Equilibrio oltre gli estremismi! Riflessioni attuali sulla famiglia

 Va da sé: quando si tratta di questioni eticamente sensibili quali divorzio, aborto, unioni civili, genitorialità omosessuale, ruolo della donna, le passioni si scatenano, l’una parte contro l’altra armata. In questi giorni è il caso di una questione che riassume tutte le altre appena menzionate: la famiglia. Il XXIII Congresso mondiale delle famiglie, che si tiene a Verona dal 29 al 31 marzo,  è la voce che vuol farsi sentire forte, grazie al risalto internazionale e alla partecipazione di esponenti di primo piano, al fine di sostenere la famiglia cosiddetta “tradizionale”, o anche “naturale”. Si tratta, escludendo le interpretazioni più retrive, della famiglia monogamica, eterosessuale, procreativa, vocazionalmente duratura a vita, che prevede una chiara distinzione di ruoli tra donne e uomini; di contro essa è generalmente critica verso aborto, divorzio facile, unioni civili, coppie omosessuali-omogenitoriali, per non parlare delle cosiddette teorie e pratiche gender (che propugnano l’indipendenza del genere dal sesso biologico). Dunque da una parte le famiglie tradizionali, dall’altra parte le cosiddette “nuove famiglie” o “famiglie moderne”, che comprendono, laddove è ancora sostenuto un embrione della nozione di famiglia, le convivenze più o meno transitorie, le unioni civili con o senza obbligo di fedeltà verso il coniuge, le unioni omosessuali, le “famiglie” formate programmaticamente da un/a single con prole, e pure le famiglie “ricomposte” con figli provenienti dalla relazione di uno o di entrambi i partner con un precedente partner, ecc.

E’ una divisione naturalmente schematica: non tutti i tratti rispettivamente elencati sotto i due tipi di famiglia sono parimenti sostenuti da tutti coloro che aderiscono all’una o all’altra tipologia di famiglia (ad esempio vi è pure la famiglia omogenitoriale, che concepisce l’unione in senso monogamico e duraturo). Sempre schematicamente si può dire che la famiglia tradizionale afferma – considerando il modello sociologico sottostante – il primato della comunità sull’individuo, sì che la coppia e la famiglia sono intese come un’unità sopraindividuale, “collettiva” in certo senso;  l’altro tipo privilegia invece l’individuo e i suoi diritti, sì che la famiglia è concepita piuttosto come somma di individui, indebolendo di fatto la nozione stessa di famiglia.

I motivi di contrasto di per sé già imponenti sono eccitati in questi giorni dall’adesione al congresso di Verona da parte di movimenti e partiti politici, più per ragioni elettoralistiche, in vero, che non per diretta consequenzialità dalla propria visione ideologica (dove sussiste) o socio-economico-giuridico-politica. I critici di questo congresso, dal canto loro, in fondo paventano che la riflessione sui valori della famiglia sia un pretesto per sollecitare controriforme nell’ambito di quei diritti civili (aborto, divorzio, unioni civili, fecondazioni eterologhe, diritti delle donne, ecc.) riconosciuti dalle legislazioni di quasi tutti i paesi occidentali. (In questo senso si muove significativamente l’intervento di Emma Bonino e Silvia Manzi su Il Corriere della sera del 17 marzo, prima ancora di aver conosciuto il contenuto delle relazioni che saranno presentate al congresso). Il risultato di questo tipo di approccio è che si rischia di trascurare lo specifico tema della famiglia e del suo senso nella nostra società, cui il congresso dovrebbe essere vocato, anteponendovi le proprie preoccupazioni politiche e giuridiche.

 Del resto sulle questioni eticamente sensibili la divisione è abbastanza trasversale alle varie forze politiche e solo grosso modo la destra è fautrice della famiglia tradizionale e la sinistra aperta alle “nuove famiglie”. Pertanto sarebbe bene che le decisioni legislative sulle questioni eticamente sensibili correlate alla famiglia, venissero lasciate alla libera coscienza dei cittadini e dei loro rappresentanti. Del resto il solo partito in Italia nato specificamente attorno alle questioni eticamente sensibili  – escludendo la fugace esperienza del partito antiabortista di Giuliano Ferrara, alleato con Forza Italia – è il partito radicale fondato da Marco Pannella in nome dei “diritti civili”: ebbene, esso si è sempre mosso con certa libertà tra sinistra e destra. Non è dunque su questo piano dei per altro contingenti schieramenti partitici che vorrei qui pormi, bensì sul piano di alcune questioni di fondo concernenti la famiglia e i mutamenti cui è dato assistere nel nostro tempo. Vorrei attestare come gli estremismi riscontrabili in ciascuna delle due parti su menzionate si basino su presupposti discutibili; dunque occorrerebbe una riflessione più pacata e di più ampio respiro su che cosa è famiglia e sui suoi “valori”.

