Intervista a Norberto Bobbio sul liberalsocialismo

Intervista a Norberto Bobbio sul liberalsocialismo

A cura di Franco Livorsi

Ripropongo qui una mia vasta intervista del 1992, sul liberalsocialismo, a Norberto Bobbio. In quell’anno, in totale indipendenza, accettai di essere il “Coordinatore scientifico” di dieci inserti illustrati di 48 pagine l’uno usciti – con cadenza settimanale – per i cento anni del Partito Socialista Italiano, comparsi come supplemento domenicale del quotidiano “Avanti!”. Io avevo intitolato il testo, pubblicato sul n. 6 di tale serie il 19 aprile 1992, “Intervista a Norberto Bobbio sul liberalsocialismo”, ma il direttore intitolò “Contro il determinismo positivista un originale rapporto tra liberalismo e socialismo”. Rimetto il mio titolo originario. Il resto è identico al testo a stampa citato. Mi piace qui ricordare che Norberto Bobbio era stato il Preside della mia Facoltà, quando insegnavo a Scienze Politiche all’Università di Torino, e che i miei primi corsi come titolare d’insegnamento, di “Filosofia della politica B”, erano scaturiti dallo sdoppiamento della sua cattedra, tra il 1983 e il 1986. In seguito sarei tornato nell’ambito della “Storia delle dottrine politiche”, lì e poi presso l’Università degli Studi di Milano, in cui divenni professore ordinario. Avevo con Norberto Bobbio rapporti cordialissimi, tanto che la stessa pubblicazione delle memorie di suo nonno Antonio, alessandrino (poi curata, su mia proposta, da Cesare Manganelli), era stata promossa e organizzata da me. Discussi pure il famoso piccolo e perspicuo libro di Norberto Bobbio su Destra e Sinistra del 1994 sul n. 1 di “Belfagor” del 1995. Mi capitava pure di fare con lui, ormai molto vecchio, lunghe conversazioni a casa sua, a Torino, in via Sacchi. Anche quest’intervista, che come ciascuno potrà vedere è piuttosto importante, avrei potuto pubblicarla in occasione di iniziative editoriali anche alessandrine su Norberto Bobbio, ma essendo io stesso l’autore dell’intervista preferii non farlo. La ripropongo ora, al culmine di una discussione profonda, vivace, e con molti partecipanti, su liberalismo e democrazia, avvenuta prima su “Appunti Alessandrini” e poi su “Città Futura” negli ultimi mesi.

Il periodico del liberale rivoluzionario torinese Piero Gobetti, “Rivoluzione liberale”, che prende ad uscire nel 1922, può già essere considerato “liberalsocialista”, oppure dobbiamo ritenere che Gobetti sia stato semplicemente un liberale di sinistra, con posizioni irriducibili? Il dubbio è connesso a questo fatto: Gobetti da un lato era legato a Carlo Rosselli, il leader del liberalsocialismo militante che sarebbe sorto alla fine degli anni ’20; dall’altro era molto critico nei confronti del socialismo italiano, nonostante il grande apprezzamento per il segretario del PSU [Partito Socialista Unitario], Giacomo Matteotti.

