Oltre la pandemia: nuove minacce al futuro dell’idea unitaria e dell’integrazione dell’Europa

Pubblichiamo un articolo dei professori Corrado Malandrino – Francesco Ingravalle -Stefano Quirico che,  attraverso le riflessioni degli autori sulle conseguenze della pandemia, deve spingerci a prendere coscienza della profonda crisi che sta attraversando l’Europa. L’articolo è ripreso dal sito DIGSPES

Già alle prese, questa nostra Europa, con una Brexit che non vuol finire bene entro la scadenza del 2020 con un accordo soddisfacente per tutti. Già sotto schiaffo con la più pericolosa e grave pandemia, da un secolo a questa parte, del Covid-19, dilagata in tutto il mondo nell’arco di pochi mesi, ma che soprattutto in Europa ha trovato complessivamente il più rilevante focolaio di diffusione e di morti. Al punto di far saltare tutti i bilanci dei paesi membri con disoccupazione crescente, deficit alle stelle e diminuzioni dei PIL che hanno costretto la BCE a rilanci maggiorati del Quantitative Easing (QE, il noto bazooka messo a punto dal presidente Mario Draghi e continuato con Christine Lagarde), e la Commissione UE e l’Eurogruppo a varare misure (MES, SURE, Recovery Fund) che sono in attesa di un’approvazione definitiva da parte del Consiglio europeo.

A complicare ulteriormente la tenuta dei buoni rapporti tra i popoli che formano la comunità europea, e a implementare i pericoli incombenti sulle istituzioni dell’UE, si aggiunge dal 5 maggio 2020 la sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco sulla legalità – dal punto di vista della sua corretta proporzionalità – del programma di acquisto di bond da parte della BCE, il Quantitative Easing appunto, al quale si deve se negli ultimi anni alcune economie europee – l’Italia in primo luogo – sono riuscite a rispondere alle sfide poste dalla crisi economica perdurante e ingigantita dalla pandemia. Si tratta della minaccia forse più pregna di conseguenze nel medio-lungo periodo, che farà capire se gli statisti europei si dimostreranno all’altezza dei compiti storici che vengono posti all’ordine del giorno.

Nella sostanza giuridica, che qui non si può approfondire, il Tribunale costituzionale tedesco sembra non riconoscere la correttezza – in punti fondamentali quali la “proporzionalità” delle manovre autorizzate col QE e la difesa “dell’identità” nazionale tedesca dai danni che proverrebbero da tale mancanza di proporzionalità – della sentenza emessa nel 2018 dall’Alta Corte di Giustizia europea che aveva dichiarato legittimo e legale il QE e, a sua volta, senza contestarne la legittimità, ne afferma nulla la legalità se non verrà dimostrata la corretta applicazione “proporzionale” che a suo avviso non sussisterebbe. Il Tribunale dà perciò tre mesi di tempo alla BCE, e alle istituzioni europee connesse e competenti, per dimostrare l’esistenza di tale “proporzionalità” con argomenti e prove convincenti, imponendo in caso contrario alla Bundesbank (la Banca federale tedesca, che fa parte del sistema delle banche centrali europee e quindi della stessa BCE) di non procedere più all’acquisto di bond, ossia di disobbedire alle istruzioni della BCE di cui non solo fa parte, ma è parte rilevante. Anche se viene precisato che tale sentenza non si applica direttamente alle più recenti disposizioni della BCE originate dal contrasto alle conseguenze della pandemia, in realtà, nel caso la sentenza passasse in giudicato, anche queste corrono il rischio di andare sub judice.

Il presupposto sul quale si basa la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco in questa plateale invasione di campo delle competenze esclusive europee risiede probabilmente nella cosiddetta “clausola di eternità” insita nella costituzione tedesca, secondo cui su determinate materie fondamentali inerenti diritti e doveri inalienabili, tra cui la difesa appunto “dell’identità” tedesca, il Tribunale costituzionale manterrebbe la sua competenza primaria ed esclusiva. Evidentemente il Tribunale costituzionale tedesco ritiene che la moneta unica europea continui a ricadere sotto tale clausola.

