Le due lezioni francesi sul populismo nostrano

Mentre bruciano le barricate di Parigi, tornano attuali le parole di Grillo, quando i – vecchi – partiti di governo lo accusavano di cavalcare la piazza. E lui si difendeva proclamando che, senza l’argine dei Cinquestelle, l’Italia sarebbe stata messa a ferro e fuoco. Come sempre, la verità sta nel mezzo. I leader populisti hanno una buona dose di responsabilità nell’aver rotto – in primo luogo nel linguaggio – gli argini della convivenza civile. E la rivolta dei gilet gialli è certo figlia del clima d’odio che, negli ultimi anni, prima il partito di estrema destra di Le Pen e poi quello ultragauchista di Mélenchon hanno alimentato in tutti i modi. Però, sarebbe illusorio pensare che il distacco – ormai un abisso – creatosi tra le elite e i ceti popolari non poggi su un disagio profondissimo. E – quel che è peggio – sulla convinzione che chi ha le leve del comando non abbia le chiavi di una soluzione a breve termine per migliorare la situazione. E il breve termine è, ormai, l’unico che conta. Più ancora – e più pericolosa – dell’odio, è la sfiducia a far scendere in strada i tanti che non ce la fanno ad arrivare a fine mese.

Da questa prospettiva, il raffronto con la situazione italiana offre due chiavi di lettura. La prima, istituzionale, fa risaltare la stabilità dell’Eliseo, lo scudo di acciaio dei cinque anni su cui Macron può contare a dispetto di qualunque calo di popolarità. Mai però come in questi frangenti la stabilità istituzionale mostra il suo tallone d’Achille sociale. Dopotutto, si sa che, al primo turno, En Marche ha incassato soltanto un quarto dei voti validi. È questa la base reale dei consensi del giovane tecnocrate prestato frettolosamente alla politica. Il resto – il doppio turno e l’elezione diretta a Presidente – sono degli artifici per fornire un’iniezione di governabilità. E, in tempi normali, il meccanismo ha funzionato – quasi – alla perfezione.

Ma non siamo più in tempi normali. Quando lo scollamento tra elite e popolo si fa così vistoso – e pericoloso – è indispensabile che i governanti conservino tutti e due i piedi ben piantati in terra. Nella terra dove si agitano le pulsioni e le illusioni della massa che non riesce a sbarcare il lunario. Questa seconda lezione francese fa apparire meno paradossale il gradimento che l’esecutivo gialloverde continua – stando ai sondaggi – a mietere nell’elettorato. Gli opinionisti più accreditati si divertono a fare le pulci alle gaffe dei neo-ministri – dai congiuntivi ai tunnel inesistenti fino all’iperbole dei 370 gradi – e a elencare le contraddizioni palesi di conti che non quadrano mai. Ma se quelli perfetti di Macron col suo curriculum di banchiere stanno mettendo sottosopra la Francia, forse è perché la maggioranza della gente preferisce uno che promette sbagliando i congiuntivi – come fanno quasi tutti gli italiani – a qualcuno che, in perfetta grammatica, elenca verità sgradevoli.

Ovviamente, prima o poi i conti anche da noi verranno al pettine. E se ne è vista qualche avvisaglia nello scontro in corso con l’Europa. Ma fin tanto che terrà l’alleanza pigliatutto tra Lega e Cinquestelle, le cifre continueranno a ballare, ma senza mai deflagrare. Le stesse tensioni e dissapori che trasformano ogni provvedimento del governo in una rissa tra i due alleati, funzionano come sfogatoio delle due opposte tifoserie. Che possono comunque consolarsi col fatto che i propri beniamini restano alla guida del paese. Una guida che sarà pure a zig-zag ma che, fino ad oggi, ha evitato che lo scontento degenerasse in violenza.

Né è escluso che lo spauracchio francese contribuirà, nei prossimi mesi, a calmierare alcune tentazioni di riportare il paese alle elezioni. Non è un mistero che – con la Lega oltre il 36% – Salvini è molto tentato di provare a prendersi tutto il banco. Riesumando l’alleanza con Forza Italia e puntando alla maggioranza assoluta. Ma, ammesso che gli riuscisse, gli conviene mettere alla porta il partito che, negli ultimi dieci anni, ha saputo meglio di tutti gli altri interpretare il feroce scontento delle masse? Coi populisti in piazza anche a Roma, rimpiangeremmo amaramente gli odierni battibecchi sui decimali.

(“Il Mattino”, 3 dicembre 2018)

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