Dopo il fallimento della “Conferenza di Madrid” c’è ancora meno tempo.

Abbiamo ancora nelle orecchie alcuni dei commenti più duri al recente vertice sul clima di Madrid, conclusosi con un nulla di fatto. Parole come “Hanno prevalso gli interessi delle compagnie dei combustibili fossili” (detto dal portavoce di “Greenpeace”) e “e’ stata un’occasione persa” profferito in sede di conferenza stampa di chiusura, fanno pensare. L’imbarazzato appello finale a “fare maggiori sforzi, per quanto possibile” suona come una ritirata su tutta la linea, segnalando il 25* appuntamento annuale sullo stato globale dell’ambiente, come il più improduttivo e assurdo in assoluto. E questo dopo le promettenti giornate  del COP 21, quello di Parigi, gestito con ben altro piglio.

Forse è la struttura stessa della “convention” a rendere inapplicabile qualsiasi decisione, vista la possibilità di esercitare il diritto di veto da parte di ognuno dei circa duecento Paesi partecipanti.

Sembra quasi che i negoziatori e i ministri abbiano vissuto in stanze insonorizzate, sordi ai dossier degli scienziati, ai record climatici in negativo (di emissioni di CO2 e di temperature nel 2019) e alle proteste della piazza”, asscrive Sara Gandolfi sul Corriere della sera (1). Solo 84 Paesi si sono impegnati a presentare piani più restrittivi sulle emissioni di gas serra, entro il 2020. Tra questi, non ci sono Stati Uniti, Cina, India e Russia, che insieme rappresentano il 55% delle emissioni climalteranti.

Siamo ben lontani dall’obiettivo dell’ 1,5 / 2 gradi massimo previsti dalle disposizioni finali della COP 21. Un cortocircuito mentale, prima che economico o giuridico, dovuto all’incapacità della politica ad affrancarsi dai condizionamenti delle lobbies più diverse.

Ancora una volta si è registrata la vibrata protesta di rappresentanti di Nazioni lambite dai mari, specie tropicali, vanamente impegnati a dimostrare che i cambiamenti sono in atto, anzi, in continuo aumento, con erosioni di coste, aumento del livello delle acque, complessivo peggioramento delle condizioni climatiche sia per il troppo caldo che per il troppo freddo/umido. Un vero disastro, aggravato dal fatto che – come “una nave dei folli” senza timoniere – più si va verso il baratro, più si accelera il processo degenerativo, senza voler prendere atto dei dati.

Ma come mai il mondo politico (come il mondo economico e finanziario) non fa nulla per invertire la rotta?

C’è un interessante confronto che, ai più sfugge. Tutti troppo presi a difendere le proprie posizioni. Chi, con Greta, pensa che ormai siamo oltre il limite di non ritorno e che un possibile abborracciato recupero del  “come si stava prima” ci costerà carissimo. C’è invece chi, e purtroppo sono la maggioranza, pensa che siano tutte “fisime”, che non ci si debba preoccupare più di tanto e che, leggendo le ultime casuali notizie  sul Sole (dopo altre malinterpretate su mari e aria), da un po’ non compaiono macchie e sembra (“sembra” termine non molto scientifico ma abusato di questi tempi) sembra lentamente raffreddarsi, indice…. Udite udite “ di una prossima nuova glaciazione”. Su questa “strada larga”, volendo usare un paragone biblico, stanno le multinazionali, specie quelle dell’energia…anche se a volte si scoprono brecce inaspettate… Sembra (…”arieccolo”…) che pure loro stiano valutando di continuare a fare profitti, ma in modo “green”.

E’ il caso del più volte citato dott. John Brown che fin dal 1997 affermava che “è evidente un collegamento tra il riscaldamento globale – e le alterazioni climatiche in atto – e le emissioni di CO2”, già allora alle dipendenze dell’inglese BP, per poi diventarne “vicecapo esecutivo”.