I tradizionalisti fanno spesso appello alla nozione di famiglia “naturale”, quella formata da padre-madre-figli, stabilizzata nel tempo e costruita sulla base della differenza sessuale dei due partner e sulla base della procreazione per via del loro rapporto sessuale. A questa nozione di famiglia spesso essi saldano come un tutt’uno il modello di famiglia ad oggi  prevalente in Occidente: mononucleare e neolocale  (cioè la sua organizzazione in singolo nucleo autonomo, separato anche spazialmente dalle famiglie di provenienza o da quelle dei consanguinei). I sostenitori delle famiglie moderne, o meglio gli ideologi delle stesse, al contrario attaccano frontalmente il concetto di natura, imputato di una visione astorica e dunque “essenzialista” (espressione acriticamente entrata nello slang, al pari di un insulto, senza che mai venga seriamente tematizzato il nobile concetto di essenza).  Sbagliano a mio avviso gli uni e gli altri.

I primi sbagliano nella misura in cui pensano che la natura sia di per sé giustificativa di norme comportamentali: nel qual caso non si vede perché non si dovrebbe seguire più o meno fatalisticamente anche ciò che di dannoso, di malato, di “inumano” vi è in natura. Sbagliano anche gli altri nella  misura in cui le norme comportamentali sono ritenute meri costrutti sociali e dunque sempre contingenti. Da una parte abbiamo un determinismo naturalistico improbabile, anche perché insensibile ai mutamenti storico-culturali, dall’altra parte un costruzionismo sociologico che prevede una normazione cangiante in funzione della cultura e del potere in auge al momento. Le due impostazioni appaiono destinate allo scontro frontale. Ma proprio una più attenta lettura di ciò che è “natura” permette di superare i due estremismi e di aprire più convincenti prospettive.

Lungi dall’esser qualcosa di statico e immutabile quasi un’essenza eterna, la nozione di natura, che etimologicamente viene da nascor, nascere, originariamente dice di una genesi, di uno sviluppo. In questo senso la natura è sì un dato che ci è precostituito (precostituito nella fattispecie è il dato biologico della sessualità, maschile o femminile, e il modo “normale” della procreazione, ecc.), ma è anche un che di sorgivo, soggetto alla processualità e alla variazione  (nella fattispecie è da notare che intersessualità biologica, transessualità e tendenze omosessuali sono pur sempre fenomeni dati in natura). E soprattutto la stessa natura di homo sapiens è quella di essere anche intelligenza e dunque cultura. Pertanto sta al discernimento da parte dell’essere umano il fatto di individuare e premiare ciò che nei dati naturali va nella direzione di una variazione che sia crescita e sviluppo.

Sul versante opposto, quello degli ideologi delle “famiglie moderne”, negare o sottovalutare che la datità biologica è condizione necessaria dello stesso esistere culturale –  ritenendo che vi siano solo determinazioni individuali o sociali, e che tutto in natura sia indefinitamente manipolabile – è tagliare il ramo dell’albero su cui sediamo. La cultura, la società possono costruire correttamente prassi e norme comportamentali solo lavorando entro e su quei vincoli d’ordine biologico e psicologico già dati e comuni ad ogni cultura. Anzi, compito di ogni sana cultura è quello di discernere e premiare quegli orientamenti già dati, che vanno nella direzione della crescita in termini di qualità di vita e di felicità di esistenza per tutti.