Gobetti non può dirsi propriamente un socialista liberale. Condivide coi giovani comunisti torinesi, di cui è alleato nella lotta antifascista, un atteggiamento polemico nei riguardi del partito socialista, in cui vede soltanto l’aspetto dell’interventismo statale e il pericolo del burocratismo. Gobetti risente dell’insegnamento di Luigi Einaudi in economia e di Salvemini in politica: due autori che, anche se per ragioni diverse, non sono mai stati, e non sono diventati, antisocialisti. Condivide coi comunisti torinesi l’avversione per il socialismo positivistico, che identifica col socialismo ufficiale, tanto da ritenere un dovere per la sua rivista “creare o aiutare delle tendenze di giovani che si assumono il compito di ringiovanire il partito socialista, di metterlo a contatto con gli ultimi vent’anni di cultura contemporanea” (Scritti politici, p. 735). Il che non toglie che scriva uno splendido articolo in occasione dell’assassinio di Matteotti, cui dedica il fascicolo del 1° luglio 1924. Lo definisce l’”aristocratico del sovversivismo”, il “nemico delle sagre”, il “volontario della morte”. Pur non potendolo annoverare tra i socialisti liberali da un punto di vista strettamente dottrinale perché nel momento culminante della lotta politica antifascista si dichiara marxista, mentre uno dei caratteri essenziali del socialismo liberale come del liberalsocialismo è la critica radicale di Marx e del marxismo, Gobetti ha dato origine a una tendenza presente nel Partito d’Azione, rappresentata da Augusto Monti e chiaramente esposta nel suo libro Realtà del Partito d’Azione (Einaudi, 1945), in cui è prospettata la necessità di un’alleanza tra il Partito d’Azione e il Partito comunista, alleanza che di fatto c’è stata nella Resistenza e nei primordi della vita democratica nel nostro paese.

Gobetti non è un socialista liberale, ma ospita nella sua rivista un articolo fondamentale di Carlo Rosselli, Liberalismo socialista, e lo presenta come l’articolo di un amico che non è stato estraneo alle esigenze espresse da “La rivoluzione liberale”, precisando: “Anche il nostro liberalismo è socialista se si accetti il bilancio del marxismo e del socialismo da noi offerto più volte. Basta che si accetti il principio che tutte le libertà sono solidali”. Come si vede Gobetti cerca di tirare l’acqua al suo mulino, ma a ogni modo riconosce l’importanza e la validità della formula rosselliana. In questo articolo, che ne rprende uno analogo pubblicato l’anno prima su “Critica Sociale”, Rosselli espone chiaramente e interamente il nucleo del suo pensiero cui darà forma più ampia e definitiva nel suo libro Socialisme liberal, pubblicato in esilio a Parigi nel 1930. Distinguendo il liberalismo come sistema che rifiuta perché implica l’accettazione di un determinato sistema economico, il capitalismo, dal liberalismo come metodo, cioè come “un complesso di regole del gioco che tutte le parti s’impegnano di rispettare in quanto servono ad assicurare in modo definitivo la pacifica convivenza dei cittadini e delle classi”, sostiene che il liberalismo così inteso “non è né borghese né socialista, né popolare”, anzi hanno bisogno della garanzia di queste regole proprio le classi oppresse, come se ne servì la borghesia nel momento della sua lotta contro l’aristocrazia. Proclama, in ciò seguendo il suo maestro [Rodolfo] Mondolfo, che per altro era rimasto marxista, che “il movimento socialista ci appare l’erede della funzione liberale”. Che il nuovo portatore delle istanze liberali fosse il movimento operaio era del resto un’idea dello stesso Gobetti, per il quale la nuova “rivoluzione liberale” avrebbe avuto come soggetto non più la borghesia, che aveva accettato e in parte promosso il fascismo, ma il proletariato.

Gobetti è un liberale tanto di sinistra da essere aperto al comunismo, specie di Gramsci. Al tempo stesso pare che Gobetti non abbia affatto enfatizzato il valore dell’uguaglianza, tipicamente democratico e socialista, ma semmai quello della differenza: sino alla teorizzazione del ruolo delle minoranze qualificate o élites, nella storia. Come spieghi questa contraddizione, se di contraddizione si trattava?

