L’altra metà di Dio – Ginevra Bompiani ed. Feltrinelli

Difficile negare che Jahvè sia stato un Dio persecutore/devastatore. Si pensi solo al Diluvio universale o alla distruzione delle città di Sodoma e Gomorra, abitanti compresi. Con l’uomo d’altronde tale divinità si era comportata in modo punitivo sin dal tempo dell’Eden. Adamo ed Eva infatti, poiché osarono disubbidirgli, vennero cacciati dal paradiso terrestre e costretti a vivere faticosamente sulla terra in una condizione di mortalità a causa della maledizione da parte di chi sarà chiamato con il poco rassicurante appellativo di Signore degli eserciti, il quale, dopo il cosiddetto peccato originale, così proclamò al nostro progenitore: “maledetto il suolo per causa tua! / Con dolore ne trarrai il cibo / per tutti i giorni della tua vita. / Spine e cardi produrrà per te / e mangerai l’erba dei campi. / Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, / finché non ritornerai alla terra, / perché da essa sei stato tratto: / polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,17-19).

La nostra storia insomma nascerebbe con una condanna e all’insegna del castigo. Ma, risultando alquanto numerosi gli episodi biblici d’inclemenza da parte di Jahvè nei confronti delle sue creature, viene spontaneo chiedersi perché il buon Dio si sia comportato in modo così severo con l’umanità. Ginevra Bompiani, nel suo ultimo saggio intitolato L’altra metà di Dio (Feltrinelli), ha idee chiare a tale proposito: “La cacciata dal giardino dell’Eden e il delitto di Caino sono storie nate dall’interpretazione della vita come punizione”. Una visione del mondo cupa, fatta di divieti che puntualmente verranno trasgrediti o di sottomissioni più o meno pavide all’autorità per antonomasia: quella di Dio, vero e proprio padre e padrone.

Emblematico a questo proposito, secondo l’autrice, il comportamento di Abramo nei confronti dell’amatissimo figlio che il patriarca tuttavia è pronto a sacrificare, sgozzandolo, perché Jahvè questo gli ha imposto: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen 22,2). Tale sacrificio ‒ che poi, come tutti sanno, Dio non pretende venga portato a termine davvero, bastandogli il fatto che Abramo sia pronto ad eseguirlo ‒ secondo Bompiani costituisce: “l’atto fondante del diritto paterno” con cui i padri avranno appunto a lungo il diritto di proprietà su mogli e figli.

Anche nel mito greco ‒ che assieme a quello biblico rappresenta la narrazione fondante della cultura occidentale ‒ un genitore maschio è disposto a sacrificare una sua figliola su indicazione di un indovino/profeta. Si tratta di Agamennone, che, per ottenere il vento necessario a far veleggiare la sua flotta verso Troia, immolerà la fanciulla Ifigenia. Però, si/ci domanda Bompiani: è possibile individuare altre storie, altri miti antecedenti a quelli citati, che narrino in maniera diversa un modo di rapportarsi tanto aggressivo/punitivo nei confronti della vita e dei nostri simili; tenuto conto del fatto che pure le vendicative dee della mitologia greca sono invenzione maschile? La risposta che il saggio cerca di articolare è alquanto chiara: sì, all’alba della civilizzazione umana, nella preistoria, possiamo trovare narrazioni assai dissimili che ci parlano di un modo alternativo di concepire la religiosità/spiritualità. È questa l’altra metà di Dio.

Una divinità che non è vista come un padre, bensì come una madre, la Grande Madre o la Grande Dea. Sono giusto questi i: “nomi dati alla figura che raccoglie intoro a sé una civiltà matrilineare, matrifocale, pacifica, mutuale, egualitaria” ‒ puntualizza la nostra autrice ‒, “che caratterizza diverse popolazioni dell’epoca neolitica e affonda le sue radici nel Paleolitico”. Presso tale civiltà ‒ presente in un periodo lungo decine di migliaia di anni nella vasta regione chiamata dall’archeologa Marija Gimbutas: Antica Europa ‒ per quanto le donne occupassero, a quanto pare, una posizione dominante, non vi sarebbe traccia del predominio di un sesso sull’altro, bensì una convivenza pacifica. Questa civiltà non utilizzava la scrittura e quindi la Dea (della fertilità e della natura) non ha ispirato alcun libro sacro, ma il suo culto è testimoniato da innumerevoli sculture e miniature.

Stiamo parlando del cosiddetto matriarcato: l’epoca ginetocratica che avrebbe preceduto il patriarcato e di cui per primo scrisse, a metà ottocento, Bachofen. Certo, oggi detto studioso svizzero viene considerato appena un “affabulatore”, ammette Bompiani, ma studi archeologici recenti hanno messo comunque in luce le tracce di un periodo pre-patriarcale esteso ben oltre l’Europa. Certo, c’è il rischio di idealizzare tale età ‒ dove si ipotizza i maschi non avessero ancora il predominio sulle femmine ‒ o di dipingerla come idillicamente aconflittuale o egualitaristica. Resta una considerazione non da poco, conclude l’autrice, ovvero quella di ritenere possibile: “che un altro mondo sia già stato, che lo abbiamo dimenticato”. Inoltre forse non abbiamo letto con sufficiente acume le nostre storie, le nostre narrazioni religiose; e soprattutto resta il fatto: “che qualcuna di esse ce la possiamo raccontare di nuovo”.

Francesco Roat

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