Il mestiere di vedova

Era nata prematura e di sesso incerto e nessuno, all’epoca, ci avrebbe scommesso. All’anagrafe decisero di registrarla femmina e di chiamarla Maria, sperando in tal modo di evocare uno sguardo benevolo dall’Alto.

A Pettorazza, paese sperduto nella pianura veneta dove Cavarzere era un sogno come Parigi, la società contadina era assai impegnata a procreare, non per dare figli al Duce, ma per darli alla terra e preferibilmente maschi. Le figlie femmine, se bruttine e stiracchiate, erano un cattivo pensiero tenersele ad ammuffire in casa.

Da quella bambina sgangherata nessuno pensava di trarre qualcosa, nonostante l’incredibile volontà di vivere e diventare adulta, come una pianticella mal cresciuta che sfidando le leggi di natura affonda piano piano le radici nella terra per essere albero. Insomma, in parte perché priva di elementi di paragone da relegarla in una percezione di disagio, e in parte per l’energia che la spingeva a sperimentare e migliorarsi, Maria era diventata una ragazzina determinata, temprata dalla guerra, che si accettava così com’era. La madre, giudicando scarse le possibilità di trovarle un fidanzato, convinse il marito a mandarla dalla sarta del paese dove imparare un mestiere col quale mantenersi.

Il piccolo laboratorio disponeva di riviste di moda da cui copiare modelli, fotografie di donne languide ed eleganti come mai ne aveva viste ed anche fotoromanzi, passione non troppo segreta della sarta sui quali sbirciare nei momenti di pausa e sognare d’amore. Doveva diventare anche lei così, elegante e “signorile”, se voleva imparare a cucirsi la vita su misura, non solo gli abiti.

Da tempo, e inconsapevolmente, era prevalsa la sua parte femminile, più femmina di qualsiasi altra. E lo avrebbe dimostrato senza dubbio alcuno … una vera ammaliatrice di provincia.

Aveva lavorato alacremente, raggiungendo professionalità inconsueta per una sarta di paese. Mettendo da parte un discreto gruzzolo di risparmi, si sentiva finalmente padrona di sé e del proprio destino. Con una conoscenza precoce degli uomini esercitata frequentando le sale da ballo, ne aveva individuato il lato vulnerabile ed una certezza: la donna, se vuole, mantiene ferma la lucidità e lei, rispetto alle donne del suo tempo, aveva il vantaggio di non poter procreare. La sua diversità da stranezza si era trasformata in elemento di seduzione. Finché… .

Maria era alta, il fisico androgino. Il viso pareva una scultura lignea dell’artigianato alpino ma incorniciato da capelli biondo ramati, arricciati dalla permanente, esercitava un’indecifrabile attrazione anche per il leggero strabismo.

Unico particolare di cui andare davvero orgogliosa erano i piccolissimi piedi, tanto piccoli da spendere cifre inusuali in scarpe decolleté, fatte su misura, dal tacco altissimo, su cui caracollava a piccoli passi da geisha fin dalle prime ore della giornata, avvolta dalle volpi sui tailleur anni cinquanta, gli orecchini pendenti. Era impossibile passare inosservata da quelle parti. E neppure qui da noi, dove Maria aveva parenti.

Il primo si chiamava Domenico. E fu un colpo di fulmine, forse l’unico amore che sposò, trasferendosi nella provincia piemontese. Lui era bello, vitale ma cagionevole. La lasciò dopo pochi anni vedova e munita di pensione. Lei volle portarselo al cimitero di Pettorazza per onorarlo di fiori freschi. Disincantata sui fatti della vita e lontana dall’ipocrisia delle apparenze, faceva prevalere il lato razionale senza opporsi ad eventi che non poteva controllare.

Il giorno del trasporto della salma le auto erano due: i pochi parenti e il carro funebre. Maria scelse di salire su questo con i necrofori.

Lungo il tragitto, nella calura estiva, il feretro correva come a Monza, seguito a stento dall’altra auto finché, a un certo punto, freccia a destra, svincolo, uscita e … dritti verso un’osteria nella campagna arsa, sotto lo sguardo incredulo dei parenti.

