La lunga camminata nel deserto del risentimento

Pubblichiamo, rilanciando (1) dal blog “Democratici & Riformisti” (a firma Giorgio Abonante, Franco Gavio, Giorgio Laguzzi) un intervento di attualità politica di sicuro interesse.

Qualche spicciolo di verità comincia a trapelare anche su quella stampa conformista che da tempo ha sempre difeso la salubrità delle politiche economiche orientate a privilegiare il lato dell’ “offerta”. Del resto, non ci si può scansare dalle valutazioni di una pregiata istituzione come il FMI, così riportate da Maurizio Ricci, un onesto columnist economico sul quotidiano “La Repubblica” http://www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2019/01/12/news/studio_fmi_corporation-216381910/

Già nel 2016, si tentò di far passare inosservata la “resa” di Olivier Blanchard – al tempo Capo economista del FMI – quando, successivamente alla crisi greca, stimò di lieve entità il moltiplicatore fiscale attraverso cui una riduzione del PIL avrebbe inciso sullo stesso PIL Ci trovammo così impantanati in una recessione ben più pesante di quanto prevista per colpa dell’austerity, poiché essa agì riducendo il denominatore (PIL) in misura maggiore rispetto al calo del numeratore (debito). Cosicché, alla fine del processo navigammo tra finanze pubbliche meno sostenibili a causa di un debito pubblico più elevato di quanto fosse stato in precedenza. Ma ciò non bastò a mettere in sordina i principi del cosiddetto “Consenso neoclassico”, da molto tempo imperanti nella Commissione Europea, secondo i quali l’equilibrio tra domanda e offerta nel lungo periodo è destinato magicamente a perfezionarsi. Le eventuali variazioni nel breve (shock di domanda interni o esogeni), secondo questo lessico economico, devono essere risolte esclusivamente con politiche di riforme strutturali che compendiano il solo lato dell’offerta (flessibilità del mercato del lavoro, riduzioni di frizioni che impediscono la libera concorrenza, favorire la libera circolazione dei capitali e delle persone), queste  accompagnate con politiche di supplenza o di “conforto” monetario anziché fiscali, senza ovviamente intervenire sul lato della domanda. Più prosaicamente: pagare un prezzo oggi per avere un vantaggio domani in termini di efficienza delle transazioni di mercato.

Sennonché, il “breve”, al presente, continua ad apparire illimitato e per giunta più doloroso di quanto ci si aspettasse, al tal punto da temere che tale salasso possa incidere irrimediabilmente sulle decantate aspettative future. In fondo, l’aforisma di J.M. Keynes, secondo il quale “nel lungo termine saremo tutti morti” definiva quanto fosse errato concepire che le fluttuazione di breve periodo della produzione (stati di crisi), se non affrontate nell’immediato, vengono “scaricate” sui ceti più deboli della società e non serve pontificare che esse abbiano poca influenza sulla crescita spontanea a lungo termine.

A rafforzare questo paradigma economico, che rappresenta il cuore del pensiero liberal-conservatore riguardo l’adozione delle conseguenti  policies, si è avvicinata, sin dalla fine degli anni 90, anche la nuova versione della socialdemocrazia internazionale.  Nulla sono valse le critiche della residua pattuglia di economisti d’ispirazione keynesiana (Rodrik, Stiglitz, Krugman, Varoufakis), i quali hanno sempre sostenuto che qualora si dovesse agire sul lato dell’offerta (supply side) non ci può esimere dall’intervenire anche su quello della domanda (politiche macroeconomiche fiscali, investimenti pubblici) per stabilizzare l’attività economica, evitando in questo modo che si materializzasse una temuta frattura sociale, e come conseguenza ancora più nefasta, una possibile implosione dei partiti d’ispirazione progressista.

Oltre a questi economisti e intellettuali di matrice più marcatamente progressista e in un certo senso socialdemocratica, significativo è anche il fatto che ormai anche economisti e politologi d’orientamento fortemente liberale si siano uniti alla truppa dei più o meno apertamente critici nei confronti dello stuolo di principi intorno al quale si è imperniato il sistema degli ultimi decenni, in particolare nell’ultimo; dalla crisi statunitense del 2007-2008, riversatasi poi sul vecchio continente negli anni successivi; da politologi liberali più pacatamente critici, come il professor Maurizio Ferrera (“Rotta di collisione: euro vs. welfare“) e il professor Vittorio Emanuele Parsi (“Titanic: il naufragio dell’ordine liberale“) a economisti liberali aspramente critici nei confronti della struttura dell’eurozona come il Professor De Grauwe (“I limiti del mercato“). Altrettanto significativa potrebbe essere l’apertura di credito registrata di recente da parte dell’Eucken Institute dell’Università di Freiburg, patria del pensiero ordoliberista e della cosiddetta economia sociale di mercato tedesca, il quale in un discussion paper di Agosto 2018 ha aperto ad una maggiore flessibilità interpretativa verso le politiche economiche di Keynes, sostenendo apertamente una più sfumata e collaborativa visione tra le posizioni in politica economica “minimaliste” di Walter Eucken e quelle “interventiste” che caratterizzarono il pensiero del Maestro di Cambridge.