Hai ragione a dire che Gobetti è in fin dei conti un elitista, e in quanto tale si distingue dagli intellettuali che militano nel partito socialista che sono in rapporto con le organizzazioni operaie attraverso il partito. Gobetti, come Salvemini, diffida dei partiti. Uno dei temi costanti della sua battaglia politica è la polemica contro i partiti.Il suo libro Rivoluzione liberale, è una rassegna critica dei partiti presenti in quegli anni sulla scena politica italiana. Come il suo maestro Salvemini, egli ritiene preliminare un’opera di educazione politica, in un paese come l’Italia la cui tradizione politica è il trasformismo. Lo scopo principale della rivista “La rivoluzione liberale”, che nasce nel febbraio 1922, quando il fascismo è ormai alle porte, è, come si legge nel “Manifesto”, di mettere in evidenza “la mancanza di una classe dirigente come classe politica”, e, in altre parole, la necessaria formazione di una nuova classe dirigente, e prima di tutto di intellettuali e tecnici, che sopperiscano alla tradizionale mancanza “di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà”. Che un atteggiamento di questo genere potesse essere interpretato come aristocratico, non doveva turbare Gobetti, il quale aveva appreso da un altro dei suoi maestri all’università torinese, Gaetano Mosca, che le società sono dirette da aristocrazie, anche se si debbono distinguere le élites democratiche da quelle oligarchiche. Da un lato, egli sosteneva che la teoria di Mosca della classe dirigente “è veramente una di quelle idee che aprono distese infinite di terra alla ricerca degli uomini”; dall’altro, che chi avesse proseguito l’opera di Mosca avrebbe dovuto accentuarne “l’interpretazione democratica liberale, per mettere audacemente d’accordo i due concetti di élite e di lotta politica”. Come per Mosca, anche per Gobetti la storia era guidata da minoranze. Ma c’erano minoranze e minoranze. Il compito dei gruppi che si andavano raccogliendo intorno alla sua rivista era di preparare le condizioni per la vittoria di un liberalismo radicale, che in Italia era sempre stato minoritario, e che in quegli anni stava subendo una sconfitta storica.

Pensi che i termini liberalsocialismo e socialismo liberale siano equiparabili? E perché?

La differenza tra socialismo liberale e liberalsocialismo è prima di tutto storica: il socialismo liberale è la proposta di un socialista, come Rosselli, che considera il liberalismo come un presupposto necessario di ogni progetto socialista per il futuro; il liberalsocialismo è invece la proposta di chi parte dal liberalismo, considerato ormai insufficiente dopo il crollo dei regimi liberali per opera del fascismo e ritiene necessario arricchire il vecchio liberalismo integrandolo con gli ideali del socialismo di cui si è fatto portatore il movimento operaio. Mentre Rosselli parte da Mondolfo, che è uno dei più dotti teorici del socialismo italiano, [Guido] Calogero, il fondatore, insieme con Aldo Capitini, del liberalsocialismo, darte dalla tradzione del liberalismo radicale anglosassone di [John] Stuart Mill e di [Leonard Trelawny] Hobhouse. Dal punto di vista teorico, la sintesi di Rosselli, che è un economista, è più pratica; la sintesi di Calogero, che è un filosofo, è più dottrinale. A Rosselli Calogero rimproverò di non aver condotto a fondo la critica del liberalismo come aveva fatto per il marxismo, e di aver concepito la sintesi unicamente sul piano economico. Nonostante queste divergenze, tanto il socialismo liberale, che aveva dato vita ai gruppi di Giustizia e Libertà, quanto i liberalsocialisti, confluirono nel Partito d’Azione, di cui formarono l’ala ideologicamente più compatta e agguerrita.

Permettimi di farti una domanda in forma di breve intervento. Nel socialismo liberale, o liberalsocialismo, a me pare che vi sia una forte tendenza all’idealismo, ossia ad una visione che vede il pensiero umano come in sé infinito e come fonte della realtà (e specialmente della storia). Questa tendenza a spiegare la realtà con l’essere del pensiero, che dal Romanticismo di Hegel giunge ai nostri Croce e Gentile, si è contrapposta alle teorizzazioni sul primato della pretesa scienza e dell’economia, avanzate rispettivamente dalla cultura del positivismo e dal marxismo. Mi pare che ci sia stata un’influenza notevole di Gentile e Croce su Gobetti (per non dir di Gramsci). La forte impronta idealistica si coglie pure in Leone Ginzburg. Scrivendo un breve profilo del personaggio per la Storia del Parlamento della Nuova Cei di Milano, e studiando per ciò gli scritti politici di Ginzburg da te tanto attentamente e appassionatamente curati per l’editore Einaudi di Torino, ho avuto quest’impressione in modo netto. Ginzburg insiste moltissimo, parlando delle basi teoriche di Giustizia e Libertà, sull’idea di autonomia. E parla dell’idea di autonomia in senso che a me è parso molto idealistico. La libertà sarebbe in qualche modo un bisogno imprescindibile di non-determinazione da parte di un soggetto nato libero e che nessun’istituzione dovrebbe vincolare. La libertà individuale e collettiva sarebbe “liberazione del soggetto”, individualmente e intersoggettivamente inteso, dai vincoli esteriori, istituzionali ed economici. A volte pare che l’idealismo e il pensiero libertario s’incontrino.

