I due “nemici”: Matteo Salvini e Matteo Renzi

Salvini, il capo storico della Lega, ha provato a capitalizzare il 40% di voti ottenuto alle elezioni europee aprendo una crisi di governo a Ferragosto soprattutto al fine di andare ad elezioni politiche anticipate. Contava sul fermo proposito del PD di Zingaretti di procedere a nuove elezioni in caso di crisi del governo giallo-verde. Gli è andata male. Avrebbe dovuto tenere in maggior conto la resistenza dei parlamentari eletti un anno prima, o poco più, a “mollare l’osso”; e valutare bene chi controllava “davvero” i gruppi parlamentari del PD, avendoli a suo tempo preselezionati uno per uno, cioè Renzi; e l’affidabilità che poteva dare alle fermissime opinioni di Renzi contro il M5S qualora il leader fiorentino si fosse trovato in fase di “emergenza” (in tal caso nella necessità di seguitare a contare su un gruppo parlamentare “suo”, possibilità che con le elezioni anticipate per lui sarebbe sfumata, lasciandolo, dentro il potere legislativo, col culo per terra). Salvini ha dimostrato una ben scarsa capacità di previsione (carenza non da poco per un leader). Pace all’anima sua. La sua mossa ha addirittura riportato il PD al governo. Un giorno i suoi gliene chiederanno conto qualora la maggioranza tra M5S e PD dovesse durare (il che però non è scontato, tanto più dopo la scissione dei gruppi parlamentari del PD imposta da Renzi in questa folle fine dell’estate 2019).

La formazione del secondo governo Conte, basata sull’alleanza tattica tra M5S e PD, per me è stata una bellissima notizia. Ma solo perché ha fermato in extremis l’irresistibile marcia trionfale di Matteo Salvini verso il potere. In caso di elezioni la destra – la Lega con l’aggiunta di Fratelli d’Italia – avrebbe avuto la maggioranza assoluta in parlamento. Volente o nolente Forza Italia è e sarebbe stata costretta a seguire la destra vincente. Questo è pressoché certo. Per la prima volta dal 1946 avrebbe trionfato una destra nazionalista populista con basi di massa. Si dice che Salvini “non è Tambroni”, ossia il capo di governo sostenuto dal Movimento Sociale Italiano nel 1960. A mio parere chi lo dice lo afferma per ignoranza e pregiudizio. Il governo Tambroni fu solo l’ultimo colpo di coda del centrismo morente, oltre a tutto in una fase di continua espansione del movimento operaio, comunista e socialista. Quel governo Tambroni era un classico monocolore democristiano, durato neppure cinque mesi, dal marzo al luglio 1960, sostenuto dai voti, ufficialmente “non richiesti”, del Movimento Sociale Italiano, che aveva il 4.7 % dei suffragi, che però erano determinanti. Nel caso d’oggi, per contro, i nazionalisti nonché populisti di destra avrebbero avuto di certo un 40% sicuro di voti e la maggioranza assoluta in parlamento. Nessuno sarebbe finito in galera e neppure “sparato”, ma i più rosei sogni dell’antica destra si sarebbero realizzati, presumibilmente per dieci anni. Il governo alla maniera di Orban in Ungheria avrebbe trionfato in Italia, e il “lepenismo” avrebbe trionfato in un Paese chiave del Mediterraneo e dell’Unione Europea (quest’ultima già colpita in punti vitali dalla “Brexit”); e se mai l’Italia – perché da cosa nasce cosa, e il freno a mano non funziona sempre nelle ripide discese – avesse rotto con l’Unione Europea, in un crescendo di dissensi di merito, l’Unione Europea sarebbe saltata addirittura per aria. Con gioia della Russia di Putin e degli Stati Uniti di Trump, niente affatto contenti di doversela vedere con una UE che potrebbe diventare molto forte, culturalmente ed economicamente evoluta e con oltre mezzo miliardo di abitanti. E infatti oggi l’Unione Europea esulta per lo scampato pericolo ed è aperta al compromesso col nuovo governo italiano in materia economica come di migranti, anche se non è ancora certo che le rose della ritrovata armonia fioriranno (tanto più che non è chiaro se il nuovo governo italiano durerà).

