La sindrome americana

Tra i fattori di instabilità dei governi, il più insidioso è la campagna elettorale permanente. Un fenomeno emerso sulla scena una ventina di anni fa, e diventato sempre più invadente, grazie al peso dei sondaggi e dei social sulle carriere dei leader politici. Non c’è rimedio istituzionale che tenga. Negli Usa, sistema presidenziale per antonomasia con quattro anni di garanzia per chi vince, la giornata di Joe Biden è scandita dal termometro sondocratico. E l’ultima rilevazione fa paura.

Il New York Times ha aperto ieri il sito con la notizia di un vantaggio di Trump di 6 punti sul presidente in carica. Ancora più preoccupanti per Biden sono gli altri numeri che spiegano quanto scarse siano, al momento, le chance di una sua riconferma. Cominciando dalla sua presa sul partito. A dispetto dei guai giudiziari e della campagna di stampa negativa inflessibile dei media più autorevoli, Trump si è ripreso saldamente l’establishment repubblicano. Non si tratta più, come agli inizi, solo del rapporto di pancia con le fasce di popolazione più disagiate e/o culturalmente emarginate. Con crescente convinzione, si è allineato anche quel ceto di partito – senatori e deputati per primi, a Washington come negli stati dell’Unione – che a lungo era rimasto alla finestra, preoccupato delle posizioni troppo radicali del leader. Oggi Trump è visto come il cavallo vincente, e tutti si stanno affrettando a saltare sul suo carro.

A peggiorare la situazione per Biden, ci sono i transfughi dall’ultima elezione. Il dieci per cento dei votanti democratici del 2020 ha deciso di cambiare idea, un’emorragia che sembrava impossibile e che suona come un brusco richiamo alla realtà. A dispetto dell’immagine disastrosa nell’opinione pubblica politically correct, Trump continua ad attirare consensi. Che, in democrazia, rimangono la via maestra per il potere. Come si è arrivati a questo punto?

I dati confermano quello che, da diversi mesi, è il tallone d’Achille di Joe Biden: l’età e le sue condizioni di salute. La maggioranza dei suoi stessi elettori ritiene che sia troppo vecchio per governare. Una preoccupazione alimentata dalle ultime uscite, e ancor più da quelle mancate. Il Presidente ha rimandato al mittente l’invito dei principali media americani di dimostrare di potercela fare partecipando attivamente ad eventi di grande ascolto. Ha continuato, invece, a diradare le occasioni pubbliche, senza peraltro riuscire ad evitare le gaffe che lo perseguitano. Un comportamento che non è piaciuto ai votanti, che si sfilano verso l’astensione o addirittura cambiano casacca.

L’altra spina nel fianco è il tema dell’immigrazione. Il caos che sta montando al confine – sterminato – col Messico è in cima dei problemi più importanti nell’ultimo sondaggio Gallup, schizzando in un solo mese dal 22 al 28%. A far lievitare questo dato non sono solo l’ideologia – e gli interessi – di quel vasto elettorato che vede l’immigrazione incontrollata come minaccia ai posti di lavoro e alla American way of life. La protesta sta montando anche nelle metropoli fino a ieri baluardo dell’accoglienza progressista, costrette a investire sempre più risorse per tamponare l’invasione dei senzatetto, ormai stanziale nelle strade del centro. Per converso, rimane scarso il peso dell’economia. Paradossalmente, il fatto che stia andando a gonfie vele la fa scendere nella classifica delle emergenze, ma non contribuisce a far salire Biden in quella del gradimento.

Ovviamente, novembre è ancora lontano. E la politica del ventunesimo secolo – volatile ai vertici come alla base – ci ha abituati a bruschi cambiamenti di umore. Nondimeno, in Europa sta crescendo l’allarme per il ritorno della dottrina Maga, Make America Great Again, che tradotto in trumpese significa farsi innanzitutto i fatti propri. Dando fiato a quelle spinte neo-isolazioniste e protezioniste che è così facile cavalcare. A cominciare dalla minaccia di tagliare i fondi alla Nato.

I quattro anni precedenti di Trump hanno, però, dimostrato che la sua carta – e forse dote – maggiore è la distanza tra le minacce verbali e le scelte che veramente ne conseguono. Un comportamento criticato come instabilità caratteriale, ma che, sulla scena internazionale, ha finito col renderlo più forte. L’unico vero freno per le mire espansionistiche di Putin è l’imprevedibilità dell’avversario. Sappiamo tutti che il riarmo europeo – se mai ci sarà – impiegherà moltissimi anni. E che, alla fine, il bottone rosso della deterrenza è nelle mani della Casa Bianca. Dietro Trump oggi c’è mezza America. Facciamo ancora fatica a capire – e ad accettare – le ragioni di questo legame.  Ma è improbabile che, se dovesse vincere, la esponga al rischio di una guerra nucleare.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 4 marzo 2024)

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