La portata radicale di questa decisione è resa evidente, innanzi tutto, dal rischio che venga a concretizzarsi una condizione apparentemente insostenibile: quella dell’esistenza di due ordini giuridici che si ritengono contemporaneamente sovrani in merito a questioni che gli Stati membri hanno concordato di trasferire completamente alle istanze europee nei trattati, in questo caso la moneta unica europea. A questo punto si collegano una serie di problemi politici, oltre che giuridici, di prima grandezza: c’è da chiedersi, in primo luogo, se veramente allora la competenza sulla moneta nazionale sia stata trasferita completamente da parte della Germania (e di conseguenza da parte degli altri paesi membri) all’Unione europea, come recitano il Trattato di Maastricht e tutti i successivi. In caso contrario, cosa ne sarebbe della moneta unica?

In secondo luogo, se una logica simile a quella adottata dal Tribunale costituzionale tedesco prevalesse, che fine farebbe il famoso criterio della prevalenza del diritto comunitario sui diritti nazionali in presenza di materia a competenza esclusiva e/o prevalente dell’UE? Che succederebbe, per esempio, se le corti costituzionali della Polonia e dell’Ungheria potessero affermare di fronte all’Alta Corte europea il loro fondamentale e insindacabile diritto di approvare legislazioni palesemente contrarie allo Stato di diritto e alle regole democratiche per difendere la propria “identità”?

Potrebbe una logica come quella adottata dal Tribunale costituzionale tedesco prevalere? Nei termini dei Trattati, cioè secondo la forza legale dei Trattati, no. Se diamo un’occhiata al capoverso 4 dell’art. 5 del TUE, leggiamo: «In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati». Quegli obiettivi che, secondo l’art. 1 del TUE, gli Stati membri si propongono di conseguire attraverso la cessione di competenze all’Unione Europea. Nell’art. 3, tra gli obiettivi dell’Unione (paragrafo 3, capoverso 3) ci sono «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri». Difficile dubitare che il QE auspicato o temuto rientri (come già il QE 1 – 2015/2018 e il Q.E. 2 – iniziato nel novembre 2019) tra i mezzi idonei a promuovere «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri», soprattutto nella attuale situazione (del resto, si tratta di un dispositivo utilizzato, a esempio, dagli USA nel 2000, dal Regno Unito nel 2009, dal Giappone nel 2013). Che il QE sia proporzionato all’entità della crisi che è già cominciata è assai probabile, semmai si potrebbe dire che è dubbio che esso sia sufficiente, da solo, sul medio periodo a fronteggiare la crisi di durata non prevedibile. Esso, come è noto, è una politica monetaria espansiva condotta da un istituto centrale (la BCE, nel caso specifico) che acquista titoli, a esempio titoli governativi, con lo scopo di aumentare l’offerta di denaro in circolazione e, di conseguenza, di promuovere la liquidità e i prestiti. Così, l’economia può riprendere a funzionare. Sul medio periodo, il rischio maggiore è quello dell’inflazione; sicché, non appena l’economia è ripartita il QE va sospeso. Che si tratti di una misura solidale oltre che proporzionata ai problemi presenti non sembra dubbio (se effettivamente sono questi, realmente, i dubbi che assillano i magistrati della Corte federale tedesca…).

Il richiamo della Corte federale tedesca all’“identità” evidenzia una concezione dell’identità tedesca come concorrente rispetto all’identità europea. Ma l’art. 4, paragrafo 2, del TUE sancisce che «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali». Identità nazionale e identità europea non sono concorrenti nella visione delle cose dei Trattati. Vale, nel rapporto tra gli Stati membri, un orientamento solidale (esplicitato dal paragrafo 3 dell’art. 4 del TUE) che armonizza le identità nazionali, le fa convivere nella comune “casa” europea.

Il precedente tedesco potrebbe innescare reazioni più gravi, se, per esempio, altre Corti di giustizia stabilissero, di fronte alla Corte di Giustizia europea, il diritto di approvare legislazioni contrarie allo Stato di diritto e alle libertà democratiche che in esso si radicano; infatti, come recita l’art. 2 del T.U.E., «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». In tale caso, infatti, esse si porrebbero in contraddizione aperta con i principi basilari dei Trattati (che hanno contribuito a configurare) e, di fatto, fuori dell’Unione Europea che su quei principi si fonda. Ma non basta.