Siccome io sono convinto che l’Italia si potrà salvare solo con un governo democratico forte all’interno e cercando di rilanciare il proprio riformismo sociale (o Welfare) in un contesto federale europeo – nel che era il senso “conclusivo” del mio saggio in due parti, Note su liberalismo e democrazia, qui pubblicato il 30 luglio e il 4 agosto 2019 – saluto con gioia la pax europea tra il nostro Paese e la UE. E ringrazio chi ha reso possibile questo governo (con particolare riferimento a Matteo Renzi, che con improvvisa apertura a un governo pure col M5S ha evitato elezioni politiche anticipate e soprattutto stoppato la marcia democratico-elettorale su Roma di Salvini).

Ora, si dà il caso che io, sin dal lontanissimo 1963, legga e mediti sempre con vivo interesse quello che scrive o dice Mario Tronti, nel consenso come nel dissenso. La dialettica tra riformismo e rivoluzione l’appresi proprio tramite un suo saggio sul “piano del Capitale” uscito sui “Quaderni rossi” nel 1963, saggio poi da me molto meditato e mai più dimenticato, sia pure con tutte le variazioni della storia. Lo si può leggere ancora nel classico libro di Tronti Operai e capitale (Einaudi, 1966 e poi 2013). Ora ho letto il “colloquio” tra Tronti e Carmine Fotia (Questo governo è un suicidio), pubblicato sull’”Espresso” del 22 settembre ultimo scorso. Tronti dà sul M5S lo stesso giudizio stroncatorio di Giuliano Ferrara e, sino a poco tempo fa, di Renzi. Parla di “grilloidi”. Ritiene che il PD, in seguito all’alleanza di governo col M5S, non avanzerà e non si rinnoverà affatto in senso popolare, mentre invece l’operazione salverà il M5S, che stava sgretolandosi.

Può darsi che la valutazione sugli interessi della sinistra e del PD sia corretta, ma come sempre la sinistra radicale – cui alla fine Tronti torna sempre come si fa con gli antichi amori – sottovaluta il pericolo di destra. E infatti Tronti definisce Salvini “una tigre di carta”. E invece non lo era e non lo è affatto, neppure ora, al di là del suo valore o disvalore come persona (che a confronto dei suoi pari avversari però non sfigura di certo). Il rischio del nazionalpopulismo è forte nel mondo, e fortissimo in Italia, pur non essendoci da noi o in Occidente dittature alle porte (ma la dittatura non è la sola via alla reazione di destra). Oggi non sono più tempi da olio di ricino, manganelli e prigioni contro gli avversari, almeno al cuore dell’Occidente, che non è e non era neanche cinquanta o sessant’anni fa né la Turchia né l’Egitto o la stessa Argentina o Cile; ma il nazionalismo populista resta un grave tentativo di rispondere ai mali dell’oggi tornando al sovranismo nazionale, a conduzione democratica ma “carismatica”: mentre lo Stato moderno si può salvare – con ciò salvando anche economia e diritti sociali coevi – solo rafforzando sì il potere esecutivo democratico, come vuole anche la destra, però in un quadri di divisione e bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato stesso, e comunque in un contesto “almeno” continentale, e per ciò per noi federalista europeo (nel che – lo ribadisco – era tutto il senso del mio saggio su liberalismo e democrazia già richiamato).

L’idea che il PD di Zingaretti, oltre a tutto opposto al M5S, potesse battere una destra populista del genere – una tal marea nera – andando al voto nel momento ad essa più favorevole, non sta in piedi. É vero che è una ben triste storia questa della sinistra che dà il sangue sostenendo governi poco popolari pur di salvare la democrazia, ma la cosa va vista caso per caso. Andare ad elezioni ora sarebbe stato un immenso dono della sinistra alla destra.