Anche in [Vittorio] Foa ho sempre colto tale tratto. Ricordo di averlo sentito parlare in una riunione del PSIUP di Torino del 1969, in cui, tra operaisti, si trovò in minoranza, e che egli stesso rievoca di recente nel suo bel libro di memorie Il cavallo e la torre, edito da Einaudi. Tra le altre cose egli ci ricordava la necessità di cogliere sempre, nel lavoratore, la sua doppia identità reale: da un lato è “forza lavoro” del capitale, ma dall’altro è, insopprimibilmente, persona. Questo riferimento alla “persona” – quasi religioso – aveva in realtà a che fare, credo, con la filosofia politica di Giustizia e Libertà, che èparsa a me idealistica di sinistra. Anche le “memorie” ora richiamate mi paiono confermare il nesso tra idealismo e liberalsocialismo. Condividi tale ipotesi interpretativa? Oppure ritieni il nesso con Croce e magari con Gentile estrinseco, legato semplicemente al grande ruolo della scuola idealistica in quell’epoca: al potere spirituale-accademico dell’attualismo di Giovanni Gentile ed a quello spirituale d’opposizione di Croce in quanto unico grande filosofo d’opposizione tollerato dal fascismo?

Non ho molto da aggiungere a quello che hai detto benissimo tu. Sno perfettamente d’accordo. L’idealismo di Gentile e di Croce era la filosofia dominante in Italia. Sull’influenza di Gentile su Gramsci e Gobetti si è scritto molto. In un saggio su Gramsci e Gentile Del Noce ha addirittura sostenuto che Gramsci è in tutto e per tutto un gentiliano. Per quel che riguarda Gobetti, ritengo che vi sia stata un’influenza di Gentile nai primi anni, ma poi all’inizio della sua battaglia antifascista se ne distacca con sdegno già all’indomani della Marcia su Roma, scrivendo l’articolo I miei conti con l’idealismo attuale, in cui scrive la notissima frase sferzante: “Non da oggi ritengo che Gentile appartenga all’altra Italia”. A Croce, invece, rimase sempre fedele, dall’inizio alla fine: quando fonda la sua prima rivista “Energie nove”, scrive a Croce (e non a Gentile) chiedendogli di collaborare; in uno dei suoi ultimi scritti, Croce politico, del settembre 1925 (muore nel febbraio del 1926), dopo aver definito Croce “il più perfetto tipo europeo espresso dalla nostra cultura” scrive che l’uomo dei libri e di scienza, che è stato l’insuperabile mentore di una generazione di antifascisti, “cercherà di tener lontane le tenebre del nuovo Medioevo continuando a lavorare come se fosse in un mondo civile”. Commentando questa frase tempo addietro, scrissi che c’era in quel “come se” non solo la previsione della catastrofe di una civiltà, ma anche “la previsione illuministica del compito del filosofo, dell’uomo libero, che è quello di tenere accesa una lampada nell’oscurità che si andava addensando”. Ginzburg, come hai giustamente notato, fu un crociano ferventissimo. Tra tutti i giovani torinesi che gli si facevano attorno nelle sue frequenti visite torinesi, Croce lo predilisse, e ne ebbe altissima stima. Il libro di Rosselli, Socialismo liberale, contiene una serrata polemica contro il vecchio socialismo legato filosoficamente al positivismo, mentre i giovani avevano ormai respirato a pieni polmoni l’atmosfera di rinnovamento culturale creata dall’idealismo. Scrive: “La nuova generazione tutta idealista, volontarista, pragmatista, non capiva il linguaggio materialistico, positivistico, scientificistico dei vecchi”. Calogero, com’è noto, fu un allievo di Gentile e devoto al maestro sino all’ultimo, nonostante la radicale divergenza politica. A tutti fu comune l’idea che il rinnovamento del pensiero socialista doveva andar di pari passo con un profondo rinnovamento filosofico, ispirato all’idealismo, che aveva combattuto vittoriosamente il positivismo, il darwinismo sociale, e ogni forma di materialismo filosofico, tutte filosofie che avevano accompagnato la nascita del socialismo in Italia alla fine del secolo [XIX].

