Il treno

Insegnare significa anche viaggiare. Quanti di noi docenti, prima di raggiungere una sede vicina alla propria abitazione, hanno viaggiato? Praticamente tutti.

Molte volte è necessario trasferirsi nella sede di titolarità. Quando le distanze lo consentono si diventa pendolari.

Meglio il treno o l’auto? Sicuramente meglio il treno, o la corriera, a volte però la propria sede non è ben servita dai mezzi pubblici e allora bisogna utilizzare l’automobile.

Essere un pendolare comunque è sempre faticoso.

Era faticoso anche nel lontano 1985, con la differenza che allora Alessandria era un nodo ferroviario meglio servito di oggi.

Ero passato di ruolo proprio in quell’anno, riuscendo ad accaparrarmi come sede più vicina a casa… Carmagnola, ultimo centro della provincia di Torino prima di quella di Cuneo.

Era il mio anno di prova e tutto doveva filare liscio, dalla didattica ai rapporti con studenti e famiglie, dal comportamento irreprensibile alla puntualità sul posto di lavoro.

Il primo giorno di lavoro al “Giulio” sezione staccata di Carmagnola non fu molto felice, dato che per un disguido a Porta Nuova persi la coincidenza, giungendo a scuola con quasi due ore di ritardo. Comunque da quel giorno feci in modo di arrivare sempre puntuale. Quindi, che entrassi alla prima ora o alla seconda, prendevo sempre il primo treno in partenza, quello delle 5.43.

Nonostante ciò non dipendeva solo da me, a volte tutto congiurava contro le migliori intenzioni, una sosta prolungata per una precedenza, un accumulo di ritardo, un guasto al treno.

La tenuta dei mezzi non era una leggenda metropolitana. Noi rari passeggeri alessandrini del 5.43 avevamo imparato ad accorgerci se qualcosa sarebbe andato storto durante il viaggio. Uno dei segnali, prima della partenza, era l’andirivieni spasmodico del personale viaggiante o di quello addetto alla manutenzione a terra. In particolare c’era uno di questi manutentori che, tutte le volte che cominciava a battere violentemente contro le ruote delle carrozze e ad andare su e giù affannosamente lungo il binario, faceva presagire brutte cose.

Comunque, per due anni, il locale delle 5.43 per Torino fu il mio treno preferito. Scendevo a Trofarello e aspettavo la coincidenza per Carmagnola, il locale per Savona, già affollato di operai FIAT, saliti al Lingotto, che scendevano alla mia stazione.

Viaggiando feci amicizia con alcuni di questi che salivano ad Asti.

Il tragitto però, come ho già detto, non era sempre scorrevole. Per risolvere il problema ventilai ai miei genitori l’ipotesi di fermarmi a Carmagnola. Ma non se ne fece niente, almeno in quel periodo, sia per il poco favore dei miei sia perché avevo iniziato una relazione sentimentale e non volevo stare troppo lontano da Alessandria.

Quindi profusi ogni sforzo per essere puntuale sul lavoro, ma il caso e la disattenzione umana congiuravano contro le migliori intenzioni.

In molte occasioni si trattava di ritardi facilmente recuperabili con corse a perdifiato da un binario all’altro o dalla stazione all’istituto scolastico: una mattina, con il cuore in gola, mi parai davanti al locomotore del “Savona”, urlando al macchinista di aprire le porte per farmi salire. A volte la cosa era più seria e ringraziavo l’entrata alla seconda ora che mi permetteva così di “acchiappare” a Trofarello, o al Lingotto, il primo treno utile per la mia destinazione.

Quella mattina di novembre del 1985 non andò però in questo modo. Fin dalla partenza si era capito che il treno aveva qualche problema. Viaggiava ad una velocità ridotta e durante le fermate tutto cessava di funzionare (illuminazione e riscaldamento).

Ad Asti, con gli altri passeggeri, salirono due dipendenti FIAT con i quali avevo fatto amicizia. Entrarono nel mio scompartimento e dopo i convenevoli iniziammo a conversare.

Il più anziano era prossimo alla pensione, mentre il più giovane si stava preparando a fare il salto di qualità, insieme a due soci, aveva rilevato una concessionaria Volvo.

