MUOS di Niscemi: quasi una storia di famiglia…

Il mare l’ho visto la prima volta a tre anni e mezzo, nel remotissimo viaggio coi miei in Sicilia, dove non sarebbero più tornati. Da lontano, inizialmente, dall’alto del ferry Villa San Giovanni-Messina. Da vicino, anche troppo, qualche giorno più tardi, sugli scogli di Gela, raggiunto con spavento, dalla spuma di un’onda improvvisa più energica delle altre. In assoluto i primi ricordi nitidi e indubitabili che conservo dell’esistenza. Era il settembre 1949: non avevo idea ovviamente del fatto che poco più di sei anni prima, il 10 luglio 1943, precedendo di quindici giorni e così concausando la caduta del fascismo, gli angloamericani avessero preso terra in Sicilia, dall’aria e dal mare, proprio lì, nella piana di Gela.

Che si vede magnificamente, con un panorama la cui bellezza immobilizza, dalla campagna circostante la sovrastante cittadina di Niscemi. Il paese natale di mio padre, giusto nel 1900, in una famiglia contadina  numerosissima (tredici i figli del nonno da due successive mogli) quanto ovviamente poverissima. Sarebbe “salito” al al nord nel 1923, in tasca un periglioso diploma tardivo in ragioneria, conseguito da reduce dell’ultima leva chiamata alla Grande Guerra, ma precedentemente strameritato, se raccontava la verità, in circostanze degne dei  Miserabili: studiando ad esempio nei tardi pomeriggi in piedi davanti alle vetrine illuminate di Catania per risparmiare su riscaldamento e luce (familiarità di un gruppo studentesco con il prosindaco don Sturzo e il di lui segretario, suo quasi coetaneo, Mario Scelba nella vicina Caltagirone; Giuseppe Villaroel professore di lettere al “Gemmellaro” di Catania). Vincitore di un concorso presso la Procura delle Imposte, avrebbe abbandonato nel giro di un solo biennio l’ufficio pubblico, passando al lavoro bancario («Nella Voghera di allora tasse e terrone insieme erano due parole di troppo: sul terrone non potevo farci niente, ho cercato almeno di eliminare le tasse»).

Ma l’estrema povertà dell’isola di provenienza non escludeva, all’epoca, certo la conduzione se non forse il possesso di una minuscola unità terriera. Urmu in siciliano significa “olmo”, e questa era ed è tuttora le denominazione del fondo di famiglia che mio nonno conduceva fino alla sua scomparsa, e che ebbe poi  alterne vicende, ora inflittevi perché sono… piuttosto strettamente legate al Mobile User Objective System (MUOS).

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Non so quanti tra gli amici che leggono ne abbiano seguita o seguano la vicenda. Si tratta, per chi non lo sapesse (vastissimo gruppo, di cui ho fatto molto a lungo a mia volta parte…) di un “sistema di comunicazioni satellitari militari ad alta frequenza e a banda stretta, gestita dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Il sistema è composto da quattro satelliti e quattro stazioni di terra, una delle quali è stata terminata a fine gennaio 2014 in Sicilia [appunto nei pressi di Niscemi].  Integrerà forze navali, aeree e terrestri in movimento in qualsiasi parte del mondo e ha l’obiettivo di rimpiazzare l’attuale sistema satellitare UFO (Ultra High Frequency Follow-On» (Wiki…).

Annunciato nel settembre 2004, avrebbe dovuto contemplare il lancio del primo dei quattro satelliti previsti (con un quinto di riserva) nel 2010: è successo solo due anni dopo. I quattro successivi sono andati in orbita tra il 2013 e il 2016 e risultano tuttora attivi. Delle altrettante stazioni a terra corrispondenti, due sono in funzione negli stessi Stati Uniti, una in Australia e la quarta appunto a Niscemi”. Nel cui territorio municipale l’impianto è stato ubicato: e proprio in quell’area naturale protetta della Sughereta, che la Regione Sicilia aveva istituito nel 1997!

L’attuale, singolarissima e fino a ieri assolutamente ignota ministra della Difesa, ricca di un precedente curriculum di incarichi che il normale cittadino non addentro alle segrete cose militari fatica non poco a decifrare, e che i media accreditano in quota grillina, è intervenuta con marziale fermezza a favore dell’intangibilità dell’impianto. Provocando l’ennesimo mal di pancia territoriale a vuoto di una base pentastellare che ormai, dalla Valle di Susa alla Puglia, fatica a vedere all’opera un non-partito che, soggetto a vistosa trazione leghista, dal governo fa -pressappoco quotidianamente- l’esatto contrario di quanto andava predicando furiosamente dall’opposizione. Avendone poi incassato, il 4 marzo, un corrispettivo lucro elettorale, alla faccia di un 33% da ripartirsi equamente tra fanatici, gonzi e illusi.

