Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche

Nel saggio intitolato Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (Donzelli Editore) Karl Löwith giunge agli esiti più maturi del suo confronto con la modernità, indagando come in essa via via emerga un ambiguo mix di sintonia e dissonanza rispetto al passato (la classicità ed il cristianesimo) in relazione ad ambiti quali appunto la dimensione divina, antropologica e mondana: aspetti o tematiche basilari della filosofia occidentale.

Secondo la concezione greca il mondo non è retto da leggi imposte da qualche divinità, ma è esso stesso un kosmos ordinato, di cui gli esseri umani partecipano senza arrogarsi alcuno statuto privilegiato riguardo agli altri componenti della natura. Per la filosofia/teologia all’insegna della religione giudaico-cristiana, invece, Dio è autor rerum, creatore delle cose e dell’uomo, con cui il Signore del mondo-universo stringe un’alleanza privilegiata. Con la modernità si assiste infine ad una sorta di emancipazione antropologica, per la quale un poco alla volta tendiamo ad affrancarci sia dal mitico cosmo degli antichi greci, sia dal Dio biblico, iniziando a concepire il mondo a partire “dalla coscienza che noi ne abbiamo”.

Il tratto peculiare del concetto moderno di mondo ‒ sostiene Löwith ‒ sta nel ritenere che esso e le sue caratteristiche strutturali: “non sono più contemplati immediatamente, bensì sottoposti a verifica mediante determinate disposizioni sperimentali e progettati con calcolo matematico”. Già con Cartesio la comprensione del mondo parte da una radicale messa in dubbio di tutto quanto a noi appare di esso. Con la fenomenologia di Husserl la situazione poi si radicalizza poiché le cose si riducono ad essere per noi solo dei fenomeni, delle manifestazioni, non delle realtà in sé. Husserl, Heidegger e Sartre, in seguito, quasi temendo una sorta di fagogitazione da parte del mondo, non cercano più di comprendere la coscienza a partire da esso, ma pretendono di capire il mondo partendo da se stessi.

Un tale approdo non sarebbe stato possibile senza Kant che, grazie all’idealismo trascendentale, ‒ come puntualizza Orlando Franceschelli nella sua acuta introduzione al saggio ‒ “trasforma l’uomo nel «principium originarium dei fenomeni»: nel legislatore copernicano che «“prescrive” alla natura le proprie leggi e, imitando Dio, come un Deus creatus, progetta il mondo»”. In altri termini: non c’è alcun ordine del/nel cosmo che faccia riferimento semplicemente alla natura, di cui l’uomo mira ad essere il legislatore pur facendone parte, essendo figlio di Dio: creato a sua somiglianza. E non parliamo di Fichte ed alla sua intuizione dell’Io: principio primo e fondamento che si autopone e finisce per determinare le cose, col risultato di ritenere che tutta la realtà ‒ pensante e pensato ‒ finisca col risolversi nell’Io assoluto.

Schelling altresì, a detta di Löwith, resta un filosofo trascendentale post-cristiano ma non troppo; in quanto secondo tale pensatore idealista/romantico: “La natura non è già essa stessa l’ultimo principio, essa ha un principio che le è anteriore e a partire dal quale essa può essere costruita”. Anche Hegel, l’ultimo grande teorizzatore sistemico della filosofia occidentale, finisce per svalutare il mondo naturale che gli appare casuale, caduco e costituito da un insieme di mere finitezze; nonché essenzialmente privo di spirito. Non già ‒ come ritenevano i Greci ‒ un eterno cosmo che ha un logos (ordine/disegno) entro di sé.

Löwith insiste tuttavia polemicamente soprattutto su un punto: da Cartesio a Stirner e persino a Marx la filosofia moderna non riesce a prendere compiutamente le distanze dal creazionismo e dall’antropocentrismo biblici. Insomma sia la concezione meccanicistica del mondo che le varie metafisiche della soggettività si lasciano sì alle spalle la fede in un Dio creatore ed oltremondano, ma non riescono a recuperare la saggia, arcaica nozione di natura. Solo con Nietzsche il mondo torna quale era prima del cristianesimo. Un mondo ‒ sottolinea Löwith ‒ “che eternamente sussiste in sé stesso, e costantemente sorge e tramonta sempre di nuovo”. Benché l’eternità di cui tratta il filosofo di Röcken sia il permanere di un essere che costantemente muta e diviene.

Ma, in conclusione, il filosofo moderno a cui Löwith guarda con maggiore interesse/simpatia è Spinoza, per cui la natura non persegue scopo alcuno e di cui l’uomo fa parte, o meglio appartiene, senza che egli debba assumerne il ruolo di dominatore. La natura, in Spinoza, torna divina e panteistica, un po’ al modo degli antichi greci. Però il Dio creatore scompare. Resta semmai un Deus immanente che è detto sive natura, dunque equiparato/equivalente ad essa, la quale è vista in primo luogo come natura naturans, come natura che mirabilmente si riproduce, si auto-organizza e ama se stessa.

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