La Sindrome della Capanna

Non è una facezia ma un disturbo della personalità dovuto alla lunga clausura che si aggiunge ad altri di cui soffre la popolazione in questo periodo di costrizione.

Si manifesta come un adattamento alla reclusione fino a recidere la relazione con l’ambiente esterno, luoghi e persone, un’informazione riportata anche dalla stampa. La mia opinione non provata è che tale patologia debba interessare chi vive una condizione di agio all’interno della propria abitazione, senza subire la costrizione dell’affollamento.

Chi come me fruisce di tempi e spazi privi di condizionamenti può ritrovarsi in questa circostanza. Infatti fu un sollievo il rientro a casa dalla prima escursione nei negozi di prossimità, turbata dalla diffidenza con la quale ci si guardava nel timore dell’”untore” e dall’estraneità di un ambiente esterno surreale e potenzialmente pericoloso.

Poi, dopo alcuni giorni di prudente isolamento, una domenica soleggiata dal cielo limpido come non mai: dalla solita poltrona che raccoglie la mia pigrizia ascoltavo il silenzio interrotto a tratti dal lugubre suono delle sirene, unico richiamo a circostanze che ti auguri di non vivere mai. E la tentazione di uscire per rendermi conto del mondo cambiato come nel più angoscioso dei film di fantascienza.

Un passo alla farmacia, penso per darmi una motivazione.

La prima impressione di disagio accentuata dalla visione del viale malinconico e deserto come mai m’era apparso, è un invito a tornare indietro ma lo sconosciuto lontano come un nero puntino minaccioso mi fa affrettare il passo verso la piazza assolata e vuota. L’attraverso in diagonale mentre un’unica macchina della polizia prosegue compiendo il suo percorso.

M’impongo di essere fedele al progetto affrontando il Corso. Ne colgo l’intera prospettiva che mi riporta alla solitudine metropolitana magistralmente ritratta da Hopper. Sento i miei passi raggiungere la meta con una sensazione di sollievo: la farmacista ed io a interrompere la bolla di silenzio con quattro parole di conversazione.

Mi costa uno sforzo affrontare la via del ritorno come la fuga da un’incognita da cui non potrei difendermi. Sto quasi correndo mentre percorro l’ultimo tratto di strada fino al portone del palazzo per chiudere in fretta, lontano da me, ciò che più non riconosco.

L’unica ad accogliermi, immutata e paziente, è la casa… ambiente sicuro e protetto che mantiene il legame con la vita di prima, preservandomi dal dopo.

Giorno dopo giorno comincia a prevalere la tentazione di lasciarmi andare ai tempi della pigrizia e alla trascuratezza fino a non riconoscermi. La sconosciuta toccherà il fondo il giorno in cui non s’alzerà da letto se non per necessità vitali, doppierà la linea delle venti sigarette, attaccata a tutto il buono e il pessimo trasmesso in televisione, comprese le ricette degli chef. L’unico barlume d’istinto di conservazione… la fuga dalla D’Urso e dal seguitissimo “pomeriggio 5”, termometro dello stato mentale degli Italiani: è stato quell’attimo a farmi comprendere che non fosse tutto perduto.

Sfiorata dalla sindrome della Capanna anch’io ma, come succede, se ignori la malattia non ne soffri. Si è mai sentito di un disoccupato, un operaio, un grigio impiegato a “mille lire al mese” essere sfiorato dal sospetto di soffrire di turbe dell’inconscio, depressione, e quant’altro da pensare allo psicanalista a centinaia di euro a seduta, più della necessità di arrivare a fine mese?Un lusso da ricchi che non rientra nell’orizzonte della gente comune.

Ebbene la mia risalita, ancora in corso con qualche cedimento, si sta compiendo.

Ancora non sento il bisogno di uscire e il farlo è un atto di volontà. E’ buon segno aver ripreso a truccarmi anche sotto la mascherina col risultato d’impiastricciarla tutta, ma è una disciplina cui mi attengo per l’atavico istinto di “sentirmi truccata dentro”.

 Marina Elettra Maranetto

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*