L’ecologia del gatto

A distanza di anni dalla sua scomparsa, la presenza di Aydin (*) (Guido Manzone) è ancora molto viva fra di noi…. Eccone un’altra testimonianza “evergreen”.

Pur di mantenere  alti i profitti risparmiando sui costi delle depurazioni si è inventata anche l’”ecologia del gatto” che, come è ben noto,prima la fa e poi la copre. Basandosi su questa “filosofia grottesca” si sono tenute a Roma, nella sala dei convegni del CNR due giornate di studio sullo smaltimento nel sottosuolo degli effluenti industriali. In parole più semplici, si è ventilata la eventualità di pompare le acque inquinate in pozzi profondi, anziché depurarle e restituirle riutilizzabili all’ambiente naturale. Questa proposta di smaltimento  trova il suo supporto di base in motivazioni di origine unicamente economica, permettendo , rispetto alla depurazione effettuata con metodi tradizionali, un risparmio del 75 per cento,sulle spese di investimento e del 90 per cento su quelle di gestione. Ci troviamo chiaramente di fronte ad un nuovo e più pericoloso tentativo da parte degli ambienti industriali italiani di opporsi alla politica di depurazione degli scarichi inquinanti, che gi stessi organismi ambientali della Comunità europea hanno fatto proprie. Vediamo le varie fasi. In un primo tempo gli industriali italiani si rifiutarono categoricamente di prendere in considerazione la possibilità di depurare gli scarichi con la scusa di costi troppo elevati. Messi di fronte alla  realtà operante in altri paesi europei, tentarono, con  l’appoggio governativo, di accollare alla comunità o agli enti pubblici il costo delle depurazioni stesse. Ma anche questa linea si può oggi considerare saltata. Infatti il 12 aprile le autorità della CEE riunite a Bruxelles hanno messo a punto il “primo piano europeo di lotta all’inquinamento”, il quale si basa sulla formula proposta anche dalle forze della sinistra italiana, che afferma: “chi inquina paga”. Dice infatti testualmente il documento europeo: “Le spese provocate dalla prevenzione e dalla eliminazione dei fattori nocivi devono essere a carico degli inquinatori. Arroccati sull’ultima spiaggia di resistenza, gli inquinatori italiani, che già da tempo avevano previsto si giungesse ad una soluzione di questo tipo, stanno cercando di aggirare furbescamente l’ostacolo. Hanno quindi tentato di importare in Italia la poco costosa metodologia di scarico nel sottosuolo riprendendola sia dagli Stati Uniti, ove è in uso in circa 300 impianti, sia da alcuni paesi europei in cui è presente a livello di poche e celate esperienze. Per di più contro questa metodologia di smaltimento si stanno oggi duramente battendo gli esperti più qualificati del Nord America potendo essa provocare dissesti ecologici ancora più gravi di quelli che si hanno con gli scarichi liberi nei corsi d’acqua superficiali. A conferma di ciò vi è una nuova legislazione, ancora in corso di discussione, che prevede per la concessione di nuovi permessi di emissione nel sottosuolo una serie tale di studi, di ricerche, di misure preventive ( tra cui anche la neutralizzazione degli effluenti tramite trattamenti di depurazione spinta) per cui, in ultima analisi, il costo di questo nuovo tipo di smaltimento , se effettuato con tutte le precauzioni dovute, verrebbe ad essere molto più elevato della depurazione tradizionale, annullando così ogni precedente vantaggio economico da parte delle industrie inquinanti. In Italia, a far da cavia per queste nuove esperienze si è scelto l’impianto per la produzione del biossido di titanio sito a Spinetta Marengo a pochi chilometri da Alessandria. Nei progetti già presentati in Comune non si parla minimamente di trattamento degli effluvi e tantomeno si fa menzione di riduzione dei tassi di acidità (si tratta nientemeno che di acido solforico!). La richiesta non è nemmeno corredata da dati geologici di una certa attendibilità. Come unica giustificazione vi sono alcuni dati, piuttosto grossolani, ricavati da due perforazioni effettuate dall’AGIP per la ricerca petrolifera, distanti alcune decine di chilometri dallo stabilimento di Spinetta Marengo.  