Un tratto forte di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione pare essere consistito in una certa resistenza a riconoscersi nella sinistra storicamente determinata, specie socialista. Forse questa resistenza nei confronti del movimento socialista – che pare attrarre e respingere quest’area nella stessa misura – dura sempre. Come spieghi questo fatto da un punto di vista storico ed eventualmente di storia di una mentalità?

Che vi sia stata sempre, tanto nel movimento di Giustizia e Libertà quanto nel Partito d’Azione, una tendenza a non riconoscersi nella sinistra socialista, è verissimo. Tieni presente che tanto l’uno che l’altro sono nati dopo il crollo del vecchio Stato liberale in seguito all’avvento del fascismo, e per opera di giovani la maggior parte dei quali non aveva avuto alcuna esperienza politica nell’età prefascista. Una delle ragioni del crollo fu sempre attribuita da questi homines novi, a torto o a ragione, anche al cedimento e agli errori del partito socialista. Mi riferisco in modo particolare al Partito d’Azione, di cui posso recare una testimonianza diretta. I giovani azionisti ritenevano, con una certa dose di presunzione, o forse soltanto d’ignoranza storica, che il vecchio socialismo fosse mortone appartenesse ormai al passato, e che il Partito d’Azione sarebbe diventato il nucleo di un nuovo partito socialista, non responsabile, per la sua novità, degli errori del passato. Sorto clandestinamente negli ultimi anni del fascismo, il Partito d’Azione fu sostanzialmente un partito di intellettuali, che non avevano avuto, né avevano potuto avere, alcun contatto con le masse. Bisogna avere il coraggio di dire che anche il movimento partigiano, che ebbe nelle bande di Giustizia e Libertà uno dei suoi apporti più consistenti, fu un movimento di élites, in special modo, per quel che riguarda gli uomini delle bande che facevano capo al Partito d’Azione, di intellettuali. Quando il Partito d’Azione dimostrò, scindendosi già prima delle elezioni all’Assemblea costituente, e poi con l’insuccesso clamoroso alla prima prova elettorale, riuscendo a portare alla Costituente soltanto sette deputati, la sua inconsistenza politica, molti di coloro che continuarono a svolgere attività politica entrarono nel PSI, alcuni anche nel PCI. Ma forse la maggior parte abbandonarono la politica militante. Spesso diedero vita a piccoli raggruppamenti socialisti che non si consideravano a loro agio né nel PSI né nel PSDI. Mi riferisco, per fare qualche esempio, al Movimento di azione socialista promosso da Tristano Codignola, quando il Partito d’Azione alla fine del 1947, dopo l’insuccesso elettorale, si sciolse; all’Unione dei socialisti, in cui il gruppo precedente si unì col gruppo di Europa socialista di Silone; nel 1949 sorse l Partito socialista unificato (PSU), in cui confluirono anche il gruppo di Romita. Uscito dal PSI, e la sinistra del PSI di Ugo Guido Mondolfo e Faravelli. Nel 1953, Calamandrei e i suoi amici costituirono il raggruppamento di Unità popolare, che si presenta alle elezioni del 7 giugno per impedire lo scatto del premio di maggioranza della cosiddetta “legge truffa”. Insomma, gli ex-azionisti costituiscono un insieme di uomini irrequieti, che fanno e disfano piccoli movimenti, destinati soltanto a muovere le acque del nuovo corso della vita politica italiana che si va via via assestando, loro malgrado, intorno a partiti che sono ancor oggi determinanti: una generazione ora quasi del tutto estinta.

