L’incognita Trump e il futuro della democrazia

La scelta recente di Joe Biden di puntare tutte le sue carte sulla minaccia che Donald Trump rappresenta per la tenuta della democrazia non riguarda solo l’America. Nell’anno che si è appena aperto andrà al voto il 40% della popolazione mondiale. Le nazioni più popolose – India, Indonesia, Pakistan, Bangladesh – sommano più di due miliardi di abitanti. Appartengono a quel global south rimasto agnostico sulla guerra in Ucraina, e in cui stanno crescendo gli orientamenti antioccidentali. Se Trump dovesse prevalere, le conseguenze si avvertirebbero presto sullo scacchiere degli equilibri globali.

Ci sono, dunque, ottimi motivi per suonare l’allarme. Resta, però, da valutare quanto si tratti – sul piano tattico – del modo più efficace per invertire il trend sfavorevole dei sondaggi. Un primo dubbio riguarda il tentativo di fermare Trump imboccando la via giudiziaria. La denuncia dell’ex-presidente come «insurrezionista» per l’assalto dei suoi seguaci, tre anni fa, a Capitol Hill, ha già portato a due sentenze che impedirebbero a Trump di partecipare alle primarie in Colorado e Maine. L’appello dei repubblicani è approdato alla Corte Suprema, che dovrebbe formulare il verdetto prima del fatidico Supermartedì del 5 marzo.

Su nove membri della Corte, però, sei sono conservatori, di cui tre nominati da Trump. Sono, quindi, alte le probabilità che i giudici si esprimano a favore dell’ex-presidente, con un effetto boomerang sullo scontro in atto. Da quel momento in poi, infatti, la candidatura di Trump riceverebbe il bollino della legittimità direttamente ed esplicitamente dal massimo organismo indipendente del sistema istituzionale americano. A quel punto, potrebbe Biden insistere sul medesimo tasto, continuando ad additare il rivale come un pericoloso golpista?

D’altro canto, fino ad ora queste accuse gravissime non sembrano avere intaccato lo zoccolo duro dei trumpisti. Oltre un terzo degli elettori repubblicani resta convinto che l’ex-presidente non abbia alcuna responsabilità negli scontri del 6 gennaio, e che si tratti di una montatura dell’establishment democratico. Un’altra quota rilevante continua a far parte dei cosiddetti «negazionisti», sostenendo che l’elezione di Biden non sia stata del tutto regolare. Una posizione che coinvolge la stragrande maggioranza dei quadri del partito, inclusi deputati e senatori. E che è stata recentemente ribadita dallo speaker della Camera, Mike Johnson, che ha parlato di una palese «violazione della Costituzione».

Una spaccatura così radicale e consolidata del paese non lascia molti margini di ricomposizione. La scelta – per certi versi obbligata – di chiamare Trump a rispondere in tribunale del suo comportamento non sembra avere molte prospettive di successo. I tempi dei processi si allungano, e anche se eventuali condanne arrivassero prima del voto non renderebbero l’ex-presidente ineleggibile. L’indicatore più esplicito del clima che si sta diffondendo viene dai dati sui finanziamenti aziendali alle campagne elettorali. Contrariamente alle dichiarazioni di appena qualche mese fa, le grandi corporation stanno continuando – come da tradizione – a foraggiare entrambi i partiti. Perdendoci un poco la faccia, ma badando bene a non perdere i buoni rapporti con Trump.

Non sorprende che, in questa situazione, si sia levata preoccupata la voce di Barack Obama. Chiedendo un immediato cambio di passo, a cominciare dalla sostituzione dei vertici della macchina elettorale di Biden. Ma difficilmente basterà. Alle origini dell’impasse dei democratici c’è l’incapacità di accettare che la verità fattuale può non essere sufficiente a cambiare le convinzioni dei votanti. Come si è visto poche settimane fa con la vittoria di Milei in Argentina, il voto di opinione razionale viene sempre più spesso surclassato da quello dell’infatuazione ideologica. È stato così agli albori delle nostre democrazie, con le bandiere di capitalismo e socialismo che sventolavano su opposti steccati. Solo che allora c’erano i partiti – e il loro personale professionale – a filtrare e mediare le contrapposizioni sociali. Oggi al comando ci sono i leader intenti, al contrario, ad aizzarle. Con conseguenze impossibili da prevedere, e gestire.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 8 gennaio 2024).

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