Per ovviare alla innegabile carenza di dati, la Montedison ha sostenuto pertanto la tesi della “trivellazione esplorativa” ossia, in poche parole, si è detto:”Perforiamo, vediamo cosa troviamo, scarichiamo l’acido e poi osserveremo cosa succederà”. I limiti di una operazione siffatta risultano evidentemente elevatissimi ed i danni che ne possono derivare sono per di più irreversibili per decenni, se non per sempre. (Tra l’altro sempre nella zona di Spinetta Marengo alcune falde inquinate da cromo immesso nel sottosuolo dalla stessa Montedison risultano ancora oggi inutilizzabili a trent’anni di distanza). Principalmente, secondo quanto ci insegnano le esperienze già attuate in Nord America, vi è grave pericolo di terremoti associato al rischio della risalita in superficie dei liquidi scaricati. Infatti gli effluenti immessi nel sottosuolo ad altissima pressione provocano delle tensioni interne alla roccia porosa in cui vengono introdotti aumentandone la fragilità e dando origine a fenomeni di tipo sismico. Le interazioni tra l’aumento delle pressioni interstiziali e di strato creano un meccanismo che porta alla frattura delle volte dei bacini ritenute impermeabili. Contemporaneamente a causa di reazioni chimiche tra gli effluenti iniettati e le rocce recipienti si possono avere fenomeni di ulteriore aumento di pressione, associati ad azioni impermeabilizzanti e quindi alterazioni vistose tra le possibilità di assorbimento calcolate a livello teorico e quelle reali. Conseguentemente si può avere una diffusione anomala degli effluenti con migrazione sotterranea degli stessi anche a decine di chilometri dal punto di scarico. Al riguardo vi è un’ampia letteratura citata da E.C.Donaldson del Bureau of Mines (U.S.A.) che illustra crolli dovuti a terremoti, pozzi per acque potabili che all’improvviso si sono messi ad eruttare acidi e petrolio, rigurgiti di sostanze corrosive all’interno degli stessi stabilimenti che utilizzavano i pozzi di scarico. Tutte queste eventualità sono del resto assai ben conosciute dalla Montedison, industria patrocinante il convegno di Roma, anzi sono state evidenziate con estrema chiarezza e drammaticità da molte relazioni presentate nel corso dei lavori. Proprio in questa apparente obiettività scientifica si realizza il massimo di mistificazione. Infatti il margine di rischio  è tanto elevato che nemmeno un complesso economico di così illimitati poteri, come il monopolio chimico di Stato, si è sentito di accollarsene i peso. Si è quindi cercato di scaricare la responsabilità della decisione sugli organismi scientifici statali che hanno dato l’avallo al convegno e sulle autorità regionali, provinciali e comunali direttamente interessate alla cosa. Se questa iniziativa della Montedison dovesse passare, qualsiasi cosa capiti, non si potrà accusarla di non avere bene evidenziato i pericoli che ne sarebbero derivati. E’ stata questa una strategia veramente abile, una chiamata in correo, predisposta per legare in un’unica catena di responsabilità sia la vittima che il carnefice. Tra l’altro, in questo modo, si finirebbe col porre un grave freno alla tecnologia delle depurazioni, oggi appena agli albori. Siamo infatti certi che se venissero convogliati investimenti adeguati per studi e ricerche sulla depurazione degli scarichi, nel giro di pochi anni sarebbe possibile mettere a punto nuove e valide metodologie di recupero di quegli stessi elementi che oggi vengono scaricati distruttivamente nell’ambiente, permettendo così non solo di evitare gli inquinamenti ,ma anche di riutilizzare per l’economia umana centinaia di migliaia di  prodotti chimici, di metalli, di materie prime la cui richiesta cresce in continuità. Stesso discorso vale per le acque, sempre più carenti nel nostro Paese. Non è studiando nuove e più raffinate e pericolose forme di spreco che si risolve il problema ecologico. Queste semplici verità, il grande monopolio non le può e non le vuole capire, altrimenti entrerebbe in contraddizione con se stesso.

(*) GUIDO MANZONE

L’UNITA’ 20-04-1973

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