L’ Europa populista

(*) Meglio abituarsi all’idea. L’Europa è cambiata, e non si tratta di una parentesi. Ma di una svolta. Sono almeno vent’anni che diciamo che il suo progetto politico è in crisi. Che l’unificazione mercantile e, successivamente, monetaria ha perduto la spinta propulsiva perché non è riuscita a coagulare un nuovo centro istituzionale che avesse potere e legittimità. Questo limite era emerso dapprima nella politica estera, quando l’Unione si era imballata appena si era trovata di fronte a crisi internazionali importanti. Dividendosi anche clamorosamente, come nell’intervento anglo-francese in Libia per fare fuori l’Italia. Oggi, come da manuale, le crepe si sono estese alle basi dell’edificio unitario, i partiti che sono il – sempre più debole – legame con l’elettorato. E uno ad uno i paesi membri – da quelli tiepidi ai baluardi storici – vengono investiti dall’onda populista anti- europeista. Ha cominciato la Gran Bretagna con la Brexit. La Francia si è salvata in extremis inventandosi un presidente dal volto umano, che già però perde rapidamente colpi. Meno di un anno, e il governo gialloverde in Italia ha sancito impietosamente il cambio di direzione del vento. Che ieri ha messo sottosopra anche la Svezia, il simbolo più avanzato del welfare progressista e universalista. Mettendo l’Europa in una morsa che, alle elezioni della primavera prossima, potrebbe rivelarsi fatale.

Da una parte ci sono, infatti, le spinte disgregatrici che vengono dai paesi dove i populisti già governano. E dove si intravvedono alleanze che esplicitamente mettono in discussione l’Unione, come l’asse tra Orban e Salvini. Per il momento, i toni più accesi vengono usati per la propaganda interna. Mentre nelle situazioni ufficiali – quando è in ballo la stabilità finanziaria – prevalgono moderazione e cautela. Ma è facile prevedere che il quadro cambierà rapidamente nel momento in cui, ai sei paesi in cui attualmente i populisti sono al governo, se ne aggiungessero altri. Come rischia di succedere in Svezia e un anno fa, per un pelo, non è avvenuto in Olanda. Accanto al peso diretto che gli antieuropeisti hanno conquistato, va aggiunto – insidiosissimo – quello indiretto rappresentato dal contagio verso i partiti vicini. Quei centristi che più immediatamente sentono sul proprio collo il fiato della destra nazionalista. Lo si è visto chiaramente in Germania, dove l’austerità oltranzista della Merkel è stata in buona parte alimentata dal timore di dare spazio all’ascesa della destra più radicale. E come si vede drammaticamente oggi in Italia dall’impasse di Forza Italia, rimasta succube del messaggio aggressivo del suo alleato.

È questo il dato più inquietante. La sinistra socialdemocratica, ridotta ormai quasi dovunque a minoranza, può almeno consolarsi col fatto di essere stata sconfitta sul campo. Ma la vasta area moderata, fino a poco fa saldamente egemone sotto le bandiere popolari, il gene del populismo se lo è allevato in seno. Sabato a Cernobbio, Josep Borrell, il ministro degli esteri spagnolo, ha denunciato senza mezzi termini le responsabilità della Bce, nella gestione prima di Mario Draghi, nell’innescare la crisi economica che tanto ha giovato ai populisti. E, a conferma di questa ambiguità, a dispetto delle sue posizioni apertamente reazionarie, il premier ungherese può ancoracontare a Strasburgo sull’ospitalità dei banchi popolari.

Con le elezioni europee ormai alle porte, appare sempre più evidente che lo spazio di tatticismi ed equilibrismi si è esaurito. Se ancora c’è qualche speranza di poter andare alla battaglia, bisognerà avere il coraggio di abbandonare le ideologie del passato. Proprio come hanno fatto i populisti. Lo scontro non è più tra destra e sinistra, moderati e progressisti, popolari e socialdemocratici. La guerra è per la sopravvivenza dell’Europa. Tra chi pensa che abbia ancora un futuro, e chi, invece, vuole tornare indietro.

(*) Prima pubblicazione: “Il Mattino” 09.09.2018

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