Dopo di che trovo detestabile la tendenza a trasformare subito la tattica in strategia, l’eccezione in regola, l’emergenza in ideologia, con animus trasformista che viene da molto lontano: da Agostino Depretis a Giovanni Giolitti, e poi a Moro e a tutti gli altri suoi successori; e, dall’altra parte della barricata (cioè “a sinistra”), da Leonida Bissolati a Nenni, e giù giù sino al Berlinguer del compromesso storico o comunque della solidarietà nazionale 1976-1978, e oltre. Per me, oggi come oggi, bastava un buon patto di governo tra PD e M5S, chiaramente d’emergenza, senza né alleanze né convergenze locali.

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Poco oltre la formazione del secondo governo Conte, c’è stata la scissione di Matteo Renzi, con formazione di “Italia viva”.

Sono stato un fautore convinto del cosiddetto “renzismo”, sino al referendum del dicembre 2016 (poi su ciò ho quasi sempre taciuto, “attendendo” gli sviluppi ulteriori). Al pari di molti riformisti, da Enrico Morando al sindaco “renzianissimo” di Firenze (Nardella), considero però questa scissione sbagliatissima. Al suo primo remoto annuncio, nel mio piccolo, su Facebook, mi sono detto “ostile” ad essa. Del resto le scissioni hanno sempre portato male alla sinistra (e a chi le ha fatte), anche quando hanno avuto un valore aggiunto da non buttare via (come la contestazione dello stalinismo da parte di Saragat, che spezzò il partito socialista di Nenni nel 1947; o l’anticipazione del Sessantotto da parte del PSIUP, sorto nel 1964 contro il governo democristiano-socialista). E poi, gira e rigira, gli scissionisti, con piccole variazioni, da oltre cinquant’anni si fermano al 4%; e in termini probabilistici questa sarà pure la sorte del nuovo movimento di Renzi (anche se in tempi di “società liquida” non è certo; ma anche se avesse successo, il che è per ora alquanto improbabile, che c’importa di un nuovo movimento democristiano?).

Tuttavia non condivido affatto – per usare l’espressione utilizzata da Marx nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873 contro quelli che trattavano Hegel come un “cane morto” – l’idea che Renzi sia da vedere come un “cane morto”. Penso a quelli che lo vedono responsabile persino della scissione di Liberi e Uguali di Bersani e D’Alema, che dopo aver orchestrato una campagna accanitissima contro il referendum voluto dal loro stesso PD, e votato da loro in parlamento, e dopo aver brindato alla sconfitta del proprio partito, se ne sono andati a pochi mesi dalle elezioni. Penso, inoltre, a quelli che non vedono che è stato proprio Renzi, dopo sette anni in cui i post-comunisti e “veri socialisti” se n’erano scordati, a far aderire il PD al Partito Socialista Europeo nel 2013. Penso a quelli che negano che i mille giorni di governo di Renzi abbiano pure portato diritti civili nuovi importantissimi per tutti, 80 euro in più al mese, per sempre, a dieci milioni di persone disagiate, e anche una ripresina economica, subito affossata dal governo M5S-Lega. Penso a quelli che non vedono che è proprio stata la sconfitta del referendum del 2016 e il conseguente crollo del carisma di Renzi a tirare la volata a Salvini, facendo quasi trionfare la reazione. Penso a quelli che si scordano del fatto che – quale fosse l’intenzione per cui lo faceva, che può interessare il suo psicanalista o sua moglie – è stato solo il colpo di timone di Renzi a fermare elezioni anticipate già sicure (e quindi – cari miei – “la destra populista” più importante in Europa, a pochi passi dal potere in un Paese chiave dell’Europa). Penso a quelli che non vedono che il disegno del “nuovo” Renzi, proprio in quanto punta a ricreare una forza moderata e centrista con basi di massa, fa concorrenza soprattutto a Forza Italia, strappando consensi proprio nell’area di centro che serve e servirà a Salvini.

