La mossa di Renzi; la sinistra e il suo ruolo

Il giovane e fragile governo Conte, così difficilmente costituito e così fortunosamente nato da vicende ai più inaspettate, tanto da essere brillantemente definito da Alfiero Grandi sul Manifesto un governo ‘armistiziale’, già vede indebolita la sua sottile struttura dalla scelta del senatore Renzi di costituire gruppi parlamentari nuovi abbandonando il PD. Non si può negare che ciò che accade oggi, una nuova scissione nel campo del centrosinistra, pone domande che investono gli equilibri del sistema politico. La operazione scissionista è stata condotta con una certa imperizia dal toscano Matteo, tanto da apparire a tutti i commentatori inizialmente come tattica e di corto respiro. E certamente il leader della Leopolda non ha sempre dimostrato profondità strategiche e spessore culturale con cui animare le sue mosse abili tese ha guadagnare centri di potere. Tuttavia non può sfuggire che il tema della rinascita di un partito liberale di centro anima da sempre i grandi giornali come il Corriere della Sera, la grande borghesia, oggi più che mai in cerca di un punto di riferimento sicuro. Esso pare non essere più il PD, quel grande partito alla americana che scopre ora il suo fallimento, la sua incapacità di coprire sinistra e mondo moderato allo stesso momento, un partito che ha voluto essere troppo e troppo andare al di là delle antiche tradizioni, fino al punto di essere oggi nulla, non più il mondo di ieri, non ancora il centro moderato ed egemonico da vent’anni agognato da Veltroni e soci. Il centro liberale, dunque. Esso è già assillato dal problema della unità e della compattezza interna visto che vi sono troppi leader in concorrenza fra loro per guidare le operazioni di copertura dello spazio politico; Renzi si muove per primo per cercare di spiazzare i Conte, i Calenda e i Cairo che hanno medesime ambizioni. Ma il problema dell’unità dei moderati, liberali e cattolici, è un tema decisivo per la riuscita del progetto, diversamente, l’insistenza politologica e isterica sul ‘partito personale’ e sul culto del capo possono far franare tutte le velleità della rivalsa centrista. Ma vi è di più. Le élite rivogliono il loro partito, rivogliono l’egemonia sulla macchina sociale, egemonia non compremessa del tutto dopo la crisi del 2008 ma seriamente intaccata. Ma per riavere forza nella società, il modello della vecchia DC non è riproponibile per due motivi: da un lato la Democrazia Cristiana ha potuto conquistare l’ elettorato di destra strappandolo a monarchici e missini sconfitti storicamente nel dopoguerra e ponendosi, inoltre, come argine al mondo comunista; la mediazione fra impresa, ceti medi e sindacati non può attuarsi più nella cornice di una economia mista. Lo stesso peso della Chiesa non è più quello dei tempi di Pio XII. La forza del centrodestra leghista e forzista è data oggi da uno sdoganamento delle ragioni storiche del fascismo italiano e delle eredità pur declinate in un fase storica diversa. Ne deriva che un centro liberale, se vuole essere forte, se vuole in eredità il voto dei ceti medi ‘berlusconiani’,non può che schierarsi contro la sinistra e il sindacato, e, sopratutto, deve vedere nella Lega un alleato, un alleato certamente difficile e da domare, con cui porsi sovente in contrasto e in concorrenza, ma comunque un alleato, sia a Roma che nei territori. Diversamente il centro forte di cui tanti dottamente discettano si ridurrà alle dimensioni elettorali dei centri storici delle grandi città.

Vedremo che accadrà nella area culturale della grande borghesia. Resta da comprendere che cosa resta della sinistra. Di fronte ad un centro che riprende politicamente e socialmente visibilità, alla sinistra non resta che cercare la strada di una più forte identificazioni con le ragioni sociali del mondo del lavoro. Ciò non significa chiudersi in una ridotta identitaria, rinculare in un novello massimalismo, tentazione sempre in atto, perché ciò può attrarre una sinistra antagonista che rifiuta qualsiasi rapporto con il mondo sindacale confederale e con altre organizzazioni di massa. La sinistra radicale forse dovrà pensare a come unificarsi e dare dignitosa rappresentanza alla sua tradizione che è comunque che sia presente nel paese. Semmai si deve pensare ad una sinistra laburista capace di un progetto in grado di riunificare il mondo del lavoro e ricucire inoltre, il tessuto lacerato della società e della democrazia. Questa identità la si può coniugare con una tattica delle alleanze sociali e politiche, evitando, appunto, inutili massimalismi da un lato e derive governiste e opportuniste dall’altra. Tutto ciò si può fare, ed è necessario farlo, se si pone in discussione il PD come progetto votato all’inglobamento della realtà del lavoro nel mondo dell’impresa e se si abbandona definitivamente il modello del partito delle primarie, del partito senza cultura definita preda dei gruppi di potere, il partito, insomma, dell’uomo solo al comando e delle masse passive e adoranti.

Serve, dunque, una discussione che riparta dalle idee, che non riproponga l’organizzazione ora esistente, e che sia collettiva e condivisa, e che ridia senso alla parola ‘compagno’. Può apparire ciò che è scritto richiesta poco ambiziosa ma credo in realtà che come inizio non sia affatto poco, sopratutto in tempi come questi.

Alessandria 18-09-2019 Filippo Orlando

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