La sovraesposizione dei leader

Conviene o no, in una crisi di tale portata globale, essere sempre sotto i riflettori? L’epoca in cui viviamo – lo sappiamo – è una democrazia del leader. Senza bisogno, cioè, di una pandemia che richiede decisioni a oltranza, i pollsters già evidenziavano il favore popolare verso un «capo forte». E, negli ultimi vent’anni, tutti gli esecutivi sono diventati più monocratici, con maggiori poteri al premier. Però, il coronavirus non ha fatto la fortuna di tutti i presidenti in carica.

Anzi. A guardare alcuni dei leader emersi proprio in virtù di una fortissima personalità, i risultati sembrano disastrosi. Macron è in difficoltà, Trump accumula una gaffe clamorosa dopo l’altra. Su Johnson, meglio stendere un velo. E, quanto a Bolsonaro, se ci fossero liberi sondaggi sarebbe forse costretto a dimettersi. Al contrario, il presidente del consiglio italiano, fino a poco fa considerato poco più di un re travicello, emerge – dai dati di Pagnoncelli pubblicati ieri su Corsera – come il mattatore di questa fase. Facile, direte voi, visto che si è fatto vedere così spesso a reti unificate, e tutti i principali snodi deliberativi stanno passando per le sue mani. Già, ma è la stessa situazione in cui si sono trovati i suoi colleghi che, invece, appaiono caduti in disgrazia. Come mai, queste differenze?

Dipende dallo stile di leadership. Sembrerebbe – in estrema sintesi – che l’approccio iperassertivo (della serie: ghe pensi mi, voi fatevi da parte) abbia funzionato meglio quando si trattava soprattutto di semplificare le opzioni. Magari approfittando del fatto che, a gran parte dei cittadini, non gliene importava granchè. O, quando gli stavano a cuore, già avevano idee chiare in proposito. I leader, cioè, approfittavano – su molte issues – del disinteresse, e fomentavano – su pochi temi – le prese di posizione oltranziste.  Un modello di comunicazione che potremmo sintetizzare come un mix di ignoranza e partigianeria. O, se preferite, di persuasione antipatizzante.

Con lo tsunami Covid 19, la scena è drasticamente cambiata. Tutti abbiamo avvertito un bisogno vitale di capire. E, al tempo stesso, ci siamo resi conto che non c’erano soluzioni pronte e a portata di mano. Né terapeutiche né finanziarie. Questo senso di incertezza e impotenza è stato accentuato dalla marea di informazioni accessibili, grazie al web. Sia dalle mille fonti giornalistiche che dai circuiti orizzontali, dai gruppi social che ciascuno di noi compulsava per confrontarsi con gli amici, e gli amici degli amici. Per non parlare dei violenti contrasti – spesso al limite della farsa, se non fossimo in piena tragedia – tra i cosiddetti superesperti. In un simile pandemonio, il leader che ti venisse a dire – con voce stentorea e risoluta – ecco, ho io la soluzione in tasca, si sarebbe coperto di ridicolo. Come è successo a molti capi di governo. E come Conte, accuratamente, ha sempre evitato di fare.

È probabile gli sia venuto spontaneo, visto il background forense e l’abitudine a argomentare con pacatezza, tanto più quanto più elevata è la posta in gioco. O forse, si è ispirato alla cancelliera tedesca che – al momento – è quella che è uscita meglio, con oratoria pacata e asciutta, dalle trappole di questa sfida globale. Oppure, più prosaicamente, Conte si è mosso con estrema cautela consapevole di non avere dietro un partito e/o un voto diretto che lo legittimavano al comando. Quale che sia la chiave di lettura – probabilmente un po’ di tutte e tre – la miscela ha funzionato benissimo. Rassicurante ma senza esagerare e senza promesse impossibili, fermo nel chiedere sacrifici ma anche comprensione per il fatto che si stava navigando a vista, convincente nel ribadire il concetto che l’unità era fondamentale per provare a uscire dal tunnel. E abile nel richiamo insistente – l’unico sul quale ha calcato l’enfasi emotiva – all’orgoglio italiano nello scontro sullo scacchiere europeo.

Con questa comunicazione, al tempo stesso empatica e pragmatica, Conte è riuscito a tenersi stretto il bastone di guida del paese, proprio quando molti pensavano che eventi così turbinosi lo avrebbero messo fuori gioco. La partita, però, è solo all’inizio. Ed è probabile che, appena saremo usciti dalla fase più drammatica, sulla scena ritorneranno gli urlatori. E con tutta la grinta di chi è stato costretto a starsene a bordo campo. Spetterà ai cittadini decidere se tornare alle vecchie abitudini. O provare a fare tesoro di questa terribile esperienza, e cambiare – almeno in parte – il registro. Pretendendo meno asserzioni, e più argomentazioni.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 27 aprile 2020).

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