In termini politico-culturali più generali, infatti, il richiamo del Tribunale costituzionale tedesco al valore “dell’identità” come fondamentale e costituzionale ha un curioso retrogusto nazionalista e sovranista. Da questo punto di vista, la sua sentenza possiede i requisiti per diventare nei prossimi anni un caso di studio non solo per i giuristi, ma anche per gli studiosi e gli storici del pensiero politico, nella misura in cui si inserisce nella temperie euroscettica montante negli ultimi decenni. Non è casuale che a provocare l’intervento del Tribunale costituzionale federale sia stato il ricorso presentato da alcuni membri dell’Alternative für Deutschland, nato come raggruppamento di professori antieuro e divenuto ormai il partito politico dei sovranisti tedeschi, al cui interno trovano sempre più spazio componenti e accenti di chiara marca neo-nazista. Quella di AfD, peraltro, appare solo la punta dell’iceberg del mutamento interno all’europeismo tedesco. È infatti risaputo che la costruzione europea del Novecento ha beneficiato a lungo del convinto sostegno della Germania, associato a figure illuminate e carismatiche, come i leader cristiano-democratici Konrad Adenauer e Helmut Kohl, padri fondatori, rispettivamente, delle Comunità degli anni ’50 e dell’UE di Maastricht. Ma anche i socialdemocratici Willy Brandt e Helmut Schmidt, i cui governi hanno avuto un peso decisivo per l’avanzamento dell’integrazione europea sul piano istituzionale ed economico-sociale.

L’euro-entusiasmo della classe dirigente tedesca – in buona misura condiviso dall’opinione pubblica e coronato dall’adozione della moneta unica europea negli anni della riunificazione – sembra tuttavia esaurito. La fine della guerra fredda e la conseguente “normalizzazione” della Germania sul piano internazionale hanno dischiuso scenari inediti circa il ruolo geopolitico del paese, inoculando corpose dosi di pragmatismo nel dibattito tedesco sul futuro dell’Europa. Alla sua evoluzione in senso federativo, prospettiva costantemente presente nella mente di molti cancellieri, Angela Merkel guarda con un certo distacco, preferendo concentrarsi su progetti e dossier di più corto respiro. E in tal modo finisce per ammiccare ai sentimenti della società tedesca, che – pur con le significative eccezioni di grandi intellettuali, fra cui Jürgen Habermas, o di movimenti politici apertamente euro-federalisti, come i Grünen – sta riscoprendo il concetto di “interesse nazionale” e non esita a utilizzarlo come unità misura della politica europea. Nelle sue punte estreme, questa tendenza prelude alla delegittimazione degli ideali solidaristici e comunitari che permeavano l’europeismo tedesco novecentesco, ora palesemente screditato dalle retoriche neo-nazionaliste di AfD e delle correnti sociali e culturali che, più o meno sotterraneamente, rispolverano i toni xenofobi, occidentalisti e völkisch che si credevano confinati nel tragico passato nazista.

Ritornando alle conseguenze sul futuro dell’Europa, che è ciò che qui ci interessa, non sarebbe difficile immaginare quale caos istituzionale la decisione del Tribunale costituzionale federale potrebbe produrre a livello continentale. In questo quadro, infatti, essa si configura come l’ennesimo potenziale fattore di scardinamento e di disgregazione del tessuto istituzionale europeo. Da questa prospettiva, assume nuove dimensioni la crisi del processo di unificazione europea che si arrotola su se stessa da quasi due decenni, a partire dalle difficoltà incontrate dalla piena attuazione del Trattato di Maastricht sui terreni più vicini alla sfera politica, con l’ingloriosa fine del Trattato di Roma del 2004 e i limiti del trattato di Lisbona. Il caos che pervade su più fronti la vita dell’UE oggi – dai debiti sovrani, e le loro tempeste sull’euro, alle disfatte nella battaglia al terrorismo e in tema di difesa e sicurezza; dalle migrazioni ai problemi energetici e ambientali – mette forse in rilievo agli occhi di noi europei il pericolo che, in fin dei conti, quell’unione «sempre più intima» che dovrebbe trovare realizzazione in una federazione europea potrebbe davvero rivelarsi impossibile da raggiungere. E questo sarebbe un vero disastro.

