solo per questo non so proprio se sia consigliabile votare Zingaretti, che volente o meno va alla resa dei conti con mezzo partito. Altra cosa sarebbe se mutasse il clima, tornando ad essere un confronto tra amici che hanno idee diverse, ma tra cui non vale la logica “o noi o voi”, che ha già fatto tanto male a tutti, interni e esterni. In questa fase è indispensabile che la gara tra tendenze ci sia, ma quanto più possibile amichevole, volta a correggere e non a stravolgere quel che si è fatto dal 2013 in poi. Ci vuole novità nella continuità.

   A me piaceva (e piacerebbe) moltissimo Graziano Delrio, un assoluto e persuasivo galantuomo, sempre “sui problemi”, che mi pare avesse tutte le notevoli qualità di Renzi senza i suoi difetti catatteriali che si riflettevano e si riflettono nella politica, in specie di partito. Ma Delrio non voleva saperne già prima, e ora con l’enorme questione posta al suo ex ministero dalla tragedia del ponte Morandi, non so se accetterà.

 Si è parlato dell’ex ministro Minniti, che pur sapendo un po’ troppo di “scuola dalemiana” mi pare un uomo di valore (ma ha escluso di presentarsi). Anche l’ex ministro Calenda sarebbe un possibile candidato di valore (ma dice che non si presenterà, mirando a un soggetto più ampio, mentre invece bisognerebbe lavorare sempre con e sul PD, che è il solo soggetto “vero” in campo, anche se dovrà aprirsi a quanti più collaboratori di valore potrà trovare). Comunque Calenda è una grande risorsa. Si è pure parlato di una notevole, e simpaticissima, politologa di Bologna, ora vicepresidente dell’Emilia Romagna, Elisabetta Gualmini. Io la voterei volentieri. E sono convinto che farebbe benissimo, sia come grande segno di novità e modernità (una donna, e molto capace), sia perché da una vita studia partiti e istituzioni, sia perché è un’ottima comunicatrice, Ma vedremo quel che passerà il convento.

  Infine c’è un problema dell’identità del PD. Non mi ha mai persuaso un’identità che non si radichi esplicitamente in una delle grandi culture della sinistra italiana. Quest’identità per me può essere solo neosocialista, senza gli errori del passato-presente, del mondo e d’Italia, (S’intende che nel contesto socialista anche il solidarismo cristiano può essere un grande valore). Dovrebbe essere un neo-socialismo democratico rosso-verde, e compendiare forti istanze sociali, ecologiche e di governabilità dell’Italia e dell’Unione Europea. Ma dovrebbe pure recuperare l’anima antica e nuova del socialismo: il grande sogno post-capitalista, per ora sanamente utopistico, che non vuole né la dittatura del maggior profitto di tipo privatistico (liberista) né uno statalismo economico che ha deluso tanti popoli e dissestato pure il nostro Stato, e con cui a mio parere ormai ci possiamo fare la birra (semmai privatismo e statalismo vanno vagliati caso per caso, in base a criteri di economicità ed efficacia prevedibili); lo stare sempre con la gente che va a lavorare per vivere (o che ci vorrebbe andare), migranti compresi; il riconnettersi ai valori, alla storia e ai simboli del socialismo e dell’ambientalismo, tornando ad essere gente, come diceva il sottile seppure troppo cinico Togliatti, che “viene da lontano e va lontano”.

  Su tutto ciò si potrebbe quantomeno lavorare. Almeno su alcuni tra questi punti. Ma accadrà?

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