L’implosione dei partiti personali

La personalizzazione è, al tempo stesso, la forza e la maledizione dei partiti. Senza un leader forte, capace di sfondare in tv e in rete, e in grado di tenere a bada le correnti e le spinte scissionistiche alimentate dal proporzionale, nessun partito riesce a decollare. Però, questa stessa spinta propulsiva diventa il suo tallone d’Achille. Se il capo inciampa, o declina, il partito personale diventa a rischio di implosione. Prendete le due vicende di Forza Italia e dei Cinquestelle. All’apparenza così diversi – per ideologia, retroterra, militanti – eppure in preda alle stesse convulsioni. Che hanno origine nel medesimo virus: una crepa al posto di comando.

Il caso di Berlusconi è clamoroso. Sono almeno otto anni, dal fatidico defenestramento a mezzo Monti, che la sua leadership è apparsa traballante. E è cominciata una emorragia di voti che, alle ultime elezioni, si è trasformata in un vero e proprio salasso. Il problema era sotto gli occhi di tutti. Il Cavaliere non stava più in sella. Quali che fossero le ragioni, la sua stagione era al tramonto. Ma come fare a sostituirlo? Per definizione, un partito personale si identifica col suo fondatore. Ammesso che voglia farsi da parte – e Berlusconi non ne ha mai avuto troppa voglia – chi e come è chiamato a succedergli? Le truppe gli obbediranno? E gli elettori si convinceranno a votare comunque il simbolo senza il sigillo di garanzia del leader? La successione è un evento rischioso. Rischiosissimo. E la cronaca di queste settimane lo conferma. Con i big forzaitalioti che litigano dalla mattina alla sera. Ce la si può prendere con gli eccessi di protagonismi, o di appetiti. O con l’assenza – si dice sempre così – di una chiara visione programmatica. La realtà è che il carisma del capo è come il coraggio di don Abbondio. Se uno non ce l’ha, non si eredita.

Quando Grillo è uscito – quasi – di scena, ho pensato che ai Cinquestelle sarebbe toccata la stessa sorte. Anche loro erano un partito superpersonalizzato. Senza le straordinarie doti mediatiche del grande comico, non avrebbero mai trovato la forza di attrazione che li ha fatti decollare in pochissimi anni. Però, rispetto al modello monocratico di tutti i partiti personali, presentavano una differenza. I capi erano due, in condominio. Uno comunicava in pubblico, l’altro – in privato – controllava la rete organizzativa a mezzo web. Consentendo un livello di centralizzazione del comando che nemmeno Berlusconi aveva avuto. La successione al duopolio si annunciava più complicata. Però, anche meno azzardata. Se bucava una delle due ruote, c’era sempre quella di scorta.

Così è stato quando la scomparsa di Gianroberto Casaleggio ha lasciato il server senza timoniere. Grazie alla benedizione di Grillo, il figlio Davide è potuto restare alla guida dell’azienda partner. E, poco dopo, quando il supercomico ha annunciato che era stanchino e voleva passare la mano, è stato con il benestare di Davide che Di Maio ha assunto il ruolo di capo politico del Movimento. Dunque, contro le mie previsioni, sembrava filare tutto liscio. Fino a quando non è cambiato il vento.

Non penso che il calo – alquanto brusco – dei consensi dei Cinquestelle siano dipesi da errori di Di Maio. Che anzi, vista l’inesperienza e il compito immane che ha dovuto affrontare, se l’è cavata abbastanza bene. E nemmeno c’è stato un flop clamoroso di Casaleggio. La cui sovranità elettronica non è stata apertamente contestata dalla base, malgrado i ripetuti infortuni di funzionamento e trasparenza, e le denunce del Garante per la privacy. No. Il capitombolo dei pentastellati è dipeso soprattutto dal fatto che hanno avuto la sfortuna di imbattersi in un competitor più bravo di loro. Sia con la leadership – il capitano è uno che buca Instagram anche quando mangia Nutella. Sia con il web – i selfie autocratici di Salvini funzionano meglio del cyberpartito di Casaleggio.

E ora, come la mettiamo? Di Maio le proverà tutte. Darà un po’ di spazio agli altri leader – Di Battista, Fico, magari anche qualche volto nuovo che non guasta. Cercherà – per l’ennesima volta – di mettere in piedi un qualche straccio di struttura organizzativa che unisca centro e periferia senza passare solo per il server di Davide. Ma l’impresa è ardua, richiede tempi lunghi, e finirà, molto probabilmente, col creare più scontenti che soluzioni. Tra i vantaggi dei partiti personali è che, quando prendono l’abbrivio, crescono molto rapidamente. Mentre per quelli tradizionali, vecchio tipo, ci vuole molto olio di gomito e molta, moltissima tenacia. E, di questi tempi, chi ne ha?

Meglio – per i Cinquestelle – augurarsi che, mentre provano a tappare qualche falla, inciampi pure il loro competitor. È vero che oggi ha il vento in poppa. Ma ce l’aveva anche l’altro Matteo. E sono bastati pochi mesi a capovolgerne il destino.

(“Il Mattino”, 1 luglio 2019)

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