Mentre parlavamo, il convoglio giunse alla piccola stazione di Baldichieri. I pendolari salirono in carrozza, ma invece del solito sibilo che preannunciava la chiusura delle porte e quindi la partenza, udimmo un prolungato silenzio, accompagnato dal subitaneo spegnimento dei caloriferi. Pensammo ad una sosta imposta dalla precedenza ad un rapido o ad un espresso.

Ma quando si spensero anche le luci e il personale viaggiante cominciò ad andare su e giù per le carrozze tememmo il peggio.

Si preannunciava un brutto inizio di una giornata fredda, nebbiosa e piovigginosa.

Ad un certo punto fummo invitati a scendere perché il convoglio non avrebbe più potuto proseguire.

Mugugnando, prendemmo le nostre cose e scendemmo dalle carrozze. Una volta sulla banchina attorniammo il capotreno per avere informazioni. E a questo punto apprendemmo l’amara verità: la motrice era guasta e, poiché il primo treno utile si sarebbe fermato a Baldichieri non prima di un’ora o due, eravamo bloccati lì, praticamente in mezzo alla campagna.

La reazione di noi passeggeri fu immaginabile. Alcuni viaggiatori, fra i quali un anziano preside di scuola media, inveirono minacciosamente nei confronti del capotreno, che non sapendo che pesci prendere e sperando nell’aiuto del capostazione, che nel frattempo gli si era avvicinato, promise di fermare l’espresso proveniente da Roma.

Ci fu un momento di calma che fece respirare il ferroviere, però qualcosa non ci convinse perché alle parole di questo era seguita l’espressione scettica sul viso del capostazione: ma volemmo credere a quelle parole.

Nella stazioncina, come in tante che oggi sono praticamente dismesse, funzionava un piccolo bar. Vi entrammo in massa, affollandolo all’inverosimile, tutti con la stessa intenzione: usare l’unico telefono (a gettoni) presente nel circondario. Per ognuno la propria telefonata era la “più urgente” e alcuni, pur di impossessarsi del ricevitore, erano disposti a venire alle mani. Fra i primi ad avere la meglio fu il preside della scuola media che, dopo essersi appropriato dell’apparecchio, compose il numero del suo istituto continuando a sgomitare per non essere sommerso dalla calca.

Udendo la voce del portinaio, urlò:” Sono il preside M., sono bloccato a Baldichieri! Apra alle otto meno dieci e chiuda alle 8 e 20 e non faccia entrare più nessuno!”

Dopodiché, senza nemmeno salutare, chiuse la comunicazione, lasciando il ricevitore alla mercè degli altri contendenti.

Capendo come era la questione, mi misi in coda aspettando il mio turno, non avevo voglia di bisticciare o di arrabbiarmi più del dovuto.

Nell’attesa notai che il bancone era praticamente gremito da avventori che ordinavano caffè e cappuccini, consumando brioches e merende che non davano l’idea di essere molto fresche, ma tanto potevano il freddo e il nervosismo.

Quando fu il mio turno, attorno al ricevitore c’erano ormai ben poche persone, gli altri erano al bancone o fuori dal bar. Inserii i gettoni, composi il numero attendendo di udire la voce del vicario. Ma non fu così. Mi rispose una voce ignota (conoscevo ancora poche persone della succursale) che, dopo aver ascoltato un breve sunto delle mie vicissitudini, mi consigliò di arrivare in qualche modo a scuola per svolgere il residuo delle ore di lezione. Di fronte alle mie perplessità di riuscire ad essere presente per la seconda, nonché ultima, ora di lezione di quel giorno, rispose che dovevo comunque essere presente per non gravare gli altri colleghi di una seconda ora di supplenza. Rimasi interdetto. Salutai e chiusi la comunicazione. Un po’ amareggiato, uscii dal locale e mi ritrovai sulla banchina del binario n.1 insieme agli altri passeggeri in attesa dell’espresso da Roma.

Molti circondavano il capotreno subissandolo di domande. Notai che, a parte il povero uomo, non c’era nessun altro membro del personale viaggiante e anche il capostazione si era rintanato nel proprio gabbiotto.