Ora la maggior parte delle “companies” non negano tale legame, anzi ne fanno un punto di forza, quasi una promozione di sistemi alternativi (ma non completamente “green”) di movimento. Dai “carburanti c.d. green” con alcuni componenti “depurati”, alla progressiva messa al bando del “gasolio da autotrazione”, fino al doppio canale delle produzioni simultanee di batterie ultraleggere e ultrapotenti , pur mantenendo la produzione tradizionale “fossile”. E non solo.  Alcune grandi “firme” come la Shell e la Total dal 2005 stanno continuando ad investire decine di milioni di dollari nel settore “ricerca” proprio per rendere più soft l’addio al combustibile fossile. Ancora, l’  Oil and Gas Climate Initiative  (2) , un’organizzazione nata proprio per gestire la delicata fase di transizione in atto, continua ad effettuare studi specifici su carburanti leggeri e metano. D’altra parte, come scrisse a inizio 2019 Neil Beveridge, analista della società “Bernstein”,  è “primario interesse delle compagnie” (3) tenere conto delle nuove esigenze di mercato e delle sensibilità crescenti.

La situazione non è rosea. Con un consumo mondiale di combustibili fossili che è triplicato rispetto al 1990 e con due grandi nazioni, (Cina e India) che segnano ogni anno aumenti di consumi totali pari al 10 per cento in più dell’anno prima. Tutti gli operatori del settore hanno ben presente il passaggio cruciale del testo di Beveridge, secondo cui occorrerebbero dai due ai tre miliardi di dollari per cambiare l’alimentazione del parco auto private oggi circolante negli States (passando alla trazione elettrica, soprattutto). Senza contare quindi i TIR, gli aeroplani e tutti gli altri vari mezzi di locomozione a trazione fossile, fuori dallo studio citato.

Una area di nuova esplorazione che trova, pertanto, attente alcune aziende, meno – invece – altre. Fra quelle più sollecite è il caso di citare la norvegese “Equinor”. Nel caso specifico gli investimenti richiesti per l’eolico offshore possono essere molto elevati e alcune compagnie petrolifere stanno iniziando a giocare le loro carte. E’  proprio la  norvegese Equinor, ex Statoil, a vincere un accordo preliminare il 20 settembre 2019 per costruire quello che sarà il più grande parco eolico del mondo nella Dogger Bank nel Mare del Nord al largo dell’Inghilterra orientale. Il costo previsto sarà, di 9 miliardi di sterline (circa  10 miliardi di euro).

Alcuni investitori hanno ammesso che le compagnie petrolifere avranno bisogno di tempo per cambiare.

Sono molto consapevole del fatto che si tratta di una transizione lunga più fasi“, ha per esempio affermato Adam Matthews, capo della sez. (sic) “Etica e impegno” presso il English Board Council. Tuttavia, mr. Matthews, che ha trattato più volte con le compagnie petrolifere per spingerle verso pratiche più ecologiche, ha affermato che “ci sono molti ritardatari” e che tutto il  settore petrolifero “deve muoversi“.

La distanza tra le compagnie petrolifere e ciò che gli investitori, gli ambientalisti e gli elettori si aspettano da loro sembra destinata a restringersi, ma i tempi sembrano lunghi.

Ancora una volta c’è di mezzo il “tempo” anche se la rilassatezza con cui si è affrontato il vertice di Madrid è stato tutto tranne che sollecito. Il Papa ci sta dando una grossa mano in questa campagna di sensibilizzazione, alcuni Stati (specie europei) pure. Poche, purtroppo, le aziende di peso che hanno cominciato sul serio un’opera di vera conversione. E le parole degli esperti citati sopra ne  sono, purtroppo una conferma.

.1. https://www.corriere.it/esteri/19_dicembre_15/cop25-vertice-madrid-si-chiude-il-fallimento-niente-accordo-f6679a08-1f2b-11ea-92c8-1d56c6e24126.shtml

.2..http://www.climatefiles.com/wp-content/uploads/1997/05/bp-john-browne-stanford-1997-climate-change-speech-1.pdf . Oil and Gas Climate Initiative “A catalyst for change. OGCI is a voluntary CEO-led initiative taking practical actions on climate change. OGCI members leverage our collective strength to lower carbon footprints of energy, industry, transportation value chains via engagements, policies, investments and deployment.”

.3. https://energycouncil.com/event-speakers/neil-beveridge/

.4.https://www.reuters.com/article/us-oil-emissions-investors/investors-urge-big-oil-to-follow-poster-child-repsols-climate-pledge-idUSKBN1Y80MJ

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