Molti – non chi scrive – cominciano a pensarlo o a convincersene. Specialmente oggi, alla luce di due grandi problemi politici che la pandemia ha messo in grande rilievo (e che la sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco andrebbe ad aggravare) e che toccano due aspetti essenziali riguardanti le scelte che l’Europa dovrebbe fare per uscire dal guado in cui si trova e arrivare a un’unione politica più matura e completa: il rapporto delle sue istituzioni – e di quelle di tutti i suoi Stati membri – con i princìpi della liberaldemocrazia e l’esigenza di una maggiore solidarietà tra le genti europee, senza la quale l’anelito alla pace e l’integrazione economica non possono più bastare per assicurare una vita soddisfacente, sicura e capace di nuovi sviluppi all’Unione. Parlando di (mancanza di) solidarietà, è sotto gli occhi di tutti la contraddizione che divide il blocco dei partner del nord guidati dalla Germania e dai Paesi Bassi, che non sembrano avvertirla sufficientemente, dal blocco dei paesi mediterranei guidati da Francia, Italia e Spagna, sul problema dei cosiddetti “coronabond” o “eurobond”.

Certamente alcune istituzioni europee, dopo i primi tentennamenti, come nel caso della BCE, hanno già preso decisioni di grande importanza nell’aiuto eccezionale da dare alle popolazioni europee con la possibilità di mettere a disposizione un’ingente finanziamento di molte centinaia di miliardi di euro da spendere oltre al budget previsto proprio per le emergenze legate alla pandemia. Anche la Commissione europea e il Parlamento, per opera dei loro rappresentanti, si sono attivati per ampliare il novero di risorse e opportunità a disposizione degli Stati membri più in difficoltà. Resta da verificare quale sarà l’orientamento definitivo del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, cui spetta l’ultima parola. Questo è però il momento di superare reticenze e immobilismi facendo scelte più qualificanti sul piano dell’avvicinamento a una vera Europa unita sotto i profili finanziario, fiscale e politico.

Non meno grave è la tendenza antidemocratica e illiberale che si sta manifestando negli ultimi anni negli atti politico-istituzionali di alcuni membri del patto di Visegrad (Polonia e Ungheria), che
introducono un’altra gravissima contraddizione nella vita e nelle regole dell’UE. Essa è acuita dalla recente decisione del capo ungherese di farsi votare i pieni poteri (una vera scivolata verso una soluzione quasi dittatoriale incompatibile con l’identità e le leggi europee) con la giustificazione apparente, ma in verità priva di fondamento, delle misure necessarie per contenere la pandemia. Che tale giustificazione sia insostenibile lo dimostra l’evidenza che l’Ungheria, pur toccata anch’essa dal Covid-19, non presenta la situazione di gravità ben più visibile di altri paesi come l’Italia, la Spagna, la Francia, in cui più drammatiche – sia quantitativamente sia qualitativamente – sono le cifre dei contagi e dei decessi. Eppure in nessuno di questi paesi, pur in presenza di draconiane misure di contenimento, sono approvate scelte che vanno contro i princìpi della liberaldemocrazia.

La combinazione fra l’emergenza sanitaria e fatti irricevibili come la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco non conferma soltanto i ritardi, l’incompletezza e la fragilità del quadro politico-istituzionale in cui il progetto europeo novecentesco corre il rischio di arenarsi. Ma segnala che si sta creando una situazione nuova, la quale probabilmente esige decisioni (che non siano puri aggiustamenti di comodo) non più rinviabili sul terreno appunto della solidarietà europea e della difesa dei principi di libertà e democrazia contro i più arrabbiati sovranisti e nazionalisti, l’eco delle cui tesi disgregatrici, come si è visto, può trovare riverbero in ambienti insospettabili. Ci si chiede dunque se proprio con tali avversari l’europeismo del XXI secolo dovrà confrontarsi per trarre da questa drammatica emergenza lezioni utili ad aggiornare e riorientare il progetto europeo, salvaguardandone lo spirito originario e garantendo la realizzazione delle sue enormi e ancora intatte potenzialità. Resta la domanda campale: riusciranno i capi e i popoli dell’Europa nei fatti dei prossimi mesi a far valere il principio che non può sussistere l’unità economica e politica senza il rispetto dei valori liberaldemocratici e della solidarietà?

Corrado Malandrino, Francesco Ingravalle, Stefano Quirico
12.05.2020

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