Sordi, o forse semplicemente poco vigili a ciò verso cui questa schiera di economisti e politologi richiamava l’attenzione, è avvenuto che la socialdemocrazia europea in molti paesi del nostro continente, la quale catturava gran parte del consenso della classe medio-bassa, ha lasciato sul campo in un brevissimo lasso di tempo oltre la metà del suo patrimonio elettorale – fa eccezione nel caso specifico il Labour di Jeremy Corbyn – se non addirittura letteralmente dissolvendosi, come in alcune realtà quali la Francia e la Grecia. Per converso, si è assistito a una rapida crescita, omogeneamente diffusa in ogni dove, di nuove formazioni d’ispirazione giacobina-identitaria tendenzialmente reazionarie, anti-liberali spregiativamente tacciate con l’appellativo di “populismo demagogico”.

Tutto ciò assume, a ben pensarci, toni ancora più assurdi e ironici se pensiamo al particolare momento storico che stiamo attraversando. Ormai è infatti acclarato da molti dati che i tassi di diseguaglianze socio-economiche sotto diversi punti di vista (reddituale, patrimoniale, accesso all’istruzione e alla sanità) siano andatisi allargando negli ultimi tre decenni; una fase con questi riferimenti empirici così nefasti dovrebbe essere favorevole alla nascita di un pensiero fortemente popolare di contrasto a una tale riduzione della giustizia sociale nel mondo occidentale. Pensiero del quale i partiti progressisti e socialisti dovrebbero avere gioco più facile a farne tesoro, con una impostazione della propria narrazione incentrata intorno a questo tema, fisiologico e naturale per la sinistra, e capace quasi per definizione stessa di assorbire una larga fetta della popolazione, essendo i ceti di riferimento colpiti da tale riduzione delle condizioni di benessere socio-economico, in generale quelli maggioritari entro il panorama elettorale. Al contrario proprio in questa fase, l’incapacità di aver letto per tempo ed essere rimasti schiacciati dai titoli di coda del paradigma economico cosiddetto neoliberista, i partiti socialisti e progressisti non hanno saputo per tempo abbandonare la “terza via” in voga negli anni 90 e per l’intero decennio successivo, rimanendo indietro sia a livello di interpretazione del ciclo economico, sia a livello comunicativo.

Ma non tutto è perduto. A parziale discolpa, infatti, dobbiamo ricordare che quasi sempre nelle fasi di ripiegamento della globalizzazione sono i partiti socialisti a soffrire maggiormente e a patire una sorta di “spaesamento”; basti pensare a quanto avvenne nella prima metà del secolo scorso. Ragion principale resta probabilmente il fatto che la reazione più istintiva e più diretta che arriva alla coda della globalizzazione e alla fase finale del periodo di forte finanziarizzazione dell’economia sia sempre il principio identitario nazionalista: più rapido, più immediato, più emotivamente assimilabile. E tale nazionalismo viene interpretato più facilmente dal populismo reazionario.

Ora, finalmente è in atto una riflessione, seppur tardiva, sul bombardato quartiere progressista, sia nel campo della teoria economica, nelle applicazione delle rispettive azioni ad essa conseguenti, sia nel dibattito inerente la politica di programma. Il rischio, che appare non più così lontano, è l’incrinatura del progetto europeo per come lo conosciamo oggi, e a tal riguardo, per evitare il peggio prima che sia troppo tardi, una rilettura e una chiave interpretativa tramite il cosiddetto trilemma del professor Dani Rodrik andrebbe elaborata. Tuttavia, il danno e le lacerazioni inferte non potranno essere rimarginate in breve tempo. Alla socialdemocrazia europea spetterà una lunga traversata in questo “deserto del risentimento” alla ricerca di quell’oasi che la ristori e che la depuri da tutte quelle incrostazioni accumulate negli ultimi due decenni di deriva neoliberista.

L’importante è comprendere che dopo la fase della reazione nazionalista destrorsa bisognerà preparare il campo per la nostra azione. Ma fondamentale sarà non sbagliare. Imparando dalla storia, il passato ci insegna che alla fase che succede la reazione nazionalista di cui stiamo in parte vivendo e che vivremo nei prossimi anni, non si risponde preparando una mera restaurazione del sistema a forte spinta globalizzante che è entrato in crisi degli ultimi anni, ma piuttosto con la costruzione di un nuovo compromesso tra capitalismo e democrazia (ovvero tra globalizzazione economica e democrazia nazionale, con in mezzo la dimensione delle istituzioni europee), che renda il primo più inclusivo e sostenibile, caratterizzato da un rinnovato ma rafforzato e aggiornato welfare, e la seconda irrobustita e innovata nelle sue istituzioni. E’ altresì auspicabile l’apertura di nuove forme di democrazia partecipata mediante anche l’utilizzo delle piattaforme digitali, le quali devono essere – abbandonando timori e atteggiamenti tardo Novecenteschi – studiate, approfondite e implementate in maniera seria e rigorosa come parte attiva del sistema politico e partecipativo; in una parola istituzionalizzate.

Il tale quadro generale, europeo, si potrebbe dire occidentale, l’azione, il ruolo e la funzione storica del Partito Democratico deve essere pensata. Solo analizzando questo quadro d’insieme e comprendendo a fondo la fase del ciclo storico ed economico in cui stiamo navigando possiamo capire dove collocare la rotta di quello che è stato il più importante partito riformista italiano degli ultimi dieci anni (e con una storia che arriva da molto più distante).

Auguriamoci che, Nicola Zingaretti faccia in modo che questo cammino appena iniziato sia quanto più possibile agevole e meno irto d’ostacoli.

(1) https://democraticieriformisti.wordpress.com/2019/01/16/la-lunga-camminata-nel-deserto-del-risentimento-2/

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