L’America in guerra contro se stessa

La vittoria di Joe Biden alle primarie del suo partito in South Carolina è una fotografia di come sia cambiato, in questi anni, l’arcipelago dei democratici Usa. E di quanto questo cambiamento sia emblematico dell’incerto cammino che scandisce il destino della democrazia in quel paese. E non solo. Mai come in questa stagione lo sguardo dell’Occidente è puntato sul verdetto del prossimo Novembre.

Il successo a valanga – sempre al di sopra del 95% in ogni contea – mostra un elettorato unanime per il suo Presidente, ben al di là dei dubbi sull’età e lucidità che continuano ad occupare i dibattiti sulla stampa, e dietro le quinte. Segno che, nel silenzio dell’urna, il fattore determinante resta sconfiggere Donald Trump. Il rischio di un suo ritorno alla Casa Bianca ha compattato un partito che, solo quattro anni fa, era aspramente diviso tra la fazione socialdemocratica che – al seguito di Sanders, Warren e Ocasio-Cortez – chiedeva una svolta radicale e quella che incarnava l’establishment del progressismo moderato. Oggi, ciò che conta è fermare la minaccia alla democrazia che Trump rappresenta – senza se e senza ma – per metà della popolazione americana.

D’altro canto, è questa la bandiera che Biden ha scelto per la propria campagna. Imbracciando la denuncia e il linguaggio di chi chiama i cittadini a difendersi contro chi ha già tentato e potrebbe tentare di nuovo un vero e proprio colpo di stato. Resta, ovviamente, da verificare se questo messaggio farà presa in eguale misura e convinzione sull’elettorato ancora in bilico tra i due partiti, e che deciderà le sorti della competizione. Ma la risposta del campo democratico non era scontata, e spingerà gli strateghi di Biden a insistere su questa linea.

Con la conseguenza paradossale che i risultati importanti conseguiti da Biden in questi anni non saranno – nei prossimi mesi – al centro dell’attenzione mediatica. C’è un rapido declino della criminalità violenta, che ha raggiunto i numeri più bassi degli ultimi cinquant’anni; l’inflazione è scesa sotto il 3%, e senza il prezzo di una recessione che molti economisti davano per certa; sono cresciuti gli americani con la copertura sanitaria, e la produzione di energia è ai massimi storici. Nondimeno, i sondaggi rilevano che questi traguardi non fanno breccia negli elettori, non orientano il loro voto. La vera discriminante resta essere contro o a favore di Trump. Ed è su questa che Biden si sta giocando la partita.

Col risultato che l’operato del governo è diventato meno importante anche all’interno del suo partito. Le tensioni fortissime, al limite della spaccatura, che c’erano qualche anno fa si sono come narcotizzate. L’alternativa che aveva agitato le scorse primarie – tra la conquista dell’elettorato moderato o l’inseguimento della vasta area dell’astensione – è stata messa in secondo piano. Quando Trump ha ripreso il controllo dei repubblicani grazie al supporto del ceto medio professionale ed istruito, è saltato lo schema tradizionale della competizione centripeta. Al tempo stesso, il fatto che il suo zoccolo duro restasse la componente bianca operaia delle periferie metropolitane ha raffreddato le speranze di recuperare voti a sinistra.

Il risultato è che, alla vigilia di uno scontro che molti vedono come un armageddon sul futuro della democrazia, le opzioni politiche concrete hanno perso visibilità e peso. Per molti versi, il clima rassomiglia a quello di una nazione in guerra. In cui le differenze programmatiche vengono messe in stand-by perché conta lo «stato d’eccezione» in cui si trova il paese. Come se non bastassero le guerre militari che si stanno moltiplicando sulla scena internazionale, l’America si accinge ad andare in guerra contro se stessa. Chiunque sarà il vincitore, difficilmente potrà siglare la pace.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 5 febbraio 2024)

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