Tutto giusto allora?

No, perché non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti i democristiani; e li ho subiti con fastidio, riluttanza e non pochi dubbi persino quando ero un socialcomunista. Non posso negare che gli statisti democristiani abbiano pure fatto importanti riforme (sol che si pensi a Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Carlo Donat Cattin e Aldo Moro), oltre che molte porcherie; ma “il centro” si è sempre fatto “dominus”, “almeno” dal 1876 in poi, corrompendo o la destra o la sinistra, impedendo la democrazia dell’alternativa tra destra democratica e sinistra democratica, e per ciò inquinando le basi morali e finanziarie dello Stato, sino ad accumulare i 2300 miliardi di euro di debito pubblico che ci ritroviamo e l’illegalismo e malgoverno che tanto male hanno fatto all’Italia specie da Roma in giù. In sostanza io considero, esattamente come Salvemini, il trasformismo come il male quasi perpetuo dell’Italia: perché quando tu – non in condizioni eccezionali (in cui pure Peppone e don Camillo si mettevano d’accordo nottetempo), ma normalmente, per intere legislature o decenni, metti insieme il diavolo e l’acqua santa, i riformatori e i moderati, i rivoluzionari e i conservatori, la sinistra e il centro o la destra e il centro, e magari pure la sinistra, poi non devi stupirti se – mentre le parti vengono quotidianamente meno ai loro principi e fini più cari, quali siano stati o siano per ciascuna di loro – la corruzione dilaga; non devi allora stupirti se i piccoli cialtroni e i grandi cialtroni spesseggiano, perché tanto, per quelli “di mondo”, “tutto è uguale”; non devi stupirti se salta il banco; se perdi il controllo della spesa pubblica, nella “logica” per cui finché ce n’è viva il re e quando non ce n’è più viva Gesù.

Renzi prova a rifare la Margherita, o la DC. Non m’interessa. Io sono sempre per l’alternativa tra sinistra-centro e destra-centro. Di centro nella storia d’Italia ne abbiamo sempre avuto troppo,

Uno però può dirmi: “Ma te ne accorgi solo adesso? Non avevi capito che Renzi era un democristiano, estraneo alla sinistra?” Piano, amici. Non siamo troppo schematici. Dai vecchi tempi molta acqua è passata sotto i ponti. Anche Dario Franceschini è un purissimo democristiano (soprannominato dai renziani “Arnaldo” perché visto come emulo di Arnaldo Forlani). Anche Rosy Bindi e persino Prodi hanno un che di democristiano. Prodi nella prima Repubblica era addirittura il presidente dell’IRI. Non ha senso tirar fuori gli alberi genealogici: ci sono gli ex comunisti come ci sono gli ex democristiani. Certo ognuno ha in sé cromosomi antichi, ma non è il caso di esagerarne la portata.

Renzi poteva avere un altro destino. Era possibile, e io ci ho sperato molto. Il giovane si era laureato con una tesi su Giorgio La Pira, che la destra considerava un “comunista bianco”. Più oltre è stato legato a Mino Martinazzoli, un galantuomo leader del nuovo popolarismo. Ha partecipato alla fondazione del PD. Lì per due volte – la seconda dopo una storica sconfitta – è stato eletto, in primarie, dal 70% dei votanti legati al PD. Ha portato il PD nel Partito Socialista europeo. Ha preso per anni a modello Tony Blair, ossia il socialismo europeo di destra. Solo dopo la sconfitta del referendum è tornato via via alle sue origini, prima aprendo al proporzionale – lui che era stato il campione del maggioritario con congruo premio di maggioranza alla prima lista – tramite la legge elettorale di Ettore Rosato, da lui ispirata, e ora scindendo a freddo il PD, per ricreare una forza di centro. È deciso a sostenere il governo Conte, ma sfruttando il carattere indispensabile dei suoi gruppi parlamentari, specie in Senato, per contare su tutte le decisioni e nomine importanti, condividendo oneri, ma pure onori. Tuttavia non c’è ragione di negare che miri anche, davvero e innanzitutto, a raccogliere, intorno al “partito” di centro (Italia Viva), in cui si pone come capo carismatico, un ampio consenso. L’operazione non va troppo deplorata, da sinistra, perché potrà danneggiare soprattutto Forza Italia, strappando ad essa consensi, colpendo così un’area importante per Salvini. Anche se è più probabile che in caso di elezioni Italia Viva non abbia successo alcuno, facendo fare a Renzi la stessa fine di Rutelli o di Casini. Per riuscire, comunque, l’operazione Renzi richiede un’ulteriore espansione del sistema proporzionale, tanto che la dichiarazione di essere per il maggioritario, ma pronto a non mettersi di traverso se il governo proporrà il proporzionale, risulta una piccola foglia di fico per coprire la necessità del proporzionale.

