La lunga marcia del Pd

I partiti italiani, si sa, sono espertissimi nel cavare da ogni risultato elettorale l’aspetto a loro più favorevole. Di Maio ha liquidato la debacle dei 5stelle prendendosela con l’astensionismo. Berlusconi si è consolato preparandosi al nuovo viaggio europeo. Il Pd ha festeggiato il sorpasso dei grillini – in caduta libera – annunciando, nientedimeno, la rinascita del bipolarismo. Non esageriamo. Non c’è dubbio che Zingaretti abbia ottime ragioni per tirare un bel sospiro di sollievo. Se fosse sceso sotto la fatidica soglia del 20%, si sarebbero riaperte le danze tra i notabili che, per il momento, fanno finta di essergli amici. A cominciare da quel Calenda che ha raccolto il miglior risultato personale (una preferenza ogni cinque voti), per giunta nel Nordest ultraleghista. Dimostrando che si può continuare a far politica anche con le posizioni più rigorose – e impopolari – che furono di Renzi. Ma – vuoi anche per l’inerzia di cui ha parlato in Tv Mentana – il Pd ha superato la prova, e il segretario rimane in sella. Ma con un percorso in salita che resta ancora tutto da costruire.

Finora, la carta principale su cui ha puntato Zingaretti è quella della crisi di governo, con conseguenti elezioni anticipate. Ma la vittoria schiacciante della Lega, rende la prospettiva improbabile. Se i Cinquestelle continuassero a fare le bizze provocando la rottura della coalizione, quale sarebbe il passo successivo? Per la regola dei due mandati, buona parte dei parlamentari non sarebbero ricandidabili. E molti altri sanno che – con questi numeri – perderebbero certamente la poltrona. Salvini, dal canto proprio, ha davanti un’autostrada. Certo, la tentazione di incassare il suo momento magico è forte. E non mancheranno le pressioni delle seconde file della Lega che intravedono la possibilità di far man bassa di nuovi seggi. Ma – a meno di incidenti clamorosi – al Capitano conviene godersi la sua rendita di posizione. E vedere se riesce a ottenere qualcosa dagli ortodossi di Bruxelles. Solo se il tentativo fallisse, si potrebbe tornare al voto, rilanciando le istanze sovraniste calpestate dall’eurocrazia.

Nel frattempo, che farà Zingaretti? Che iniziativa riuscirà a impostare, per tenere le briglia di un partito ancora zeppo di correnti e di beghe messe – per ora – sotto il tappeto? Passata l’enfasi sul voto europeo – che prenderà la strada di Strasburgo – e ricalibrati i rapporti tra i due partner di governo, i riflettori si accenderanno sull’altra contabilità che, in queste ore, sta facendo meno scalpore: i risultati delle elezioni locali. Nelle città, il Pd ha confermato un ottimo posizionamento, frutto di una buona gestione di immagine e di amministrazione. Ma la botta del Piemonte è durissima. Un governatore di razza ha dovuto cedere il passo a un semi-sconosciuto politico di seconda fila. Lasciando tutto il Nord nelle mani del centrodestra a trazione leghista. Se a questo dato si aggiunge il sorpasso della lista Salvini sul Pd – seppure di una incollatura – in Emilia, si capisce quale sarà, nei mesi a venire, il vero tarlo del neo segretario.

Nelle prossime settimane, si sprecheranno le elucubrazioni su quale sia per Matteo Salvini la strategia più conveniente a Roma. Ma, nel frattempo, la Lega si è insediata stabilmente nella gestione delle regioni più ricche del paese. Aggiungendo anche un clamoroso sfondamento in quell’Umbria rossa che potrebbe a breve capitolare sotto il peso degli scandali. In questo quadro, l’Emilia Romagna rappresenta la Stalingrado del Pd. Se dovesse capitolare a dicembre, il segnale sarebbe devastante. Accanto al messaggio simbolico della fine dell’Italia rossa, ci sarebbe anche il defenestramento di quella leva di amministratori che è stata, per mezzo secolo, il meglio che la cultura ex-comunista ha prodotto. Difficilmente Zingaretti passerebbe indenne per questa tempesta.

Fare dell’Emilia Romagna la bandiera della riscossa Pd può sembrare un obiettivo circoscritto. Come sembrarono a Renzi le elezioni municipali di Roma, Napoli, Torino in cui si giocò – senza capirlo – il futuro del referendum. E può apparire più comodo – e sicuro – continuare a fare le pulci ai limiti dell’esecutivo gialloverde, facendo finta che prima o poi si sfascerà. Ma il paese reale, quello dal quale il Pd continua ad essere troppo lontano, ha bisogno di affidabilità e concretezza. È il terreno su cui la Lega ha costruito le proprie fortune. Sfidarla su questo terreno è più difficile che sgridarla per le sortite sui migranti. Ma è il terreno dove si giocheranno le sorti del centrosinistra. Se davvero è rinato, è proprio lì che deve battere un colpo.

(“Il Mattino”, 28 maggio 2019).

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