Lo strano caso di Robert Louis Stevenson

Quando si pensa che la scrittura sia libertà e liberazione, viaggio e avventura, non può non venire in mente uno scrittore che ha segnato il secolo XIX.
Nato a Edimburgo nel 1850, Robert Louis Stevenson è stato uno scrittore molto amato, ma troppo spesso sottovalutato, un uomo che ha amato il viaggio, un uomo che ha sognato e che ha fatto sognare grazie alla sua immaginazione.
Figlio di un ingegnere specializzato in costruzione di fari e di una figlia di un reverendo presbiteriano (Lewis Balfour), Robert Louis Stevenson fu in gioventù “costretto” a confrontarsi con il mondo religioso presbiteriano, per poi passare a idee radicalmente opposte: nel periodo universitario, prima nella facoltà di Ingegneria di Edimburgo, poi in quella di Giurisprudenza, si proclamava socialista ed ateo e viveva una vita da bohémien, elementi che sarebbero ritornati nella sua vita, nonostante futuri ripiegamenti su posizioni più moderate; a questo periodo risalgono anche i suoi primi contributi da giornalista.
Stevenson ebbe la necessità di viaggiare spesso per via della tubercolosi di cui soffriva sin dall’infanzia. Durante uno di questi viaggi incontrò Fanny Van De Grift, sposa di Samuel Osbourne, dal quale ebbe Lloyd, il figlio che fu molto amato da Robert. Infatti Stevenson si sposò con Fanny in California e con lei e suo figlio Lloyd ebbe la possibilità di viaggiare molto, fino a decidere di stabilirsi nelle isole del Pacifico, cioè nelle isole di Samoa.
Eppure quella Edimburgo dell’infanzia tornerà sempre alla mente (vedi Weir of Hermiston), fino alla fine, nel 1894, quando lui si fece strenuo difensore del “diritto della gioia di vivere” dei Samoani, contro i soprusi dei colonialisti europei.
Proprio i Samoani dedicarono un solenne funerale a Stevenson, per tutti loro il “narratore di storie”, il maestro che sapeva raccontare in maniera unica le vicende di terre e mari, di miti e leggende di grande impatto emotivo.
Ma soffermiamoci sui suoi scritti più importanti, che ne denotano la grandezza di scrittore e di intellettuale. La sua prima opera risale al 1877, Una vecchia storia, ma è nel 1883, con L’isola del tesoro, che raggiunge la notorietà presso i suoi contemporanei. Questo è un romanzo di formazione avventuroso, ricco di spunti e di dettagli che contraddistinguono nel bene e nel male i protagonisti. Già qui un tema caro a Robert, quello del doppio, della disgregazione dell’io, ben evidenziato dalla figura di Long John Silver, il pirata dal cuore “buono”, ma con chi è buono con lui, ovvero Jim Hawkins, il ragazzo che scopre il mondo, il suo brutto e il suo bello, che non è il tesoro di Flint, ma la scoperta di se stessi attraverso quel viaggio verso un’isola “maledetta”, dalla quale però potrà tornare nel Regno Unito con tanto oro, ottenuto tramite l’impegno e la buona azione: la formazione del proprio essere.
E come non citare Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde, forse il suo capolavoro, breve romanzo fra l’horror e la denuncia sociale. Sì, perché questo romanzo non è un semplice libro di intrattenimento, ma la presa di coscienza della “volgarità” della morale vittoriana, rappresentata da Jekyll, che non rappresenta banalmente il Bene, ma è un borghese che scopre il suo disfacimento morale tramite l’uso di una pozione che lo trasforma in Hyde, il Male bestiale, ferino. Hyde è captivus, prigioniero delle proprie passioni e dei propri impulsi. È un romanzo figlio dello studio della teoria evoluzionistica di Charles Darwin e della sociologia di Herbert Spencer, dunque una critica feroce ai modelli della sua società. La follia di questa società nasce da un incubo di Stevenson, un ex studente del pensiero socialista che, nonostante posizioni da conservatore, scopre nell’ipocrisia dell’uomo borghese la chiave per comprendere la sua contemporaneità. Anche qui torna il tema del doppio, forse ancora più evidente, ma anche quello della presa di coscienza, che porta all’autodistruzione di Jekyll e quindi di Hyde. Un romanzo sconvolgente, che deve essere inserito in una lista di libri da leggere e rileggere, giustamente. Potremmo già chiudere qui il caso di Stevenson, per dichiarare che sembra senza fondamento ridurre Stevenson ad autore “minore”.
Non dimentichiamo però Il Master di Ballantrae, dove torna il tema del doppio, oppure i suoi racconti del terrore, sulla falsa riga di Edgar Allan Poe, come Janet La Storta o il romanticissimo e grottesco Olalla, l’immancabile Markheim
Stevenson è grande perché “pare che voli”, come sosteneva Italo Calvino, che era suo grande ammiratore, così come lo erano Cesare Pavese, Sting, Ernesto Che Guevara e tanti altri personaggi importanti della nostra cultura.
Ci piace però citare Jorge Luis Borges in merito a Stevenson: “Fin dall’infanzia, Robert Louis Stevenson è stato per me una delle forme della felicità”.
Proprio la felicità o, meglio, la ricerca della felicità sembra essere un argomento topico e collante della narrativa stevensoniana, ispirata dai maestri Walter Scott per il romanzo storico, da Robert reso sempre più avventuroso e “favolistico”, e Charles Dickens, dal quale ha ripreso il gusto per il favoloso e per la denuncia sociale: questa ricerca della felicità è una ricerca di ordine nel caos del mondo borghese di epoca vittoriana, disegnato dalle sfumature dei suoi personaggi, mentre Stevenson rivolge uno sguardo anche verso il futuro.
Insomma, Robert Louis Stevenson oggi va assolutamente rivalutato in positivo, letto e riletto, perché la sua deliziosa narrativa, ricca di suggestioni e di immagini così “fantasiose”, può portarci solo ad una presa di coscienza interiore forte e verso quello che definiamo la “ricerca della felicità”.

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