Ogni discussione cessò quando nella nebbia si udì il fischio del treno:” Arriva! Arriva!” Gridammo in coro. Mentre noi ci allontanavamo dal binario, il capotreno si avvicinò, come Mosè di fronte al mar Rosso. Fu un attimo. In un attimo le nostre speranze si infransero.

Il treno passò, proseguendo la sua corsa fischiando, senza minimamente rallentare.

Per due secondi rimanemmo attoniti. Ma subito dopo esplose la bagarre. Aggredimmo verbalmente il capotreno inveendo e chiedendo spiegazioni. Il più arrabbiato era il preside, che agitando i pugni gli gridava in faccia: “Ma lei non capisce che ho la responsabilità di centinaia di ragazzi!”

Quello, intimorito, rispose: “Ora fermiamo il Parigi…” Non finì la frase che si alzò un coro di proteste ed improperi, ci sentivamo “cornuti e mazziati”: “Ma se non si è fermato il Roma, non si ferma certo il Parigi!” gli urlò disperato qualcuno.

“Al massimo prenderete il prossimo locale per Torino.” Ma il primo treno utile sarebbe passato almeno dopo un’ora o due di attesa.

A quel punto, il più giovane dei miei due compagni di viaggio esordì con questa proposta:” Facciamo una cosa, torniamo ad Asti, prendiamo la mia macchina, che è parcheggiata presso la stazione, e partiamo per Carmagnola, così non perdiamo la giornata di lavoro, perché qui la questione si fa lunga.”

Fummo d’accordo. Uscimmo dalla piccola stazione, mentre gli altri ancora gridavano, convinti di trovare un mezzo utile pronto a partire per Asti e invece…una volta sul piazzale trovammo il nulla: non una vettura, non una casa nelle vicinanze, non un passante. Solo in lontananza scorgemmo uno scuolabus fermo, in attesa di qualcuno.

Ci avviammo di corsa e una volta giunti a quella fermata, chiedemmo informazioni all’autista, il quale seraficamente ci disse che a quell’ora non avremmo trovato un solo mezzo né per Asti, né per altre località.

Fu una doccia fredda. Ci guardammo in faccia e quasi a tempo chiedemmo di poter salire pagando il biglietto. L’autista ci rispose di no ma aggiunse anche che se fossimo saliti confondendoci con i ragazzi avrebbe chiuso un occhio.

Ci guardammo in faccia per alcuni secondi, poi, per non rimanere nella campagna nebbiosa, salimmo alla chetichella, accomodandoci sui sedili in fondo all’automezzo, abbassandoci per meglio confonderci con i piccoli passeggeri che sarebbero saliti poco dopo.

Lascio immaginare la faccia che fecero quelli quando salirono, accompagnando ogni sguardo verso noi tre con smorfie e ammiccamenti.

Il percorso da Baldichieri ad Asti fu irreale, con noi tre quasi nascosti in fondo allo scuolabus e gli studenti della scuola media (forse quella del preside?) che tutto facevano tranne che stare seduti in maniera composta.

Davanti alla stazione di Asti tirammo un sospiro di sollievo. Scendemmo quasi furtivamente dallo scuolabus mentre i ragazzini continuavano a lanciarsi freccette di carta, a tirarsi il collo, a ridacchiare e a fare smorfie nei nostri confronti neanche troppo di nascosto.

Da lì raggiungemmo l’auto del dipendente FIAT più giovane, una Peugeot 106, parcheggiata nei pressi di piazza del Palio. Vi salimmo e partimmo quasi a razzo.

In poco tempo fummo fuori Asti, sulla strada per Carmagnola. L’autista premeva sull’acceleratore mentre la nebbia si faceva sempre più fitta, l’asfalto più viscido e le curve più insidiose. Non nego di aver avuto paura e di aver rimpianto di non essere rimasto in stazione, bloccato in attesa del primo treno utile. Ma ormai ero su quell’auto.

Giungemmo a Carmagnola, venni condotto a poche centinaia di metri dal mio istituto. L’ultimo tratto lo feci di corsa. Entrai al “Giulio” sezione staccata di Carmagnola, ansimante ma pronto per la seconda nonché ultima ora di servizio di quel giorno.

Prima però mi presentai dal vicario del preside, che, vedendomi trafelato e avendo ormai appreso delle mie vicissitudini, disse:” Bravo furbo…”

Egidio Lapenta

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