La nuova “mossa del Cavallo” di Matteo Renzi

Poche osservazioni spericolate a caldo, nel bel mezzo della crisi di governo. Quando anzi il governo giallo-verde, tra M5S e Lega, è diventato il caro estinto. E nessuno lo potrà far rivivere. Pace all’anima sua.

Con una premessa piccola piccola, ma per me di significato grande grande. Tra i dieci libri che sconvolsero il “mio mondo”, che come pare evidente per me sono stati diversi e di vario indirizzo in una vita ormai quasi da ottuagenario, ce n’è uno di un personaggio che a sinistra è quello da me più amato dal 1962 in poi, pur nel variare delle scelte mie e sue, che dal 1972 in poi sono state “un po’” diverse: Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita (Einaudi, 1991) di Vittorio Foa. Lì l’operaista di una vita – che aveva sempre visto nella spontaneità profonda dei proletari, ritenuta antagonistica per ragioni insopprimibili, la chiave di volta del divenire sociale nel mondo contemporaneo – giungeva a valorizzare in sommo grado un orientamento ideale che formalmente poteva sembrare l’opposto: il decisionismo, Avrebbe appunto potuto venir detto sorprendente perché il decisionismo, nella scienza politica, è stato scoperto ed elaborato, e valorizzato, da un grande e assai longevo pensatore prenazista, nazista e post-nazista: Carl Schmitt. Ma il vero va al di là di chi lo scopra. Il tema del decisionismo fa riferimento al leader capace di scelte improvvise, ma tempestive – in contesti spesso formalmente difficili, “d’emergenza” – che sparigliano tutti i giochi e portano alla disfatta dell’avversario. Questa, agli scacchi, è detta mossa del Cavallo. Foa diceva di averla appresa, e vista all’opera, in un grande sindacalista proletario, capo storico della CGIL tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso: Giuseppe Di Vittorio. (Di Schmitt certo Vittorio Foa non si curava affatto, anche se certo “ne sapeva”). Quel che pulsa nel cranio della gente – per lui con particolare riferimento a quella che sgobba dal mattino alla sera per vivere – per Foa restava decisivo; ma, in tale contesto, la capacità dei leader di fare la mossa decisiva, come a scacchi è la mossa del cavallo, era determinante.

Con ciò vengo ora a Renzi, che per me “oggi” ha di nuovo fatto “la mossa del cavallo”. Egli è da tempo nell’angolo, e corre il rischio di diventare un “ex grande leader a vita”. Ha avuto tanti meriti, ma anche alcuni grandi limiti. Ha governato bene per 1000 giorni. E se è vero che in materia vale sempre il confronto, non capisco proprio – anche al di là delle leggende su Prodi – chi, almeno dal 1994 in poi, abbia governato meglio di lui e dei suoi collaboratori. Certo rispetto al governo giallo-verde grandeggia come fosse stato o sia – e non lo è stato e non lo è – il conte Camillo Benso di Cavour o Alcide De Gasperi. Le riforme istituzionali del 2016 potevano avere dei limiti: mancata proposta di abolire puramente e semplicemente il Senato, invece di ridimensionarlo e togliergli, lodevolissimamente, una prerogativa fondamentale, quella di dare o togliere la fiducia ai governi; i quesiti referendari di quel referendum avrebbero potuto essere scomposti (ma solo i radicali l’avevano compreso “prima”); quella battaglia fu troppo personalizzata. Dopo di che per il PD, senza Renzi o con Renzi, arrivarono sconfitte in elezioni di tipo amministrativo come politico assai gravi, tutte giunte sull’onda della disfatta referendaria del dicembre 2016, che colpì il leader e il “suo” Partito alla nuca. Anche se chi distrusse Renzi avrebbe dovuto capire che preparava le condizioni ideali perché il populismo non più democratico riformista (come quello di Renzi), ma reazionario e xenofobo (impersonato da Salvini), arrivasse a furor di popolo: perché gli Stati, e tanto più i grandi Stati, “non ponno” – come avrebbe detto Machiavelli – non essere governati. Tanto più nella complicata era della globalizzazione. In situazioni d’emergenza storica, nazionale e per molti aspetti mondiale, se la governabilità non arriva da sinistra, arriva da destra (“elementare, Watson”). Ormai la disfatta storica a molti – compreso il sottoscritto – sembrava quasi fatale. Ma sul più bello, “qualcosa si muove” (“eppur si muove”). Renzi ha dimostrato di essere un leader tuttora capace di fare “la mossa del cavallo”, lasciando i suoi contraddittori, “amici” e avversari, a bocca aperta. Mentre il PD maggioitario a livello di partito gridava “Elezioni! Elezioni!” al pari di Salvini, Renzi, forte del sostegno dei gruppi parlamentari, propone un governo “istituzionale” per evitare l’aumento dell’IVA, battere il disegno di grande destra populista di Salvini e ridurre di un terzo il numero dei parlamentari. L’ultima opzione è dirimente e decisiva per il M5S, ma è comunque importante – per semplificare il sistema, avere di fatto tre soli partiti in campo e quindi lavorare per la democrazia dell’alternativa – anche per la sinistra. Il tutto non già in alleanza aperta col M5S (neanche con Conte), ma tramite un monocolore di tipo istituzionale che possa essere votato in modo bipartisan da tutti i gruppi che accettino di farlo, nessuno escluso. Viene detto chiaramente nell’intervista a Maria Teresa Meli uscita qualche ora fa sul “Corriere della sera”.

Ma – si dice – questo contraddice il Renzi post-elettorale. Non credo che sia vero, ma anche se fosse a noi “che ci frega”?

Prepara una vittoria non al 36 o 38% della Lega di Salvini in successive, non lontane, elezioni, ma al 50% (si dice). Ma siccome col 36 o 38% previsto oggi per la Lega, più il 6 o 7% di Fratelli d’Italia, la destra populista ha il 99 per 100 di probabilità di avere a ottobre o giù di lì la maggioranza assoluta dei seggi, tanto che sentendosi già “a cavallo” Salvini nei giorni scorsi ha già chiesto “i pieni poteri” e promesso dieci anni di governo forte suo, dov’è il problema?

Può anche darsi che una soluzione tampone come un debole governo istituzionale, che oltre ad evitare l’aumento dell’IVA e smagrire di un terzo il parlamento dovrà fare un’impopolare manovra di risanamento dei conti pubblici, faccia il gioco di Salvini, portandogli un’ulteriore valanga di voti; ma può anche darsi che senza il potere e con diverse mine gravi sul suo percorso, come quelle tra Milano e Mosca, il “carisma salviniano” si volatilizzi o comunque decresca. In ogni caso provare a fermare Salvini, cioè il nazionalpopulismo, prima del suo trionfo annunciato di “questo” autunno, sembra essere cosa buona e giusta per la sinistra di ogni colore e per la democrazia italiana in generale. Cominciamo ad evitare la disfatta annunciata d’autunno, ché “del doman non v’è certezza”. Bloccata la marcia elettorale su Roma di Salvini, il resto si vedrà.

(franco.livorsi@alice.it)

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