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Il mio nome anagrafico è Gioacchino. Sarebbe stato addirittura Gioacchino Maria, a detta di mia madre, e qualche ufficiale d’anagrafe dovrebbe aver pasticciato (in realtà non è così: anche il parrocchiale certificato di battesimo è pago di Gioacchino…). Si chiamava così “ovviamente” anche il già ricordato nonno paterno, scomparso quando a malapena camminavo e che di conseguenza ho conosciuto solo in foto (coppola, baffoni, camicia bianca rimboccata e panciotto aperto). Si chiamarono così uno dei dodici fratelli di mio padre, il suo primogenito maschio (il cugino d’impronta pavesiana di cui dirò tra poco), e alla stessa stregua i figli degli altri fratelli e sorelle, i loro figli e via dicendo. Le famiglie Lodato e congiunte di origine niscemese hanno dato vita nel corso dell’ultimo secolo –prima non so…- a una sequela di Gioacchini tenere il conto dei quali è ormai impresa disperante impossibile.

[ Non ho per lunghissimo tempo avuto un buon rapporto col mio nome, che già nell’infanzia mi sembrava strano e troppo diverso da quelli “normali” degli amici. La mia stessa famiglia dovette rendersene conto, perché da che ho memoria sono sempre stato appellato come mi firmo, e anche la mia modesta e un po’ disarticolata carriera con lo scrivere di cinema mi ha registrato solo così. Il primo momento di relativo sollievo lo ebbi a 12 anni, quando un gruppo di bambini napoletani coi quali giocavo occasionalmente sulla riviera di Chiaia, avendomi “costretto” a confessarlo, vista la mia riluttanza, conclusero: «e cchè cc’è de strano? Un nome come un altro». Il secondo, tardivo, nell’81, quando al Comunale di Alessandria, seguendo giorno per giorno le prove del Barbiere condotte dal maestro Müller, scoprii finalmente e davvero la grandezza di Rossini, commuovendomi doppiamente qualche anno dopo sulla sua tomba-tempietto al Père Lachaise. La terza e definitiva nel 2010, quando il locale «Giornale» pubblicò il bel libretto  Summa Viqueria. Percorso illustrato tra storia, arte e cultura a Voghera, con una magnifica riproduzione a tutta pagina il Sant’Anna e san Gioacchino con Maria Vergine giovinetta del grande Paolo Borroni (1777). L’ho incorniciata e la tengo accanto al letto, con la vergogna di aver frequentato per vent’anni come parrocchia la chiesa dov’è collocato, convinto, con superficiale e imperdonabile noncuranza, si trattasse di una solita Sacra Famiglia ].

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                                               Camminiamo una sera sul fianco di un colle, /  in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo / mio cugino è un gigante vestito di bianco, / che si muove pacato, abbronzato nel volto, / taciturno. Tacere è la nostra virtù. / Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo / – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – / per insegnare ai suoi tanto silenzio. / Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto / se salivo con lui: dalla vetta si scorge / nelle notti serene il riflesso del faro / lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…” / mi ha detto >…

                                                                                                           [ Cesare Pavese, I mari del Sud ]

No: il mio cugino e omonimo non ha a che fare con Torino, come la voce narrante di Pavese, e neppure io. Anzi, è un siciliano purosangue che non si è mai sognato di muoversi dall’ amatissima isola. Non gli sarebbe mai passato per la testa di stare vent’anni in giro per il mondo per mandarmi una lettera con francobollo dalla Tasmania.  Eppure nello splendido capolavoro poetico/narrativo pavesiano vedo egualmente un nesso, forte come il rapporto tra me e lui anche se non ci vediamo quasi mai. Lui il suo nome lo porta, giustamente, con estremi naturalezza e disinvoltura. Saremmo coetanei se i miei si fossero dati da fare subito dopo le nozze, come i suoi. Porta divinamente i suoi 86, molto meglio di me che ho il ruolo di cugino “minore” con quattordici anni di vantaggio (o di ritardo?). Sono io infatti ad essere finalmente di nuovo  a Niscemi, Sicilia profonda, un tempo in provincia di, ora “libero Consorzio comunale–boh?- di Caltanissetta, a quasi settant’anni da quella prima e finora unica volta. E il luogo cui mio cugino mi sta conducendo –“sul fianco di un colle, in silenzio”…-  è l’Urmu (in siciliano per Olmo, naturalmente), il fondo agricolo che nostro nonno  -e immagino i suoi ascendenti prima di lui- condussero, probabilmente a mezzadria, per moltissimo tempo, prima che la successiva generazione finisse per trascurarlo, lasciandolo del tutto decadere. Fino alla resurrezione incredibile che la mia guida, lavorando quasi da solo, è riuscito infine, negli anni più recenti, una volta liberatosi dal lavoro professionale, a tributargli. Quindi non stiamo salendo a nessuna vetta, anzi: siamo diretti a un luogo che più terragno non si può immaginare, dove ha insistito a lungo per condurmi, pur comprendendo subito che anche della sola idea gli ero infinitamente grato, memore della magìa di quella campagna ricordata, come il mare di Gela, dal remoto infantile.