Il liberalsocialismo è stato anche una tendenza europea, oltre che italiana. Possiamo rapidamente mettere a fuoco il tratto di fondo del liberalsocialismo internazionale? Quali sono state le concordanze e quali le eventuali discordanze, tra liberalsocialismo italiano e liberalsocialismo di altri paesi europei?

Domanda molto opportuna. Si suole credere che il socialismo liberale sia un fenomeno esclusivamente italiano. Il che non è vero. Ho già accennato all’origine anglosassone del socialismo liberale italiano. Uno dei capostipiti di un liberalismo che si apre al socialismo è John Stuart Mill. È noto che alla fine della vita Mill lasciò incompiuta un’opera sul socialismo, che fu tradotta due volte in italiano, ove sostenne che, pur avendo la proprietà individuale un lungo cammino davanti a sé, niente obbliga a credere che non possa subire qualche limitazione. Ammette che i principali difetti del sistema vigente, fondato sulla priorità della proprietà individuale, potrebbero essere corretti in modo da ottenere i vantaggi del comunismo per mezzo di disposizioni compatibili con la proprietà privata e con la concorrenza individuale. Ho già accennato a Hobhouse, di cui aveva già parlato ampiamente De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo (1925), mostrando che nel suo saggio sul liberalismo Hobhouse difendeva, oltre i diritti di libertà, l’eguaglianza delle opportunità, il diritto al lavoro e a un salario che permetta di vivere. In Francia è considerato come sostenitore di un socialismo liberale, se pure in sede puramente dottrinale. Il filosofo Charles Renouvier, che nella Nouvelle Monadologie distingue quattro posizioni rispetto alla questione sociale: quella reazionaria, quella dei liberali puri, quella dei socialisti collettivisti, e infine quella di un socialismo associazionista, che può a buon diritto chiamarsi “liberale”. In Germania mi basti citare l’opera del sociologo Franz Oppenheimer, in quattro volumi, Sistema di sociologia, che ha per sottotitolo Il sistema economico del socialismo liberale (uscita tra il 1922 e il 1929).

Beninteso si tratta di opere dottrinarie che hanno ben poca incidenza sulla prassi del socialismo come movimento politici. In Spagna, però, la situazione è un po’ diversa, perché il socialismo spagnolo ha una lunga tradizione di socialismo libertario, cioè di socialismo non marxista. Basti ricordare che l’insegna del partito socialista spagnolo è sin dalle origini “Socialismo es libertad”. Tra i teorici del socialismo spagnolo, è da annoverare Fernando De los Rios, che nell’opera principale, El sentido humanista del socialismo (1926), contrappone l’umanismo al capitalismo, e si considera più vicino a Proudhon che a Marx. Del resto, lo stesso fondatore del socialismo spagnolo, Pablo Iglesias, scrive in un articolo, Socialismo e liberalismo, questa frase: “Chi sosteneva che il socialismo sia contrario al liberalismo ha del socialismo un’idea sbagliata oppure disconosce i fini perseguiti dal socialismo. Si può avere liberalismo vero senza che il socialismo abbia trionfato?”

