Quando m’accorsi di non esser più ragazza

Madrid. Viaggio da sola.

L’aeroporto è immenso e “regale”: volte altissime, marmi, colonne e illuminazione scintillante lo diversificano dalla modernità uniforme di quelli che ho conosciuto.

E’ lungo il percorso in taxi verso l’hotel dall’accoglienza cortese e impersonale di un luogo che vede passare una moltitudine. Impaziente di affrontare la città, ma sprovvista di una mappa che incautamente non ho richiesto al concierge, mi sento impavida al punto di suonare il campanello dell’ambasciata americana dove un giovane militare di guardia, dalla divisa impeccabile, non lascia trasparire lo stupore di trovarsi di fronte una signora dall’Inglese claudicante e con pazienza si prodiga d’indirizzarla alla vicina fermata dell’autobus per raggiungere il centro.

Tutto brilla di pulizia dai vetri della pensilina all’interno del mezzo, nuovissimo. Il paragone con i nostri è inevitabile. Sono emozionata ma decisa a mettermi alla prova.

La città è piena di vita e rassicurante anche se non priva d’incognite per una donna che giri da sola con l’aria da turista. Oltre l’imponenza degli edifici governativi e degli affari, sono colpita dall’eleganza e dalla bellezza delle persone. Ma gli altri… quelli normali mi dico, dove li avranno nascosti? E poi, non una pattumiera ridondante di rifiuti, non un pezzo di carta per terra né mozziconi di sigaretta: beh, mi rispondo, non lontano da dove mi trovo ci sta il re ed il suo palazzo è raggiungibile a piedi. Rimando la visita all’indomani. Plaza Mayor, il centro della movida, sarà la meta della serata.

Quasi padrona del senso d’orientamento, il mattino dopo mi dirigo verso il Palazzo Reale, dalla maestosità degna di ciò che rappresenta ma è il Museo del Prado la meta del pomeriggio, una costruzione all’altezza dei tesori che custodisce e dalla perfetta organizzazione di accoglienza: pensi di perderti in un oceano di bellezza senza tempo, pur attraversando il tempo e la Storia.

In alcune sale pittori sono intenti a riprodurre le opere d’una collezione talmente ricca da disorientare. Incontro Rubens e Velasquez per poi dedicarmi esclusivamente a Goya e acquisire una conoscenza più approfondita almeno di un autore che mi ha sempre affascinato.

E’ il tramonto quando esco senza essermene resa conto. Sono frastornata e stanca, i tempi di reazione rallentati quando mi si para davanti un “Banderas” sfrontato, sicuro dei suoi riccioli bruni, dello sguardo di velluto e del sorriso accattivante. Non c’è ombra di aggressività, ma la sicurezza di un giovane gigolò che con gentilezza ed occhio allenato offre la sua merce.

Segnora, quiere un Hidalgo?”

Disorientata e ammutolita mi blocco, le gambe di legno. Avvampo mentre sento risalire uno stupore tremulo, non tanto per il tentativo di abbordaggio quanto per la sorpresa di me stessa. Ma sono proprio io quella che costui sta vedendo?

Segnora… “

A fatica riesco a voltarmi e mi allontano in preda a brividi d’indignazione e dolore, come fossi precipitata nel buco nero d’una improvvisa quanto affliggente consapevolezza. I miei primi cinquant’anni mi piovono addosso, i cinquant’anni che avevo mandato via dalla percezione di me stessa con un gesto infastidito della mente. M’accorgo per la prima volta di quanto m’appaia breve quel pezzo di vita senza passato che osservo tutto intero nell’attimo del presente. Allora è così che funziona … sono un battito di ciglia insignificante nell’immensità del Tempo di cui, da questo momento, non sprecherò il mio istante. Ed è con questo pensiero che avanzo con la sfrontatezza d’uno sparviero per offrirmi una cena senza ritegno, scegliendo come sempre un punto d’osservazione dal quale annotare gesti e persone, come un film. Ma il tarlo procede inesorabile scavando nelle mie certezze, rese più fragili al primo incontro con lo specchio dopo la rivelazione. Eppure sono io, non diversa da ieri, a sentirmi un’altra.

E’ monumentale la scultura di Botero esposta nel viale. Il traffico scorre silenzioso alla luce del mattino nell’ampia arteria che attraversa la città in quella zona e, dalla panchina sui cui siedo, tutto ciò appare lontano all’infuori della donna di granito, nuda, morbida, opulenta di forme e adagiata sul fianco come in attesa di carezze. Vorrei essere la bambina che si è arrampicata per accoccolarsi nel suo grembo e che da lì non vuol più scendere, infastidita dai richiami della madre.

Desidero abbandonarmi alla città libera dall’ansia di accatastare in tempi limitati visioni frettolose di cui presto perdere la nozione, come accade in certi viaggi organizzati. Vedrò di meno ma “vedrò” di più.

Ogni tanto alzo gli occhi dal libro, la bambina se n’è andata, ma ecco che un altro Banderas, più maturo e scaltro del precedente, si siede accanto a me tentando una conversazione. Credo di sapere dove vuole arrivare. Dopo un breve tempo, mi rivolgo a lui decisa a precederlo con il mio Spagnolo sgrammaticato e lo sguardo fiammeggiante: “la segnora no quiere un hidalgo” gli arriva come un diretto.

Sono tornata io.

Marina Elettra Maranetto

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