Cerco ora di stringere in ordine al tema della famiglia. Alla luce della premessa di cui sopra sul concetto di natura, nonché alla luce della storia della famiglia quale si è dispiegata nei millenni, conseguono due cose. Da una parte la famiglia si è strutturata nelle forme più disparate a seconda delle epoche e delle culture considerate, ma non v’è cultura che non conosca qualche forma di famiglia (gli esperimenti di promiscuità sessuale e di allevamento collettivo della prole si sono rivelati alquanto precari, mentre scarsamente comprovata è la tesi di un’originaria promiscuità sessuale dell’umanità). Dall’altra parte al di sotto delle disparate forme di famiglia sono presenti taluni invarianti, correlati alle funzioni biologiche ineludibili ai fini della sopravvivenza del gruppo umano. Questi invarianti consistono, oltre alla necessità di un mutuo sostegno tra i membri del gruppo, segnatamente nella necessità di proteggere la prole che, nata filogene­ticamente prematura rispetto ad altre specie animali, esige un lungo periodo di cure materiali ed educative; inoltre consistono nella necessità di proteggere la madre, più fragile in gravidanza e puerperio. Tutto ciò induce a sollecitare la presenza coadiuvante di una figura paterna, che pertanto dovrà riconoscere la prole come sua o di sua competenza; e dunque induce a una stabilizzazione della relazione tra i partner della coppia genitoriale. (E’ una stabilizzazione per altro favorita dalla possibilità di accoppiarsi in ogni momento, grazie alla cessazione dell’estro nella femmina umana: è un esempio di un dato naturale valorizzabile in senso culturale, a vantaggio del perdurare della relazione di coppia). Ebbene, su questi invarianti biologici e transculturali si innesta ogni cultura, nel senso che da un lato nessuna cul­tura può prescinderne, dall’altro ciascuna soddisfa nei modi a essa propri alle suddette necessità, dando luogo alle più disparate forme di famiglia.

Pertanto, come scriveva il grande antropologo Claude Lévi-Strauss: “Tra la natura e la cultura la famiglia, nelle forme che assume attraverso il mondo, realizza sempre un compromesso”. La famiglia è un fatto naturale per quegli ineludibili compiti cui ha da assolvere ai fini della sopravvivenza del gruppo, e ad un tempo è un fatto culturale, poiché ogni cultura organizza un tipo di famiglia che assolve a quei compiti in modo funzionale al proprio specifico assetto socio-economico e valoriale, o quanto meno in modo coerente con esso.

Questo carattere storico delle forme di organizzazione della famiglia, si noti, non coinvolge solo la forma mononucleare piuttosto che la plurinucleare (patriarcale), la monogamica piuttosto che la poligamica (poliginica o poliandrica), ma coinvolge la genitorialità stessa: a volte la genitorialità sociale o giuridica è scissa dalla genitorialità biologica. Non è solo il caso dell’adozione. La gestazione per altri ha i suoi precedenti, mutatis mutandis, nei contesti in cui la continuazione della stirpe è un valore primario e la sterilità una maledizione: un’altra donna del clan, in genere ma non necessariamente una serva, è chiamata a dare una discendenza all’uomo col consenso, quando non con la sollecitazione, della legittima moglie rivelatasi sterile (ed è prassi che si trova accettata pure nella Bibbia). La paternità legale, poi, nelle culture matrilineari appartiene allo zio di parte materna, pur in presenza del padre biologico con cui la moglie-madre si incontra occasionalmente; e tale paternità poteva appartenere pure al defunto, laddove, come nell’antica usanza del levirato, il fratello del defunto doveva sposarne la vedova (anche per comprensibili ragioni sociali) e i figli che ne fossero nati portavano il nome del defunto. Sono prassi oggi eticamente respinte, e quanto meno non necessarie, nel contesto della nostra cultura.

Dunque la domanda che oggigiorno va correttamente posta, al di là della (falsa) contrapposizione natura/cultura, è quali siano la forma o le forme di organizzazione della famiglia che meglio rispondono alle suddette ineludibili esigenze nel contesto della nostra attuale società e dei valori in generale abbracciati (la famiglia è valore in sé solo in quanto risponde a quelle necessità naturali, ma nelle sue forme storiche si organizza secondo la scala di valori in generale abbracciati in quel dato contesto). In particolar modo i nuovi tipi di famiglia, le “famiglie moderne”, vanno valutate non già in base ad astratti modelli di famiglia naturale, o presunta tale, ma in base all’efficacia nell’assolvere ai compiti ineludibili per ogni forma di famiglia, nel concreto contesto sociale, culturale ed economico attuale.

Sotto questo profilo almeno due cose sono assodate, e le rilevo tra le altre perché concernono l’indicazione delle migliori condizioni di sviluppo psico-sociale della prole (il cui soddisfacimento è tra i compiti primari della famiglia). In primo luogo mi riferisco alla ottimalità, a parità di altre condizioni, della famiglia duratura nel tempo, specie a seguito del carattere di gruppo mononucleare e neolocale, e dunque di gruppo isolato dal parentado, proprio dell’odierna famiglia occidentale. Infatti, secondo la stragrande maggioranza degli studi, divorzi, instabilità e precarietà relazionali tra le figure genitoriali, etero od omosessuali che siano, sono predittivi di sviluppi disagiati quando non perturbati della prole sotto il profilo psico-sociale in ogni tipologia di famiglia; inoltre le stesse tipologie di famiglie ricomposte presentano una maggior suscettibilità ad ulteriori separazioni o divorzi rispetto alle famiglie di prima costituzione.

