La guerra multipolare

Il riaprirsi rapido e violento della faglia palestinese apre nuovi scenari sullo scacchiere globale, accelerando il processo di scomposizione e ricomposizione delle alleanze innescato dall’invasione dell’Ucraina. Un processo sintetizzato nel termine multipolarismo, che fino a ieri sembrava riguardare le strategie a tavolino di alcune potenze regionali. Oggi cominciamo a vederne le conseguenze sul campo.

L’origine immediata dell’attacco di Hamas, infatti, è nel tentativo di allargamento all’Arabia Saudita di quegli «Accordi di Abramo» che ambiscono a coinvolgere un numero sempre più rilevante di stati arabi nel processo di normalizzazione dei rapporti con Israele. Certo, si era ancora agli inizi. Ma sarebbe stata una svolta importantissima per le ambizioni di Mohammed bin Salman, il principe reggente saudita, di ampliare la propria sfera di influenza. E, al tempo stesso, avrebbe consentito ai moderati dell’Alleanza Nazionale Palestinese di attestare la propria leadership internazionale nei confronti degli estremisti di Hamas. I missili che hanno colpito Israele hanno fatto saltare a tempo indeterminato quel tavolo di pacificazione.

Al momento, purtroppo, l’unica certezza della reazione israeliana è che rinsalderà – volenti o nolenti – molti dei vecchi legami interarabi, schiacciandoli nuovamente su un fronte filopalestinese. A tutto vantaggio del paese che appare il principale regista della escalation militare. L’Iran non è soltanto il finanziatore e fornitore di armi di Hamas. È anche il principale alleato di Putin sullo scacchiere mediorientale, e attivissimo negli ultimi mesi nello sfruttare i varchi e i nuovi spazi che la guerra in Ucraina sta aprendo nei transiti e nelle forniture di beni agricoli ed industriali. Nella ragnatela multipolare, si alzano le quotazioni iraniane e scendono – un po’ – quelle saudite.

Scendono anche – parecchio – quelle ucraine. Su due piani: materiale e simbolico. Già da qualche mese il vento degli aiuti internazionali a Zelensky era cambiato. Lo stop dei repubblicani americani non ha ancora effetti immediati, ma rende molto più arduo lo sforzo di Biden, e prelude a un brusco cambio di rotta se Trump tornasse alla Casa Bianca. Un rifiuto più esplicito viene da alcuni leader est-europei, dall’Ungheria alla Polonia alla Slovacchia. Con altri più autorevoli – come il Ministro della Difesa italiano – che tengono fermo l’orientamento a favore di principio, ma cominciano a sottolineare che «il sostegno non è mai stato illimitato per possibilità di contributi».

Forse ancora più significativo è il cambiamento simbolico che la guerra palestinese comporterà per quella ucraina. La leva più importante di Zelensky nel costruire l’alleanza antirussa è stata quella comunicativa. Trasformare l’invasione del proprio paese in un attacco alla democrazia occidentale. Questa strategia si è basata su vari fattori – dal retaggio dell’odio anticomunista alle straordinarie doti carismatiche del presidente ucraino. Ma forse il più importante è stato il monopolio dell’audience mediatica. Il fatto che l’invasione russa sia diventata il principale catalizzatore dell’attenzione dell’opinione pubblica occidentale, e di quella delle principali cancellerie mondiali. Da oggi non è più così.

La causa palestinese e quella israeliana hanno per decenni occupato la scena ideologica internazionale, spaccando paesi e partiti. Negli ultimi anni sembrava che questo vero e proprio scontro di civiltà avesse perso la cogenza e violenza che lo avevano segnato dagli esordi. Ma si è trattato di una illusione. I morti che già si accumulano a migliaia, le stragi in presa diretta che hanno invaso i social e continueranno tragicamente per mesi a presidiare il nostro quotidiano annunciano un ritorno al passato. Con l’aggravante della moltiplicazione delle linee di frattura geopolitiche che appaiono sempre più ingovernabili, e imprevedibili. Purtroppo, siamo solo agli inizi di una nuova era, l’era delle guerre multipolari.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 9 ottobre 2023)

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