In sede di riflessione storica vorrei però precisare un altro punto: non solo il socialismo liberale non è un fenomeno unicamente italiano, ma non è cominciato, anche in Italia, come si suole dire, con il libro di Rosselli. Vi è un precedente importante, spesso troppo sottovalutato, nell’opera di Francesco Saverio Merlino, su cui peraltro in questi ultimi anni alcuni studiosi hanno richiamato la nostra attenzione. Vorrei citare almeno l’opera di un suo studioso e seguace, Aldo Venturini, pubblicata recentemente (1983), intitolata Alle origini del socialismo liberale. Pare che Rosselli non conoscesse l’opera di Merlino: così lo rimprovera l’anarchico Berneri che gli era amico. Per una storia del socialismo liberale non bisognerebbe trascurare un autore ancora più dimenticato di Merlino, Eugenio Rignano, autore di un libro intitolato Di un socialismo in accordo con la dottrina economica liberale (1901). Direi in conclusione che la storia del socialismo liberale è ancora da scrivere.

Un tratto forte del liberalismo anche di sinistra e socialista è sempre stato la difesa dei diritti del singolo cittadino, e l’idea che lo Stato li debba garantire, in un libero contratto con il cittadino stesso (se esso è e vuole essere Stato di diritto). L’idea del contratto tra cittadino e potere, implicita-esplicita nello Stato di diritto, pare però in contrasto con l’idealismo di cui abbiamo parlato. O no?

Giustissimo: liberalismo e affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nascono a un tempo. Basti pensare a Locke. Giusta anche la tua osservazione che l’affermazione dei diritti è legata storicamente al contrattualismo. Ancora una volta pensiamo a Locke. Teoria dei diritti dell’uomo e contrattualismo appartengono alla storia dell’illuminismo, e quindi ad una filosofia che non ha niente a che vedere con l’idealismo, specie se per “idealismo” ci si riferisce all’idealismo della filosofia classica tedesca, di cui in Italia sono stati seguaci e interpreti tanto Croce quanto Gentile, entrambi avversari dichiarati dell’illuminismo. Non dimentichiamo che il più autorevole critico del contrattualismo, considerato come un errore proprio del razionalismo e dell’empirismo illuministici, è stato Hegel, e che la filosofia dominante in Italia nell’epoca di cui stiamo parlando è stato il neo-hegelismo.

Il liberalismo socialista implica il discorso sui diritti del cittadino. Ma i diritti si evolvono nel corso del tempo. Oggi si parla di diritti nuovi, in termini di “cittadinanza” (specie in riferimento agli extracomunitari). Puoi chiarire sinteticamente tale questione?

Anche per me il problema dei diritti è fondamentale per imprimere un nuovo orientamento a una politica di sinistra, che secondo una mia vecchia convinzione non può essere che liberale e socialista. È un tema, questo, su cui sono tornato più volte in questi ultimi anni. I diritti si evolvono nel tempo: d’accordo. Nel mio libro L’età dei diritti, uno dei punti fermi è che i diritti dell’uomo non sono stati dati una volta per sempre. Chi avrebbe mai pensato, quando furono emanate le prime dichiarazioni dei diritti alla fine del Settecento, al diritto all’istruzione o al diritto alla salute? Intanto la prima grande mutazione rispetto all’affermazione di nuovi diritti è quella che riguarda il passaggio dai diritti di libertà ai diritti sociali, che sono stati richiesti dal movimento operaio e dalle correnti del socialismo ottocentesco. Il riconoscimento dei diritti sociali, oltre a quello dei diritti liberali, è la miglior prova storica non solo della compatibilità di liberalismo e socialismo, ma addirittura della necessità della loro reciproca integrazione. Calamandrei, uno dei padri della nostra costituzione, scrisse subito dopo la Liberazione un famoso saggio sui diritti dell’uomo, in cui sostenne che i diritti sociali sono la condizione stessa per la piena attuazione dei diritti di libertà. Un analfabeta è meno libero di un uomo istruito. Un disoccupato è meno libero di uno che ha un’occupazione stabile. Un uomo malato che non ha mezzi per curarsi è meno libero di un uomo sano. E così via. I diritti sociali sono stati chiamati diritti della seconda generazione, ma ora siamo arrivati alla terza e alla quarta. Premetto che la lotta per il diritto è sempre una lotta contro il potere, sia esso religioso, economico o politico. Oggi la libertà è messa in pericolo dall’enorme accrescimento di capacità di dominio che offre a chi detiene un potere il sempre più rapido e irresistibile progresso tecnologico. Dai tempi in cui Bacone affermava che la scienza è potere, i mezzi di dominio di cui possono disporre i governanti sono, proprio grazie al progresso scientifico e tecnologico, smisuratamente aumentati. Basti pensare al diritto alla privatezza, che vien messo in serio pericolo dalla possibilità che hanno i pubblici poteri di memorizzare tutti i dati riguardanti la vita di una persona, e quindi di controllarne ogni movimento senza che il controllato se ne accorga. Si pensi, per fare un altro esempio, alla possibilità che le scoperte biologiche offrono di manipolare la vita dell’uomo, onde si è cominciato a parlare del diritto all’integrità del proprio patrimonio genetico.