In secondo luogo, anche se su questo punto non v’è unanimità tra gli studiosi, l’affettività e la cura genitoriali sono condizioni certamente indispensabili e di primaria importanza per il sano sviluppo psico-sociale della prole, ma da sole non offrono le condizioni ottimali: un fattore favorevole al sereno sviluppo dei figli è altresì la coincidenze dei genitori sociali con quelli biologici.  Nelle famiglie con figli da fecondazione eterologa (sperma od ovocita dato da terza persona), o con figli programmati entro coppie omosessuali, o concepiti da donna single inseminata da sperma di persona sconosciuta, pur con le differenze del caso aleggia l’inquietudine attorno alla figura del terzo assente (l’altro genitore biologico). Lo si è rilevato specie nelle coppie lesbiche. In ogni caso nei figli così concepiti, una volta cresciuti resta aperto uno spinoso interrogativo esistenziale (e anche pratico: problemi di eventuali patologie ereditarie): “Ma di chi sono figlio/a?”. Ed è un interrogativo suscettibile di facilitare disturbi di tipo depressivo. Che il problema esista è detto anche dal fatto che in alcune legislazioni vige l’obbligo di render noto su richiesta del maggiorenne chi sia il suo genitore, donatore di ovulo o di sperma.

Non è impossibile che la cura e la sensibilità del genitore biologico e di quello sociale, tanta è la plasticità di cervello e mente umani, sopperiscano a difficoltà di origine, evitando disturbi di rilievo nello sviluppo psico-sociale della prole, ma le strade sono in salita per questi genitori e per i loro figli. “Le vie del Signore sono infinite”, si suol dire: non dimentichiamo che un Alessandro Manzoni, figlio naturale di Giovanni Verri, amante della madre, aveva nel padre Pietro solo il padre legale, mentre in Carlo Imbonati, ultimo amante della madre, stimava l’uomo ideale, e nonostante la buona dose di nevrosi che lo accompagnò per tutta la vita divenne quel che tutti sappiamo. Qui però parlo delle migliori condizioni per una realizzazione psico-sociale dei figli a parità di altre condizioni e nei grandi numeri.

Infine solo un breve cenno all’altro “casus belli” di vivace contrapposizione tra i sostenitori della famiglia tradizionale e quelli delle nuove famiglie: riguarda la questione del genere (nel senso del gender). Anche qui le soluzioni estreme partono da presupposti a mio avviso errati, inoltre paradossalmente contraddittori rispetto al generale impianto “filosofico” che sta a monte di ciascuna parte. Mi spiego. I tradizionalisti tendono a far derivare strettamente e univocamente le diverse attitudini psicologiche, le diverse prassi sociali e psico-comportamentali, che distinguono la donna dall’uomo e viceversa, dalle due diverse anatomofisiologie, la femminile e la maschile. Ma riconducendo la differenza psico-comportamentale alla mera differenza somatico-sessuale essi finiscono con lo sposare di fatto una concezione naturalistico-materialista dell’essere umano: contraddicono così gli assunti etici e religiosi cui per lo più fanno riferimento.

Di contro, sul versante opposto, la dissociazione del genere dal sesso biologico porta a ritenere che i caratteri di genere siano dei meri costrutti storico-culturali (e dunque modificabili a piacimento) – fino all’estremo per cui taluni intendono lo stesso corpo sessuato come un effetto linguistico perché, in una sorta di fallace idealismo linguisticistico, la corporeità sessuata è definita e interpretata pur sempre e solo entro una data cultura. Ma tale concezione dell’essere umano comporta una secessione della psiche dalla base biologica, a tutto vantaggio della dimensione psichico-sociale. Il che contraddice gli assunti non religiosi, non spiritualisti abbracciati quasi sempre da questa parte. Insomma entrambe le parti sbagliano facendo l’errore specularmente opposto di espungere la dimensione somatica o al contrario quella psichico-sociale nella definizione del genere. Un’equilibrata visione bio-psico-sociale dell’essere umano dovrebbe invece portare a vedere un concorso di fattori – biologici, psicologici e sociali, appunto – nella costituzione dell’identità di genere di ciascuno.

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