Ivano Dionigi – Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi

Se dovessimo riassumere in una formula ciò che stava al cuore degli interrogativi e dei tentativi di risposte ad essi fatti propri dai cosiddetti filosofi classici (ed ellenistici), potremmo forse coglierla nel titolo di un trattatello di Plutarco, Tis aristos bios, ossia qual è la vita migliore, ideale o maggiormente felice. Questione quanto mai problematica, anzi dilemmatica se essa finisce con l’esprimersi in due contrapposizioni esistenziali: il seguire la vita attiva o la vita contemplativa. Detto altrimenti, l’occuparsi di ciò che è collettivo, pubblico, politico oppure il fare riferimento alla sfera soggettiva, privata, appartata.

Ivano Dionigi nel suo pregevole saggio intitolato: Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi (edito da Laterza) coglie storicamente/filosoficamente nello stoicismo l’opzione per l’impegno attivo (negotium), mentre ritiene l’epicureismo incline al ritiro contemplativo (otium). Ovviamente Seneca rappresenta qui la figura emblematica dello stoico e Lucrezio quella dell’epicureo, anche se ‒ va subito precisato ‒ ogni caratterizzazione rigida è sempre una forzatura ed anche questi due pur rappresentativi personaggi non risultano poi così monolitici come potrebbe sembrare ad una prima/superficiale lettura. Certo, Epicuro aveva teorizzato che la scelta della vita contemplativa (bios theoretikos) fosse quella più auspicabile: sulla scia di Pitagora, Platone e dello stesso Aristotele. Così potremmo anche dire, schematizzando ulteriormente la faccenda, che Atene risultava all’insegna della filosofia/teoria, ed invece Roma era tutta rivolta alla pratica/politica. È un po’ quanto scrive/sintetizza Dionigi, sottolineando condivisibilmente che: ‟Al primato greco del «conoscere» risponde il primato romano del «fare»”.

Due, insomma, risultano le concezioni fondamentali della felicità espresse dal pensiero classico, ovvero quella epicurea da un lato e quella stoica dall’altro, le quali peraltro ruotano entrambe intorno a concetti chiave come metriotes (moderazione) ed equuus animus (equilibrio interiore). Per Epicuro fine/scopo del vivere e del filosofare ‒ che secondo il pensatore di Samo significa amore della saggezza pratica ‒ è l’eudaimonia (felicità): termine che deve la sua fortuna a Socrate, il quale sosteneva d’avere presso di sé un buon demone (daimon), o spirito guida, a consigliarlo sul da farsi e su come vivere al meglio la propria vita ossia su come raggiungere appunto la felicità, che per il grande maestro ateniese consisteva nella serenità interiore: frutto di un comportamento razionale indirizzato alla virtù. Ma per gli epicurei eudaimonia equivale alla fin fine ad aponia (assenza di dolore fisico) e soprattutto ataraxia (imperturbabilità o mancanza di turbamento dell’anima).

Tutt’altra concezione della felicità aveva lo stoicismo. Secondo Seneca ‒ ci ricorda infatti Dionigi ‒ summum bonum (il maggior bene possibile) è secundum naturam vivere (vivere secondo natura); la saggezza si configura quindi come dominazione ragionevole delle passioni e non come apatia e immunità dai sentimenti. Ancora, nella capitale dello stoicismo – vale a dire della filosofia che teorizza il primato del negotium e la pratica della religio (religione) come instrumentum regni (strumento di governo) ‒ l’epicureo Lucrezio rifiuta la politica, rivendicando invece l’otium e stigmatizzando la religiosità come causa di tutti i mali. Scopo del verbo lucreziano è quindi sradicare dall’animo umano i due peccati originali, le due vulnera vitae (ferite della vita): la cupido vitae, ‒ quella voluttà che si traduce in malsana passione amorosa, politica, economica ‒ e il timor mortis (la paura della morte) che illanguidisce l’animo umano con la stolta paura dell’aldilà.

Ma non è per nulla semplice schematizzare queste due nostre figure di pensatori basilari provenienti dalla classicità. Valga ad esempio quanto puntualizza Dionigi riguardo a Seneca, che: ‟dopo aver teorizzato, predicato e addirittura indirizzato la politica dell’Impero, scriverà l’elogio dell’otium, costretto al ritiro dalle circostanze avverse e dall’ostilità di Nerone”. Così l’ex protetto ed ex politico Seneca giunge verso la fine della sua vita circa alle stesse conclusioni del radicale ed escluso dal potere Lucrezio. Così pur divisi su quasi tutto quanto, entrambi risultano oggi methorioi: uomini di frontiera in grado, come senz’altro furono, di spingersi al di là del confine culturale/tradizionale del loro tempo, avventurandosi in un percorso di conoscenza in cui, dalla nostra odierna prospettiva, contano più gli interrogativi a cui essi hanno cercato – in maniera dissimile ma per certi versi paradossalmente assai simile ‒ di rispondere più che le risposte da loro date (e datate). D’altro canto, dice bene Dionigi: ‟I classici nascono postumi”.

 

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