Un’altra ragione di aumento di richieste di nuovi diritti dipende dal fatto che accanto all’eguaglianza si è cominciato a tener conto anche delle differenze, a cominciare dalla differenza tra uomo e donna, per passare via via ai diritti dei bambini, dei vecchi, dei malati, degli handicappati, dei malati di mente, e così via. Insomma, il campo dei diritti è sempre più vasto e in pieno movimento. Si tratta addirittura di formulare nuove carte dei diritti. Quale compito più alto, e più consono alla propria tradizione, per una nuova sinistra?

Ad un certo punto, in una discussione sulla “Stampa” con Giuliano Amato, è parso ai socialisti – a ragione o a torto – che tu tendessi ad opporre liberalsocialismo e discorso dei nuovi diritti. La cosa ha un po’ turbato perché è parso a taluno che dopo essere riuscito a convincere la sinistra, in una lotta ideale di lunga durata, della validità del liberalsocialismo, tu tendessi a metterlo in soffitta, quantomeno per superarlo in avanti. O forse si è trattato di un equivoco. Forse, in tal caso, questa potrebbe essere l’occasione buona per chiarirlo. Che ne dici?

Il breve e amichevole dibattito con Giuliano Amato è stato utile, perché mi ha permesso di precisare il mio pensiero. La mia insistenza, in questi ultimi tempi, su una politica dei driritti, che dovrebbe essere il nucleo di un progetto politico a lunga scadenza per una nuova sinistra, o, se non nuova, rinnovata, è stata interpretata come un superamento del socialismo liberale, mentre è, dal mio punto di vista, una sua concreta attuazione. Socialismo liberale o, che è lo stesso, liberalsocialismo, sono formule dottrinarie, che stanno a indicare in astratto l’esigenza di far confluire in un progetto politico concreto le istanze del liberalismo e quelle del socialismo, che durante tutto il corso del secolo passato [il XIX] erano state tenute separate. Ma come formule dottrinarie debbono essere riempite di contenuti che possono variare da un’età all’altra. Sono formule tanto dottrinarie che non è mai esistito sinora un partito socialista liberale. Entrambe le formule non dicono niente circa il quantum di socialismo che deve essere di volta in volta mescolato nella pratica politica. Altro è la formula dottrinaria, altro la combinazione in sede politica che, pur tenendo conto della duplice esigenza, deve affrontare situazioni concrete. La politica dei diritti – di diritti che possano avere la natura di diritti di libertà, che richiedono soltanto l’astensione dello Stato, o quella di diritti sociali, che richiedono invece l’intervento dello Stato – a me pare la maniera per riempire di contenuti concreti quella formula e quindi di saggiarne la validità.

Mi rendo perfettamente conto che il tema dovrebbe essere meglio sviluppato e che il discorso sul rapporto, che io considero vitale, tra socialismo liberale e politica dei diritti è appena cominciato. Ma basti per ora, in questa riflessione di carattere più storico che filosofico, avervi accennato. Ci sarà modo e tempo di tornarci su un’altra volta.

(franco.livorsi@alice.it)

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