Io, tuttavia, resto per la democrazia delle alternative: quella in cui ci sono due poli democratici in alternativa, necessariamente fondata su un maggioritario di collegio a doppio turno. Considero la sconfitta del referendum del 2016 una sciagura nazionale e un regalo alla destra, quali fossero le motivazioni, talora anche giuste, dei critici. Allora è stato mancato l’obiettivo di “blindare” la forma di governo democratica da posizioni liberaldemocratiche e con un forte leader di centrosinistra, tramite un Senato escluso dal voto di fiducia al governo e il sistema elettorale a due turni con premio di maggioranza. Ma la storia ha la testa dura e siamo stati quasi sul punto di veder realizzata l’istanza bipolare, respinta nella forma e con la leadership di centrosinistra, nella forma e con la leadership della destra populista, nazionalista xenofoba, presidenzialista e tendente a indebolire sempre i poteri del parlamento e l’autonomia dei giudici (e non solo ad assicurare il rapido funzionamento della giustizia, e un po’ più di stacco dalla politica politicante).

Sono per una forte governabilità democratica in cui la parte di sinistra e di destra, entrambe con un centro subordinato, si confrontino chiaramente e senza l’atavica faziosità, disprezzo e delegittimazione della parte opposta. Riconosco che però potremmo arrivare al risultato auspicato anche con la proporzionale. In teoria oggi basterebbe un proporzionale con sbarramento almeno del 5%, e un piccolo premio di maggioranza, anche solo tra il 10 e il 15%, alla “prima lista” che abbia raggiunto almeno una certa quota di voti (poniamo il 20); ma per ragioni che non sto a spiegare so già che non accadrà (anche se vorrei sbagliarmi). Mi piacerebbe moltissimo un maggioritario a doppio turno di collegio, e lo voterò anche se dovesse proporlo il diavolo in persona. Potrei accettare il semipresidenzialismo come il mero premierato, ma anche un primo ministro di legislatura. Quello che a me interessa è che ci sia un solo governo tra un’elezione e l’altra (il resto lo considero un mezzo).