Ma i ragazzi sono affamati!” disse Maria.

Il feretro può attendere sul retro”, concordò di lì a poco il piccolo corteo, onorando il morto col pranzo ben innaffiato di vino e liquori cui nessuno aveva rinunciato, tanto meno la vedova. Sconfitto il ritegno, il corteo giungeva in ritardo a destinazione, accompagnato da grato rimpianto e da addobbi floreali sfiniti.

La seconda volta fu un veneto originario di Pegolotte, dall’aria solida per aspetto e intenzioni. Erano passati poco più di due mesi di lutto, ma le occasioni non possono attendere… si perdono, e Maria era lucida come il vetro.

Trascorso un periodo di decenza, il vedovo si fece avanti con la proposta di matrimonio che lei accettò a metà e ad una condizione.

Voglio la casa moderna!”, e chissà che le pareva quel lusso di vivere senza la mobilia scarna e tarlata delle case contadine. E moderna fu, proprio a Pegolotte.

Non regolarmente registrato, il matrimonio si celebrò in forma di “matrimonio di coscienza”, una pratica autorizzazione ad accoppiarsi senza scandalo sotto lo stesso tetto, con la benedizione della chiesa, conservando la pensione di reversibilità.

Del marito nessuno più ricorda il nome, tanto breve fu la storia. Il vedovo morì d’un colpo durante il viaggio di nozze. Maria, trascorsi brevi giorni di circostanza dopo il funerale, e senza avere vissuto il tempo del rimpianto, fu orbata della casa moderna con tutto ciò che conteneva dalle due figlie del vedovo, non avendo lei alcun diritto legale sui beni. Unica concessione fu la sepoltura nel cimitero di Pettorazza, dove ornare di fiori le tombe dei mariti.

Chi muore giace e chi vive si dà pace”, si ripeteva per afferrare a pieno titolo i legami con la vita. Così aveva ripreso a frequentare le sale da ballo e le feste patronali, sempre elegante e curata da far bella figura, questa volta in compagnia d’una brasiliana automunita con la stessa passione per il liscio e le danze caraibiche.

L’esperienza le aveva insegnato a non distrarsi mai più dal lato pratico della vita, considerando anche l’avanzare dell’età.

Colui che non avrà altro nome di “l’Omino della zia Maria”, era un piccolo muratore, vedovo di moglie devota e parsimoniosa. Aveva alzato muri e muri senza sosta per mettersi in proprio, accantonando risparmi che attendevano d’essere spesi per battere sul tempo la “Caterina dalle costole secche”. E quel qualcuno lo incontrò a Cavarzere, la Parigi dei pensieri di ragazze.

La signora alta ed elegante che aveva accettato di ballare proprio con lui non gli pareva vera. Stringendole la mano morbida e bianca e impacciandosi nella danza tra i piedini di bambola di lei, era caduto in uno stato di ebbrezza e prostrazione. Si era offerto di accompagnarla per farsi trovare per caso nei giorni successivi fino a quando Maria, accettato l’incontro dopo essersi ben informata, gli aveva rivelato un mistero tale da fargli salire le scale del Paradiso.

Dopo un tempo ben calcolato sulla graticola, tra rifiuti e concessioni, arrivò la proposta di matrimonio di coscienza che fu accettato a precise condizioni: “la casa moderna” a Cavarzere, cointestata come i conti in banca, e licenza di spendere modulata in seguito tra indulgenza e privazioni carnali, e tale da arricchire il guardaroba di scarpe e pellicce con ampiezza a “tre canne”, come amava far notare.

La felice unione durò più a lungo, giusto il tempo di consentire a Maria di stornare tutto il capitale a suo favore, senza lasciarne traccia agli eredi legittimi e senza che l’Omino si accorgesse d’essere diventato povero.

Il funerale rese doveroso omaggio al trapassato che tuttora divide con gli altri la permanenza “terrena”, fornendo alla vedova sfoggio d’eleganza per la visita settimanale al cimitero di Pettorazza, scortata da un aiutante in grado di reggere il pesante cesto ridondante di fiori per i mariti.

Marina Elettra Maranetto

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