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Il cugino ha fatto un lavoro magnifico: la scura terra, le colture, la casa colonica riportata all’onor del mondo in un’icastica semplicità che contrasta serenamente col sovrappiù di kitsch notato in paese. La rasserenante panchina contro la sua parete esterna, il pozzo in mezzo ai meli; “la quercia dove si mettevano a leggere mio padre e tuo padre”, mi dice in dialetto indicandomela, riferendosi ai due fratelli anagraficamente e affettivamente più vicini rispetto ai loro altri undici.

Mi si ridestano ulteriori protoricordi d’infanzia: temo che li infliggerò implacabilmente, prima o poi, in altra occasione, rievocando quella “Sicilia come un’infanzia” davvero di stampo vittoriniano, anche perché contengono, paradossalmente, l’unica azione realmente violenta da me commessa vita natural durante (non siamo molto lontani dal Pirandello di Non si sa come).

Ma sono assai più interessanti le rievocazioni del cugino, che si trovava proprio lì, in campagna, e per l’estate e per il sentore della possibile “invasione” imminente, quel fine settimana dell’estate ’43. I suoi ricordi sono nitidi, pur tendendo fatalmente a un’evocazione epica di quella presa di posizione paracadutata, che gli storici militari descrivono invece come piuttosto problematica e malriuscita. “Al cinema i paracadute dei lanci si vedono sempre tutti bianchi” dice: “invece non era così. Lo erano quelli dei soldati: ma per i materiali, degli armamenti, dei mezzi, i colori erano diversi. Verde, blu, marrone: lo scoprimmo nei giorni successivi, quando gli inglesi erano già passati oltre, perché di notte non si distingueva. E non è vero che tutti appena discesi ripiegassero con cura il paracadute, come fanno vedere nei film: li abbandonavano con noncuranza a terra, senza più toccarli. In molti del paese andarono poi  a raccoglierli: se girassimo per le case, vedremmo ancora qualche fodera di sofà o tendaggio alle finestre ricavati da quelle stoffe gloriose…”.

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La vista panoramica sul coacervo di dispositivi elettronici agglomerati su di una superficie assai vasta e gremita è inedita e inquietante, non meno dell’inatteso privilegio di poter fantasticare sullo sbarco in Sicilia, quello immortalato da Rossellini nell’episodio iniziale di Paisà. Anzi, la suggestione della fantasticheria bellico-rievocativa viene scacciata dai timori per possibili nuovi sviluppi militari fino a pochi anni fa impensabili. L’inquietudine ci sarebbe stata del pari nei passati decenni, quando si ripristinava l’eterna giaculatoria dell’asservimento agli Usa e all’Alleanza Atlantica, che ci ha accompagnati, sterile, per decenni (“Fuori la NATO dall’Italia, fuori l’Italia dalla NATO!”…) fino a indurci a tifare per un attimo a favore dell’istantaneo colpo di reni di Craxi a Sigonella. Ma lo è forse ancora di più oggi, in questo stranissimo quadro di politica estera e internazionale in preda a un irresistibile bradisismo, con un governo che non ha ancora ben chiaro che pesci voglia pigliare, e indulge in strizzatine d’occhio alla Russia di Putin senza saper bene che fare riguardo alle enclaves statunitensi che, da Aviano a Napoli appunto alla Sicilia e chissà dove altro sono ormai ben presenti, in uno stato di sostanziale extraterritorialità, sul nostro territorio nazionale. Un quadro che si fa di giorno in giorno più preoccupante, parlando nuovamente di piazzamento di missili e ulteriori testate nucleari, con un ministro degli Esteri dal passato montiano che non si capisce bene cos’abbia a che fare con la “compagine” (?!) di cui è stato fatto entrare a far parte. E’ molto difficile distinguere questa problematica con la serenità autenticamente olimpica dell’Urmu, e col silenzio secolare della quercia. Quella sotto cui i genitori dei due Gioacchini, a loro volta ora seduti lì in pensoso silenzio, si mettevano a leggere, ancora ignari delle due guerre mondiali che stavano per piombare loro addosso come a tutti. come a tutti. E non sembra ancora del tutto certo che la faccenda finisca lì, caro albero muto…

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