Io passo da tanti anni per un riformista (già nel PCI dell’ultimo Berlinguer), ma non so neanche se sono davvero riformista invece che un socialista e democratico rivoluzionario (un riformatore, oggi rosso-verde). Non mi sono mai pentito di aver lottato negli anni Sessanta per il potere operaio nelle fabbriche. Sono per tutte le forme possibili e immaginabili di autogestione, cogestione e partecipazione agli utili delle imprese da parte dei lavoratori. Sono per un cooperativismo integrale. (Tuttavia non credo affatto nello statalismo, se non in campo scolastico, sanitario e pensionistico; e so che “un certo Marx”, ma dal 1921 pure Lenin e Bukharin, la pensava come me). Sono anche per un fortissimo ecologismo, anche se non capisco come si faccia a non vedere che la cosa più ecologica da fare sia quella di togliere in qualunque modo “la monnezza” dalle strade (la seconda è il piantare quanti più alberi sia possibile, come ci ricorda Renzo Penna; e la terza l’avere solo auto elettriche, ed anche vere piste ciclabili chiuse alle auto, con massimo incentivo della cultura della bicicletta sin dall’infanzia). Sono anche favorevolissimo a un forte sindacalismo proletario, di lotta, perché gli effetti nocivi della globalizzazione non possono essere accettati dai lavoratori come un “destino cinico e baro”. Sono stato e sono perciò favorevole alla politica sindacale di Maurizio Landini, e mi ha fatto e fa un gran piacere che sia segretario della CGIL. Ma posto tutto ciò, sono però assolutamente convinto di due cose: che non si vada da nessuna parte senza un forte federalismo europeo e senza un forte e stabile potere democratico di governo all’interno. In buona sostanza il mio “riformismo” al 90% è stato ed è di tipo istituzionale, basato sul maggioritario a due turni: contro il trasformismo e contro l’instabilità cronica dei governi, che secondo me sono stati i due principali mali d’Italia dal 1876 (quando nacque il riformismo) all’ottobre 1922 (quando prese a morire il liberalismo) e dal 1948, e soprattutto dal 1964 (quando si fece organica l’alleanza tra democristiani e socialisti), ai giorni nostri. Se noi avessimo governi in grado di durare necessariamente tra un’elezione e l’altra, nel primo anno (anche contro i sondaggi) farebbero le cose impopolari necessarie a tenere in piedi il baraccone, a curare il malato con ovvie cure da cavallo, lasciandolo strillare; e poi tutti, nei tre o quattro anni successivi, ne sarebbero contenti. Siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, un Paese bellissimo, simpatico e in cui moltissimi hanno casa loro e vivono bene (anche se una minoranza sociale ragguardevole più o meno del 20% sta male, e va aiutata); ma da noi non funziona più niente: né il potere esecutivo (troppo volatile per poter governare) né il legislativo (quasi totalmente sterilizzato, in un parlamento di “nominati” solo sanzionati dal popolo e perciò ascari di pochi “grandi” capi, veri oligarchi), né il giudiziario (a causa della casta e degli eccessi di politicizzazione, e soprattutto per i processi interminabili). Fare un treno tra Stato e Stato; aprire i cantieri senza dover temere i colpi di testa di burocrati sempre più ossessionati dalle procedure per timore di qualunque procuratore; togliere la spazzatura dalle strade dalle principali città o metropoli centromeridionali, facendo inceneritori o termovalizzatori o quant’altro serva a evitarne l’accumulo; elevare il livello degli studi e della ricerca; sconfiggere la criminalità organizzata, mandare i delinquenti in galera, ma non in celle basate su forme indecenti di coabitazione medievale; garantire il diritto costituzionale a processi equi e rapidi, e così via, è diventato difficilissimo; e tutto ciò non consente né di abbattere il debito pubblico né di attrarre cospicui investimenti. Ma proprio di questo avrebbe bisogno la povera gente e la gente “comune”, che spesso per reazione vota per la Lega. In sostanza se lo Stato funzionasse decentemente, come in Francia e Germania – i paesi con cui ci confrontiamo e dobbiamo confrontarci da secoli – l’Italia correrebbe: tanti vorrebbero investire qui, e il Paese potrebbe pure diminuire fortemente il debito pubblico e smettere di gettare troppi soldi dalla finestra, pagando tasse come a Stoccolma per avere i servizi di Roma.

Solo che il reale è sempre più irrazionale. Accade l’opposto. E ora ci si mette pure Renzi, con una scissione di cui non c’era proprio bisogno. A dire la verità temo che siamo precipitati in una decadenza tale che fatico a vedere la luce in fondo al tunnel e sono spesso tentato dall’antipolitica (se non fosse per il detto gramsciano – però scritto in galera per farsi forza – “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”).

Vedremo. Ci sono comunque tante cose buone da studiare, pensare e fare, specie nella società civile. E poi, come diceva Rossella O’ Hara in Via col vento, “Domani è un altro giorno”. Ma quale?

di Franco Livorsi

(franco.livorsi@alice.it)

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