La prospettiva rovesciata di Pavel Florenskij

Icona è parola che deriva dal greco antico eikon (immagine); e nell’ambito della storia dell’arte essa indica appunto una raffigurazione di carattere religioso ‒ dipinta su una tavola di legno o su una lastra di rame ritraente Cristo, la Vergine o i santi − la cui tecnica e il cui stile, d’origine bizantina e importati nella Russia del X secolo, raggiunsero col tempo un altissimo grado di raffinatezza destinato a perpetuarsi in canoni immutabili fino ai nostri giorni.

Nondimeno, osservando le icone russe ‒ in particolare quelle datate XIV e XV secolo ‒ anche il profano si accorge immediatamente di un aspetto figurativo assai stridente con le regole prospettiche. Si tratti di edifici, di oggetti e perfino di volti, ciò che balza agli occhi è il fatto che nelle icone appaiono aree e scorci che non si dovrebbero poter scorgere contemporaneamente. Ad esempio, nel viso di un santo, le orecchie sono come rivolte in avanti verso lo spettatore e appiattite sul dipinto; oppure, di una casa, si mostrano pareti che nella realtà non si riuscirebbero a vedere insieme con un solo sguardo. Viene spontaneo allora chiedersi: nell’icona ci troviamo davanti ad un’imperizia quasi primitiva? All’ingenuità di antiquati pittori medioevali? All’imperdonabile assenza d’una elementare forma prospettica?

Pavel Florenskij ‒ intellettuale tra i più significativi del pensiero religioso russo, che fu filosofo, scienziato, teologo, nonché studioso di estetica ‒ nel suo saggio intitolato La prospettiva rovesciata (Adelphi), si dice convinto e convince il lettore che detti supposti errori e/o imperfezioni pittoriche non siano per nulla tali. Al contrario l’autore ritiene costituiscano piuttosto una ben meditata scelta raffigurativa ed una sapiente, felicissima opzione stilistico-espressiva. Tuttavia Florenskij ve ben oltre il pur encomiabile intento di magnificare la produzione artistica di genere iconico; egli, mettendo in discussione il dogma della prospettiva quale elemento indispensabile per un’arte pittorico-figurativa ottimale, ci invita a considerarla: “soltanto uno schema, e per giunta soltanto uno dei possibili schemi di raffigurazione, che corrispondono non alla percezione del mondo (…) ma semplicemente a una delle possibili interpretazioni del mondo”.

Come a dire: la prospettiva in pittura ‒ al di là del suo innegabilmente splendido impiego da parte dei geniali artisti rinascimentali ‒ è poi soltanto una peculiare ortografia/ottica che non ne esclude altre: corrispondenti ad un altro modo di vedere/concepire la vita e il cosiddetto reale. Ma Florenskij si spinge ben oltre, sostenendo che un po’ ovunque gli antichi non abbiano applicato la prospettiva non già perché non ancora in grado di realizzarla/applicarla nelle loro figurazioni, bensì per una precisa scelta. Ad esempio cercando di dimostrare che presso gli egizi, al tempo dei faraoni, l’assenza di prospettiva fosse una dimostrazione della “maturità” della loro arte, e “non una prova della sua presunta inesperienza infantile”.

Tutto ciò in quanto, a detta del pensatore russo, il fine della pittura è sempre stato ben altro dalla banale duplicazione/copia della realtà. Quella dell’artista autentico non è dunque mai mimesis: mera imitazione delle cose. Ed il Medioevo non è un’epoca buia e credulona che verrà rischiarata dall’illuminazione prospettica e razionale dell’età moderna. Solo in una visione puerile all’insegna d’un utopistico e inarrestabile progresso umano si può concepire l’oggi migliore dello ieri o le opere del passato inferiori a quelle del presente. Così, sempre per restare in tema di pittori medioevali e di raffigurazioni artistiche, come non rendersi conto che il loro intento non era quello di produrre “copie”, bensì “simboli” della cosiddetta realtà?

Perciò, a ben considerare, Florenskij in questo saggio non ci parla solo di icone ma pure di quella che i filosofi tedeschi chiamano Weltanschauung o visione del mondo: prodotta non certo da un’unica prospettiva ma effetto delle molteplici modalità interpretativo-prospettiche che, a seconda delle varie culture/epoche, noi esseri umani facciamo nostre. In parallelo l’icona, dal suo singolare punto di vista, è un’espressione artistica forte d’una pregnante valenza spirituale, la quale si caratterizza giusto per il tipo di sguardo che induce in chi la osserva, promuovendo un modo di vedere teso a cogliere, mediante il visibile, elementi invisibili o meta-fisici. Si tratta dunque davvero di un’arte religiosa, capace di re-ligare, ossia di collegare colui che la contempla con la dimensione ineffabile del sacro/divino.

Francesco Roat

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